Editoriale
Alcune proposte di iniziativa per opporsi alla violenza contro le donne

di Maria G. Di Rienzo

[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59@libero.it) per questo intervento.

Maria G. Di Rienzo é una delle principali collaboratrici di questo foglio; prestigiosa intellettuale femminista, saggista, giornalista, narratrice, regista teatrale e commediografa, formatrice, ha svolto rilevanti ricerche storiche sulle donne italiane per conto del Dipartimento di Storia Economica dell’Università di Sydney (Australia); é impegnata nel movimento delle donne, nella Rete di Lilliput, in esperienze di solidarietà e in difesa dei diritti umani, per la pace e la nonviolenza. Tra le opere di Maria G. Di Rienzo: con Monica Lanfranco (a cura di), Donne disarmanti, Edizioni Intra Moenia, Napoli 2003; con Monica Lanfranco (a cura di), Senza velo. Donne nell’islam contro l’integralismo, Edizioni Intra Moenia, Napoli 2005. Un più ampio profilo di Maria G. Di Rienzo in forma di intervista é in "Notizie minime della nonviolenza" n. 81]


La violenza contro le donne non é un "affare privato", ma un problema politico e pubblico. Molta acqua é passata sotto i ponti da quando, almeno in Italia, il responso più comune da parte della polizia e del sistema giudiziario alla violenza di genere era "nessun intervento". Ma se abbiamo dovuto tornare in piazza in 150.000 significa che c’é ancora un lungo tratto di strada da fare. Comincerei con lo spazzare la soglia da cui parto, perciò, per non trascinarmi dietro polvere e detriti che potrebbero rallentare il cammino.

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Il nome della violenza

Qualcuno si é risentito perché é stato usato il termine "violenza maschile". Le argomentazioni per tale risentimento sono molto note (almeno a me): irrita gli uomini, allontana quelli che non usano violenza, ci sono anche donne violente, eccetera. Purtroppo, uno dei maggiori ostacoli nello sviluppare misure per combattere la violenza contro le donne sta nella tendenza a non guardare alla natura "di genere" del problema e ad applicare ad esso termini vaghi o generali: violenza in famiglia o violenza domestica non dicono esattamente chi sta compiendo atti di violenza e verso chi.

Naturalmente mi sta bene usarli, perché sono largamente condivisi e non devo spender molte altre parole per spiegare a cosa mi riferisco. Però é un pò come la "brutalità del sistema" di cui sentivo parlare da ragazza. Generalizzando, era difficile individuare i responsabili della brutalità. Potevano essere tutti, e nessuno. Io volevo che avessero nomi, e occhi in cui fissare i miei, e orecchie per ascoltarmi, e bocche per parlare con me. Volevo sanzionare i loro atti, non cancellare le loro persone dietro una formula. Dire la verità, e cioé che la violenza subita dalle donne é violenza degli uomini sulle donne, non implica nient’altro che questo. Non colpevolizza altri uomini, non nega che la violenza sia un problema con cui dobbiamo fare i conti tutte e tutti, semplicemente non nasconde la testa sotto il cuscino: é necessario che il nominare la violenza maschile sia al centro della discussione sulla violenza di genere, perché é il sessismo il principale motore di quest’ultima. Gli uomini e i ragazzi che riflettono su se stessi, la propria sessualità, le relazioni che hanno con le donne e non stuprano e non picchiano hanno un ruolo cruciale nel porre fine alla violenza contro le donne nella nostra società. Li considero alleati ed amici. Li onoro e li stimo. Ma devono smettere di arrabbiarsi quando si tocca il punto dolente, e cioé la dominazione maschile, il suo reggersi sulla violenza e sul controllo delle donne. Ci sono uomini che di ciò sono consci, e sono degli splendidi uomini, che mi confermano quante potenzialità per creare relazioni vive e vere (e perciò nonviolente) abbiamo come esseri umani. Donne possono compiere atti sessuali violenti su altre donne o uomini, ma é una percentuale da zero virgola zero qualcosa. Uomini e ragazzi possono essere vittime di stupri, ma anche in questi casi al 99,99% i loro stupratori sono altri uomini. C’é chi crede che le donne non stuprino solo perché fisicamente impossibilitate a farlo, ma se ci pensate sono perfettamente in grado di puntare una pistola contro qualcuno ed ordinargli di fare sesso con loro contro la sua volontà: quante ne conoscete? E quanti uomini conoscete che vengano sistematicamente picchiati o umiliati, controllati e insultati, dalle loro mogli o dalle loro compagne? E’ bene che teniamo a mente questo: la violenza contro le donne non consiste di atti individuali perpetrati da persone in preda a raptus, é il risultato di uno schema di violenza fisica, psicologica, sessuale, sociale ed economica. Ed é per questo che differisce dal caso dell’"uomo che morde il cane", e cioé dalla donna che usi estrema violenza su un partner: lei non ha alle spalle quattromila anni di letteratura religiosa, politica, filosofica ecc. che giustifichi i suoi atti con l’intrinseca inferiorità del maschio.

Grazie a ciò abbiamo più difficoltà a riconoscere la violenza come tale e a rigettarla immediatamente: gli uomini che commettono atti di violenza all’interno delle loro famiglie non sono identificati facilmente come violenti da altre persone. La maggioranza degli aggressori usa i pugni "solo" nella sfera domestica: all’esterno di essa possono apparire molto gentili ed amichevoli, una cosa tipo "Dottor Jekyll e Mister Hyde". Prendete il caso di mio padre, che mandava soldi agli orfani e alle missioni ma negava a noi il riscaldamento e l’acqua calda d’inverno, che era educatissimo in pubblico ma in privato poteva lanciare padelle piene d’olio bollente dietro a mia madre. Era difficile per noi essere creduti. Come molti altri uomini, mio padre pensava di dover rispondere ad un modello di mascolinità in cui lui era il "capo", il generale comandante, e noi i suoi sottoposti. Ciò che faceva di "sua" moglie o dei "suoi" figli non era affare di nessuno. Spesso gli uomini violenti non riconoscono neppure di essere in errore: biasimano l’intrusione delle leggi nei "fatti loro", biasimano le vittime, si presentano come vittime loro stessi. Una delle chiavi, credo, sta nel lavorare per far diventare senso comune che: la violenza é un’offesa all’integrità ed alla dignità delle persone umane, non é tollerabile, non ha giustificazioni né scuse, e chi la usa é responsabile moralmente e penalmente delle proprie azioni.

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Non chiudere gli occhi

La violenza contro le donne avviene nelle case e negli spazi pubblici, non si tratta di una situazione o/o. Le manifestazioni di questo odio verso le donne hanno un impatto profondo su tutte, anche su coloro che non hanno mai subito violenza. Ci sentiamo "insicure". E il sentirsi insicure é un ostacolo fondamentale all’equità di genere. Limitiamo i nostri movimenti, le nostre aspirazioni e capacità, siamo cittadine di serie b o a mezzo servizio. Lo stupro di una donna é ammonizione, degradazione, terrore e limitazione per tutte le altre. La maggior parte delle donne e delle ragazze limita e sorveglia i propri comportamenti per paura dello stupro, anche se non le é mai accaduto di subire violenza. La maggior parte delle donne vive con questo timore, la maggior parte degli uomini no. Questo é il modo in cui la violenza sessuale funziona come potente metodo di costrizione per metà dell’umanità. Facciamo una prova: pensate a tre cose che si possono fare per prevenire la violenza sessuale. Scommetto quel che vi pare che per prima cosa vi é venuta in mente qualche raccomandazione alle donne: "Non uscire da sola la notte", "Non vestirti in modo provocante", "Non stare per strada", "Chiudi sempre bene porte e finestre", "Non parcheggiare l’auto dove c’é poca luce", "Portati dietro uno spray al peperoncino", "Fai un corso di autodifesa". Tradotto é: cambia il tuo comportamento. A quasi nessuno viene in mente subito che a cambiare comportamento dovrebbero essere gli uomini. La cosa ovvia é che lo stupro non sparirà sino a che essi non lo faranno. Restringere la libertà di donne e ragazze é ingiusto, e inoltre non ha mai fatto da barriera alla violenza sessuale. Tutte le asserzioni che ho riportato poc’anzi sono basate su false letture delle cause dello stupro, e mandano questo ripetuto messaggio: che sono le donne le responsabili della prevenzione dello stupro, che le donne sono responsabili se subiscono violenza sessuale. Che é colpa loro. Anche perché, é notorio, gli uomini non possono frenarsi quando il raptus impazza. Quiz: Jane Goodall passò trent’anni in Africa ad osservare come si comportavano gli scimpanzé nel loro ambiente naturale. In questi trent’anni, quanti stupri poté notare fra le scimmie? Risposta: Neppure uno. I primati nostri cugini più prossimi non stuprano. Ovviamente non si possono trarre conclusioni assolute sul comportamento umano basandosi sul comportamento animale, ma questo semplice dato mette in crisi (se non bastassero a farlo i numerosi studi di psicologia e sociologia ecc. degli ultimi trent’anni) uno dei miti persistenti cresciuti attorno alla violenza sessuale, e cioé che la biologia maschile inclini e spinga gli uomini allo stupro, che si tratti di un irrefrenabile e primitivo impulso cui gli uomini non possono resistere. La violenza sessuale é invece appresa: nasce tutta dal convincimento sociale che gli uomini abbiano il diritto di dominare le donne.

Perciò, riproviamoci. Pensate a tre cose che si possono fare per prevenire lo stupro. Vi dico le mie, intanto, che si potrebbero sintetizzare in "suonare la grancassa fino a che ascoltino, se non altro per la paura di diventare sordi". Il che si traduce nel promuovere iniziative che riducano il rischio di subire violenza: mobilitare le città, tramite l’informazione e programmi educativi; offrire seminari su genere/violenza/nonviolenza; organizzare eventi e training che promuovano la partecipazione delle donne alla vita pubblica della città.

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La casa femminista

In un contesto storico difficile, con destra politica e religiosa e forze fondamentaliste che stanno facendo letteralmente di tutto per opporsi, negare, cancellare i diritti umani delle donne, é importante per il movimento femminista concentrarsi sul proprio rafforzamento e sulla costruzione di reti e coalizioni. Siamo già plurali, diventiamolo ancora di più, soprattutto se vogliamo (e so che lo vogliamo) opporci alla violenza di genere.

Negli ultimi anni, le organizzazioni femminili e femministe hanno lavorato parecchio per diventare più inclusive e rappresentative della diversità delle esperienze delle donne. Nei casi in cui in risposta a questo desiderio sono emerse pratiche e spazi, nuove istanze e problematiche sono state affrontate. Nondimeno, differenziali di potere fra le donne basati su classe sociale, età, appartenenze, eccetera, causano spesso notevoli frizioni quando si vuol lavorare insieme per il cambiamento. A volte nel discutere prevale un pò di elitarismo e di deferenza all’età e ai titoli, il che può allontanare donne meno informate o donne giovani. I principi femministi della democrazia, della trasformazione e dell’inclusione dovrebbero poter emergere più esplicitamente. Se attestiamo che le tensioni esistono, le nominiamo e ci confrontiamo onestamente con esse, con la volontà di arrivare a una soluzione che ci renda tutte più forti, possiamo andar oltre questo ostacolo.

La faccenda della rappresentatività é complessa per la maggior parte dei movimenti sociali, incluso quello femminista. Se invitiamo una donna di religione buddista alla nostra conferenza, per sapere come se la passano le donne buddiste, o una giovane per sapere che fanno le ragazze, e questa é tutta la conoscenza che abbiamo di buddiste e fanciulle, rischiamo di commettere l’errore di considerarle parti di gruppi omogenei in cui non sussiste alcuna differenza, e di assolutizzare la loro esperienza. C’é chi é convinta di sapere "cosa vogliono le migranti" o "come la pensano le musulmane", perché alcune di esse si sono avvicinate alla sua associazione o ne fanno parte, ma detti gruppi contengono differenze ancora più grandi dei due summenzionati, e sebbene sia vero che alcune difficoltà sono comuni a tutte le donne migranti, religiose o atee, é altrettanto vero che alcune altre sono radicalmente diverse. Proiettando i nostri stereotipi su tutte perché ne abbiamo conosciute tre ci alieniamo la potenziale partecipazione di molte altre. Forse si potrebbe organizzare momenti di incontro in cui esplorare la propria identità insieme, in termine di genere, età, classe sociale, appartenenze, aspirazioni. Come trainer so che la narrazione delle esperienze si traduce assai facilmente in scambio di potere su un piano orizzontale. Come abbiamo affrontato la violenza nelle nostre vite? Che tipo di esperienze ci hanno rese più forti, fiduciose, efficaci? Cosa possiamo imparare dallo scambio? Questo si rifletterebbe probabilmente anche sull’organizzazione di azioni. Manifestare va benissimo, é bello e potente, ma non tutte quelle che vorrebbero possono (distanze, mezzi economici, impegni) e altre non si sentono ancora pronte: che tipo di azioni possiamo proporre a costoro per non disperdere le loro energie ed il loro impegno? Far pressione su gruppi decisionali, provvedere servizi, mobilitazioni tramite internet, tenere seminari, usare arte e musica: stappiamo i cervelli e vediamo che viene fuori.

Un’ultima nota, sul silenzio. Invece di accapigliarci tra di noi, perché alcune dicono di romperlo e altre di non averci mai avuto a che fare, proviamo a capire quanto e come veniamo "silenziate" dall’esterno. Che spazi offrono i media alle donne in genere, alle femministe in particolare? Analizziamoli quantitativamente e qualitativamente. Poi passiamo alla stampa "amica": quanta censura c’é anche lì, e di che tipo? Perché alcune persone sono autorizzate (direi ossessivamente) ad intervenire, ed altre potrebbero ballare su un elefante in piazza e non venir viste? La violenza domestica ha molto a che fare con il silenzio, é per lo più ignorata dall’opinione pubblica, e dai media, fino a che non arriva alle estreme conseguenze (una donna viene uccisa) e allora c’é il pezzo di cronaca nera, le depressioni e i raptus dell’assassino, la condotta "imprudente" della vittima... Fino a che la responsabilità della violenza viene posta sulla donna il silenzio delle vittime ha una sua logica.

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Dare potere a chi ha subito/subisce violenza

L’isolamento delle loro vittime é il fulcro dell’agire dei partner violenti, impedisce loro di chiedere aiuto e le rende maggiormente vulnerabili. Negare ad una donna i contatti con amici e parenti, chiuderla in casa, proibirle di uscire da sola, di usare il telefono o l’auto e così via non sono atti qualificabili come "differenze culturali": sono atti di violenza, punto e basta. Alcuni preferiscono non chiamare "vittime" le donne che subiscono violenza, perché pensano che in qualche modo questo suggerirebbe una loro debolezza di fondo. A me piace dare alle cose il loro proprio nome, e trovo che i deboli e i vigliacchi siano coloro che usano violenza, non coloro che ne vengono investiti. Le sopravvissute alla violenza maschile non dovrebbero mai essere giudicate in base allo stress che la loro esperienza ha comportato: non sono a priori malate o nervose o instabili, anche se certamente i traumi hanno avuto effetto su di loro. Vittima di violenza non significa colpevole di violenza. Non significa incapace, inetta, cattiva moglie, cattiva madre e quant’altro. Ripeto questo perché sia chiaro che la violenza non lascia segni solo sul corpo, ma anche sulla mente, e sul proprio senso di autostima. Abbiamo bisogno di dire innanzitutto a queste donne che hanno valore.

Alcuni approcci di "aiuto" alle vittime esagerano nel senso opposto, enfatizzando la "naturale debolezza" delle donne, che vengono viste come patologiche per il solo fatto di essere femmine. (Soffro ancora dello shock dovuto all’aver sentito, in una casa antiviolenza, una psicologa spiegare come e perché le donne si attiravano la violenza e la desideravano, ma sulla necessità di un minimo comun denominatore su cause/effetti/rimedi verrò più tardi). Questo non aiuta affatto, giacché ributta per l’ennesima volta la responsabilità della situazione su chi ne ha avuto danni. E’ vitale guardare invece alle vittime di violenza come ad agenti per il cambiamento, sono le "esperte" della situazione, se volete. Hanno bisogno di aiuto per maneggiare la situazione e capire come trasformarla: lo scopo di chi fornisce questo aiuto deve essere esclusivamente di accompagnare la donna verso una vita autonoma e libera dalla violenza. I tempi, i modi, le soluzioni, si concertano insieme. E’ tipico il caso di qualcuno che viene a contatto con una vittima di violenza domestica (anche chi opera nel settore dell’assistenza) e la prima cosa che dice é: Perché non divorzia, o perché non lascia il suo partner? E si scoccia o si arrabbia se la donna risponde che non vuole o non può per i più svariati motivi. Non é il caso di fare ulteriori pressioni ad una persona che é già abbondantemente sotto pressione. La sua volontà va rispettata. Inoltre lasciare qualcuno, rompere una relazione, anche quando in essa non vi sia violenza, é un processo che prende tempo per ciascuno di noi. Vediamo invece se siamo in grado di aiutare questa donna ad ottenere gli strumenti sociali ed economici perché la sua scelta sia veramente libera.

Alcuni gruppi di donne sono particolarmente vulnerabili: le più anziane, quelle che sono economicamente dipendenti dal partner e che hanno scarse prospettive di avere una propria vita lavorativa. In molti casi la mancanza di alloggi ad affitti accessibili e le basse entrate sono le ragioni centrali per cui una donna non lascia un partner violento. Se poi il diritto di residenza é legato ad una relazione, come é spesso il caso delle migranti in Europa, lasciare la casa degli abusi può significare perdere qualsiasi diritto ottenuto. Povertà e dipendenza sono i fattori chiave del rischio di violenza: non é questo qualcosa di cui dovremmo parlare, e di cui dovremmo chieder conto ai nostri legislatori ed alle nostre legislatrici (vedasi Pari Opportunità eccetera)?

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A che punto (politico) siamo

L’anno 1995 fu uno spartiacque per migliaia di ong e persone che lavorano per l’eguaglianza e la pace. La conferenza delle Nazioni Unite sulle donne in Cina mobilitò e motivò un numero incredibile di donne in tutto il mondo, incoraggiandole a sviluppare i propri progetti, a presentare proposte specifiche per la Piattaforma d’azione e ad aprire spazi di partecipazione. Nella Piattaforma d’azione il tema della violenza contro le donne fu indicato come una delle dodici "aree critiche": "La violenza contro le donne é un ostacolo all’ottenimento degli obiettivi di eguaglianza, sviluppo e pace". Dalla Piattaforma, per la sua implementazione, l’anno successivo le Nazioni Unite adottarono un "catalogo" di misure da prendere negli stati membri al fine di eliminare e prevenire la violenza di genere.

In Europa, le donne che hanno fatto esperienza di violenza fisica almeno una volta durante la loro vita da adulte vanno da un quarto a un quinto del totale; più di un decimo ha subito violenza sessuale. Tra il 12 e il 15% delle donne europee subiscono violenza domestica, che continua in molti casi anche quando non é più "domestica", ovvero quando queste donne hanno lasciato il partner (so che forse sono noiosa a ripeterlo, ma lo faccio lo stesso: dietro ad ogni statistiche ci sono volti, storie, cuori, vite devastate dalla violenza. Non sono solo numeri).

Il Consiglio d’Europa (che ha sede a Strasburgo, di cui fanno parte 47 stati membri, e che non é istituzionalmente connesso all’Unione Europea) é nato dopo la seconda guerra mondiale con lo scopo, tra l’altro, di salvaguardare e proteggere i diritti umani e le basilari libertà democratiche. Uno dei suoi successi più importanti é la creazione del Tribunale europeo per i diritti umani. Nel 2002 ha adottato il seguente documento (www.humanrights.coe.int/equality/Eng/WordDocs/2002r5): "La violenza contro le donne é il risultato di uno sbilanciamento di potere tra uomini e donne, e porta a serie discriminazioni dirette al sesso femminile, sia nella società che all’interno della famiglia. (...) La violenza contro le donne viola, compromette od annulla il godimento dei loro diritti umani fondamentali (perché) va contro lo stabilirsi di eguaglianza e pace e costituisce uno degli ostacoli principali alla sicurezza della cittadinanza ed alla democrazia in Europa". Il 27 novembre 2006 il Consiglio d’Europa ha lanciato una campagna per porre fine alla violenza domestica con una conferenza tenuta a Madrid, in Spagna. I risultati della campagna saranno presentati l’8 marzo 2008. Al documento seguì uno studio approfondito, reso pubblico nel 2005, la cui responsabile era la professoressa Carol Hagemann-White (Università di Osnabrueck). Oltre ad attestare che una donna su cinque, in Europa, subisce violenze da mariti, compagni ed ex compagni, lo studio quantificò i costi della violenza domestica: si tratta di oltre 33 miliardi di euro l’anno che comprendono le spese sanitarie, quelle legali e quelle dei rifugi antiviolenza. Alla cifra manca la spesa relativa ai giorni di lavoro persi o agli impieghi lasciati eccetera, per cui vi lascio immaginare.

Nel febbraio 2006, il Parlamento Europeo adottò una risoluzione sulla violenza contro le donne: attestando che essa é una violazione dei diritti umani che riflette relazioni di potere ineguali fra i generi; ripromettendosi di avversarla anche tramite legislazioni apposite; dichiarando di favorire la cooperazione fra attori governativi e non governativi e di riferirsi a tale cornice per affrontare il problema. In altre parole: le definizioni adottate rispetto alla violenza di genere credo siano accettabili, e queste istituzioni a vario livello hanno detto di aver bisogno di noi o di voler interloquire con noi. Sì, le loro parole potrebbero essere o restare mere dichiarazioni di principio, ma sta anche a noi lavorare perché non vengano disattese. Non deludiamo questa gente, ragazze (scherzo): facciamo in modo invece che aprano i portafogli, perché la lotta alla violenza contro le donne ha anche bisogno di fondi.

Le parlamentari possono giocare un ruolo importante nella lotta alla violenza contro le donne, facendo adottare leggi che stabiliscano come essa sia una seria ed inaccettabile aggressione alle persone ed alla loro dignità umana, che puniscano tali offese, che provvedano aiuto alle vittime di violenza, e prevenzione (con lo scopo di cambiare l’atteggiamento dell’opinione pubblica verso il problema). In Austria, una campagna nazionale di questo tipo é iniziata il 30 aprile 2007 con "La notte di Valpurga", in cui si é mostrata la dimensione storica della violenza contro le donne: "Tramite la nostra azione ad Innsbruck abbiamo ricordato al pubblico il crudele trattamento inflitto alle donne accusate di essere streghe, dal XIII al XVII secolo. Nel giugno successivo abbiamo realizzato un appartamento in una piazza a mò di "scena del crimine", per mostrare come la casa non sia necessariamente un posto "sicuro" per le donne, ma troppo spesso il luogo in cui la violenza maschile contro le donne e i bambini si scatena. Per coinvolgere emotivamente gli spettatori, abbiamo accoppiato alla scena canzoni che inneggiavano all’amore eterno e letto articoli di cronaca. Il mito del grande amore e la realtà di una casa cozzano spesso. Nel settembre 2007 siamo passate a concentrarci sulla violenza nelle scuole. Durante i sedici giorni di attivismo contro la violenza di genere (dal 25 novembre in avanti - nda) abbiamo trattato della violenza nelle aree pubbliche e della sicurezza. La campagna non terminerà nel 2008; anzi, il prossimo anno avremo due grosse occasioni per portarla avanti, grazie a due partite degli europei di calcio che si terranno ad Innsbruck: l’esperienza dei mondiali di Germania ha mostrato che il traffico di donne e la prostituzione forzata hanno un collegamento a questi eventi e vogliamo sensibilizzare l’opinione pubblica a tal proposito" (Gisela Wurm - per contatti: e-mail: Gisela.Wurm@spoe.at, sito: www.spoe-tirol.at). Non vi pare un bel programma? Forse potremmo provarci anche noi.

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Costruiamo tavoli (viva i falegnami, di ambo di sessi)

La seguente lista sugli aspetti della violenza di genere é quella minima su cui, a mio parere, ci si può trovare d’accordo:

- Violenza fisica, sessuale e psicologica all’interno della famiglia. Il che include gli abusi sui bambini, lo stupro da parte di mariti e compagni, le pratiche "tradizionali" come le mutilazioni genitali e i matrimoni forzati;

- Violenza fisica, sessuale e psicologica che si dà negli spazi pubblici, dalla molestia allo stupro, in ambito lavorativo, scolastico, cittadino. Il che include il traffico di donne e la prostituzione forzata;

- Violenza fisica, sessuale e psicologica perpetrata da istituzioni e stati. Il che include leggi e provvedimenti che rendono le donne "diseguali" di fronte alla legge, che limitano le loro opportunità eccetera. La mia proposta é di costruire "tavoli antiviolenza" in ogni città, a partire da questo minimo comun denominatore, con lo scopo di identificare il problema negli ambiti in cui si vive (casa, quartiere, città, lavoro, scuola) e dare ad esso risposte efficaci e adeguate. A "chiamare" il tavolo può essere uno qualsiasi dei soggetti di seguito menzionati, ognuno dei quali dovrebbe a mio parere farne parte (se presente sul territorio, ovvio): le case e i gruppi antiviolenza; le associazioni di donne migranti; la polizia; le associazioni studentesche; i servizi sociali; i servizi sanitari; avvocate e magistrate; le organizzazioni femministe; il movimento nonviolento (pro doma mea negli ultimi due casi, é vero, ma il movimento nonviolento ha così tanto da dare e così poche occasioni per farlo che mi sento di spendere una parola in più a suo favore), donne politiche locali, e soprattutto: le donne che hanno subito violenza, e le loro figlie e figli se in età da poterlo fare.

La chiamata potrebbe essere un semplice annuncio in cui si attesta di voler denunciare ed eliminare tutte le forme di violenza contro le donne, e in cui si delinea la visione di una società in cui il reciproco rispetto, l’eguaglianza e la cooperazione determinano le relazioni tra donne ed uomini, tra genitori e figli e tra gli individui in genere. Le linee guida del tavolo vanno ovviamente decise da chi del tavolo fa parte, io mi limito a suggerire una traccia, e cioé che la sicurezza di chi subisce violenza deve essere la priorità principale per tutti.

Il tavolo potrebbe dapprima verificare quante delle seguenti buone pratiche di base sono in moto in Italia e nella propria specifica città, quali no, quali vanno potenziate e cosa possiamo aggiungere:

- Una linea telefonica d’emergenza nazionale, attiva 24 ore su 24, in grado di fornire informazioni in più lingue;

- Numero adeguato di rifugi e case antiviolenza sul territorio locale e nazionale;

- Approccio proattivo: quando il caso di violenza diventa pubblico, la vittima o le vittime devono essere attivamente contattate e deve essere loro offerto aiuto;

- L’aiuto deve essere adeguato anche ai bambini ed ai gruppi specifici di donne: le migranti, membri di minoranze, disabili, eccetera;

- Lo stato deve finanziare questi servizi in modo adeguato, anche perché alle vittime essi non devono costare assolutamente nulla;

- Permessi di soggiorno e garanzia d’asilo alle donne migranti vittime di violenza;

- Programmi educativi diretti ai perpetratori, per aiutarli ad uscire dal modulo della violenza.

Valutato cosa sia disponibile sul territorio, e progettato cos’altro si vuole che lo sia, si può fare la propria prima azione utile distribuendo volantini che riportino cosa c’é già (in più lingue) e a chi ci si può rivolgere, oltre ad informare dell’esistenza del tavolo. Dove li lasciamo? Dovunque ce lo consentano, ma soprattutto negli ambulatori, nelle sale d’aspetto d’ogni tipo, e nei gabinetti pubblici: alcune vittime di violenza potrebbero non osare raccogliere il volantino sotto gli occhi di altri, ma nel gabinetto delle signore non c’é nessuno a controllarle.

Tratto da
NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE
Supplemento settimanale del giovedi’ de
La nonviolenza è in cammino

Direttore responsabile: Peppe Sini.
Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it

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Numero 142 del 6 dicembre 2007



Giovedì, 06 dicembre 2007