Conoscere l’ebraismo - Recensione
Il Noachismo

di Marco Morselli

Introduzione a E. Benamozegh, Il Noachismo, Marietti 2006.


Il Midràsh ci racconta che prima di creare i cieli e la terra, il Signore decise di creare la Toràh (scritta con fuoco nero su fuoco bianco), il trono della Gloria, il Paradiso, l’Inferno, il Tempio celeste. Sull’altare del Tempio è incastonata una pietra preziosa sulla quale è inciso il nome del Messia, e una voce grida: «Tornate, figli dell’uomo» (Sal 90,3), ossia fate teshuvàh.

La Torah era perplessa sulla creazione dell’uomo, perché egli avrebbe sicuramente diffuso empietà nel mondo. Proprio la preliminare creazione della teshuvah permise a D. di superare l’ obiezione, in quanto i peccatori avrebbero avuto modo di espiare e purificarsi[1].

Il mondo nel quale viviamo non fu il primo dei mondi creati da D.: Egli ne aveva creati altri, che poi aveva distrutti in quanto non lo soddisfacevano. Già dall’inizio, dunque, la creazione si presenta sotto il segno dell’incertezza e dell’imperfezione, che raggiungono il loro culmine con la creazione dell’uomo: «Creando libero l’uomo, D. ha introdotto nell’universo un fattore radicale d’incertezza, che nessuna saggezza divina o divinatoria, nessuna matematica, persino nessuna preghiera possono né prevedere, né prevenire, né integrare in un movimento prestabilito: l’uomo libero è l’improvvisazione fatta carne e storia, è l’imprevedibile assoluto, è il limite contro cui vengono a cozzare e a infrangersi le forze direttrici del piano creatore»[2].

Con il suo Naasè Adàm (Gn 1,26) D. introduce un’ assoluta imprevedibilità nella sua opera, dal momento che una sua creatura mette addirittura a rischio l’intera sua creazione. L’uomo è infatti creato libero, è lui l’unico responsabile della sua libertà: «Creando l’uomo a sua somiglianza, D. colloca il fuoco dell’illimitata libertà divina nel terrestre»[3].

Il mondo dunque non è un cosmo, un universo perfetto, immutabile o in regolare movimento, ma imperfezione, contiene irregolarità, lacune, supplementi e aggiunte. Le creature, e in particolare quelle parlanti, oppongono resistenze, si ribellano, provocano incidenti, rivolte, drammi.

Gli uomini incominciarono a moltiplicarsi sulla superficie della Terra, e la conseguenza fu che «la malvagità dell’uomo era grande sulla terra e ogni disegno concepito dal suo cuore era unicamente rivolto al male, tutto il giorno» (Gn 6,5). Allora D. si pentì di averlo creato (Gn 6,6), o meglio, come interpreta Rashì, si consolò di averlo fatto terrestre, ossia finito e mortale, di modo che anche la sua capacità di fare del male non fosse infinita[4].

L’uomo sarebbe stato cancellato, e con lui anche gli animali, a loro volta colpevoli, se Noè non avesse trovato grazia agli occhi del Signore (Gn 6,7-8). Egli era giusto e integro, e camminava con il Signore (Gn 6,9).

Allora D. disse a Noè di costruirsi una tevàh, un’arca. Rashì si chiede: D. aveva molti modi per salvare Noè, perché scelse proprio questo? Perché gli uomini della sua generazione, vedendolo occupato in quell’opera per 120 anni, potessero avere il tempo di fare teshuvah.

«E Noè lo fece. Tutto come gli aveva comandato D., così egli fece» (Gn 6,22). Un esempio di perfetta obbedienza alla volontà divina. Apparentemente. Perché in effetti dopo il mabùl, il diluvio, quando uscirà all’aperto e vedrà le immense rovine, Noè piangerà amaramente e dirà: «Signore del mondo, perché non hai avuto misericordia delle tue creature, Tu che sei chiamato il Misericordioso?» il Signore lo rimprovererà per non averlo implorato prima: «Così ti ho parlato e ti ho detto quanto sarebbe accaduto, affinché tu potessi chiedere pietà per la terra; ma tu, appena hai udito che avresti trovato scampo sull’arca, non ti sei curato della rovina che stava per colpire la terra e hai pensato soltanto a costruire l’arca sulla quale ti sei salvato. Ora che la terra è devastata apri bocca per supplicare e pregare»[5].

Come ha osservato André Neher, il silenzio verticale dell’uomo si estende in maniera allucinante sui primi 11 capitoli del Genesi, e il momento più evidente e scandaloso  si ha proprio con Noè: interpellato direttamente in ognuna delle articolazioni della sua avventura, egli non trova neppure una parola per rispondere. In Noè l’umanità è diventata verticalmente muta[6].

«D. (Elokim) si ricordò di Noè» (Gn 8,1). Che vuol dire che D. si ricordò di lui? Il nome Elokim indica la misura della giustizia, che venne mutata nella misura della misericordia, e allora le acque si abbassarono. La colomba torna con il ramoscello d’ulivo nel becco, prima apparizione di un’immagine di pacifica fraternità universale, ma Noè non vuole lasciare l’arca, non si fida. Di certo i nuovi uomini peccheranno di nuovo: e se D. vorrà ancora una volta distruggere il mondo?

Allora il Signore lo rassicura: «Quanto a me, ecco Io stabilisco la mia alleanza con voi e con la vostra discendenza dopo di voi» (Gn 9,9) e fino al v. 17 parla della sua alleanza (il termine berìt compare 7 volte) e del segno dell’alleanza, il qéshet, l’arco sulle nubi, l’arcobaleno.

2. Quali siano le condizioni di questa alleanza noachide, la Torah scritta non lo dice. Per saperlo, occorre rivolgersi alla Torah orale: «I nostri dottori hanno detto che sette comandamenti sono stati imposti ai figli di Noè: il primo prescrive loro di istituire magistrati; gli altri sei proibiscono: 1) il sacrilegio; 2) il politeismo; 3) l’incesto; 4) l’omicidio; 5) il furto; 6) l’uso delle membra di un animale vivo» (Sanhedrin 56 b).

Tali comandamenti, ad eccezione del settimo, erano già stati dati ad Adamo. Adamo era vegetariano, mentre a Noè viene consentito di mangiare carne, ma al contempo gli viene anche imposto di non essere crudele con gli animali[7].

La legge di Noè è stata la legge di Adamo, di Noè, di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, di tutti i loro discendenti e dello stesso Mosè prima della rivelazione del Sinai. Chiunque accetti i sette comandamenti e li osservi con cura avrà parte alla vita nel mondo a venire.

Inoltre, se lo desidera, il noachide può osservare anche gli altri comandamenti della Torah: le 613  מצותmiswot sono aperte davanti a lui. L’abbandono dell’idolatria e il riconoscimento dell’ispirazione profetica della Torah aprono ai bené Nòah un orizzonte spirituale quasi illimitato[8].

Benamozegh insiste molto nel sottolineare il carattere essenzialmente razionale della legge noachide. Scoprire che una religione cosmopolitica e universale  è in effetti religione rivelata apre una campo di riflessioni quasi inesplorato.

Egli inoltre non esita ad aggiungere ai 7 precetti le leggi morali e le leggi sociali contenute nella Bibbia, che ritiene certamente  rivolte all’intera umanità. Ricavare dalla Bibbia invece un sistema di politica, questo è un programma che è stato realizzato solo dai cattolici (e forse da altri cristiani), ma  Benamozegh considerava non ancora realizzato da parte ebraica.

3. La vicenda di Aimé Pallière, il racconto della quale è stato da poco ripubblicato, e sulla quale quindi qui non ci soffermiamo, mostra quali difficoltà abbia incontrato la dottrina noachide nel momento in cui venne proposta[9]. Proprio i lettori di quel libro hanno iniziato a chiedersi cosa sia il noachismo, e si è pertanto deciso di ripubblicare i due capitoli che Benamozegh  dedica all’argomento in Israele e l’umanità[10]. Pallière riteneva che nella concezione noachide la molteplicità delle credenze e dei culti costituisse l’unità organica della Religione universale. La religione dell’umanità non sarebbe altro che l’insieme delle religioni dell’umanità, in uno spazio che le rende tra loro dialoganti e che rende possibile una loro progressiva purificazione.   

I movimenti noachidi contemporanei tendono a presentare il noachismo come un’alternativa al cristianesimo. Il cristianesimo dovrebbe essere abbandonato per vivere una vita interamente fondata sulla Torah[11]. Affermare che la Torah dovrebbe sostituirsi a Cristo significa però recepire quella contrapposizione tra Gesù e la Torah che è stata introdotta proprio dalla Cristianità. Solo ora si cominciano a prendere sul serio le parole di Gesù ovvero di Rav Yeshua ben Yosef: «Non pensate che io sia venuto ad abolire la Torah e i Neviim. Non sono venuto ad abolirli ma ad osservarli nella loro pienezza. Amèn infatti vi dico che finché non passeranno i cieli e la terra, neppure una yod (la più piccola delle lettere dell’alfabeto ebraico) o un segno saranno cancellati dalla Torah, fino al compimento di tutte le cose. Perciò chi scioglierà la più piccola delle miswot e insegnerà così agli uomini, sarà il più piccolo nella Malkhut ha-Shammayim, chi invece le farà e le insegnerà sarà chiamato grande nella Malkhut ha-Shammayim» (Mt 5, 17-19).

Benamozegh era ben consapevole che il discorso noachide non può essere separato dal discorso messianico. Proprio per questa ragione aveva intrapreso quel progetto di tiqqun, di riforma del cristianesimo ne L’origine dei dogmi cristiani e in Morale ebraica e morale cristiana[12]. «Il cristianesimo delle origini sarebbe stato il fedele interprete dell’ebraismo se non avesse avuto la pretesa di sostituirglisi»[13].  Forse si dovrebbe dire meglio: «Il cristianesimo delle origini è stato il fedele interprete dell’ebraismo, prima che venisse introdotta la teologia della sostituzione». In un momento particolarmente felice di vicinanza alla verità, Pallière ha l’intuizione della straordinaria importanza dell’istanza di Benamozegh: «Ma  a me sembra più giusto supporre che nel giudizio da lui portato contro il cristianesimo egli abbia parlato come rappresentante d’Israele, il popolo sacerdote, al quale, secondo la tradizione, è stato confidato il magistero religioso, e che egli abbia allora considerato la Chiesa cristiana nella sua credenza essenziale, costantemente affermata, quella di realizzare, di portare a pieno compimento il messianismo ebraico. E allora, sarebbe unicamente come realizzazione autentica e definitiva del messianismo d’Israele e non certo come forma particolare e perfettamente legittima di religione noachide che egli avrebbe criticato dottrinalmente il cristianesimo e gli avrebbe richiesto delle riforme»[14]. Ciò che Pallière considerava realizzazione autentica e definitiva Benamozegh lo considerava una possibilità, una potenzialità che forse si sarebbe attuata. Pallière sottovalutava infatti la forza e la diffusione dell’antiebraismo cristiano. Per Benamozegh il noachismo «non è altro che l’autentico cristianesimo, cioè quello che il cristianesimo, secondo le nostre credenze, avrebbe dovuto essere, e quello che sarà un giorno. Esso è, secondo l’ebraismo, la vera religione dei tempi messianici»[15].

4. Quando Abraham Livni scrive che il noachismo non costituisce lo stadio finale, ma solo la piattaforma di partenza, il minimo morale indispensabile all’equilibrio e al benessere dell’umanità, fino ai giorni del Messia, quando sarà chiamata ad innalzarsi a un più alto livello, ritiene di essere in polemica con Benamozegh, ma in effetti espone proprio il pensiero del maestro livornese[16].

L’avvento del Regno messianico non è l’instaurarsi del Sistema Totalitario Globale, ma la realizzazione della fraternità umana nel riconoscimento della comune Paternità divina, l’esaudimento del desiderio di libertà e giustizia sulla terra. Il noachismo non costituisce una Mega-Religione destinata a soppiantare tutte le altre, ma semplicemente un luogo in cui la fraternità delle religioni diventa possibile. Il che non equivale alla rinuncia a ricercare la verità, mettendo tra parentesi dottrine tra loro incompatibili. Al contrario, si creano le condizioni che consentono di arrivare a una progressiva chiarificazione della verità, una volta che si siano superati fraintendimenti, pregiudizi, maldicenze e manipolazioni. La teologia cristiana delle religioni potrebbe trovare un solido fondamento in questa dottrina che è parte della Rivelazione. Ma occorre tener anche presente che la forma cristiana del noachismo, se è legittima, non è certo l’unica. La fraternità noachide precede ed accompagna le altre fraternità, che sono compossibili, ognuna nella sua autonomia, senza doversi annullare in un’unica forma «vera».

Come potrebbe il  Creatore dei cieli e della terra aver dimenticato l’intera umanità per dedicarsi solo a un piccolo popolo? Questa domanda nasce da una insufficiente conoscenza della Torah. Nella Torah il Santo, benedetto Egli sia, si ricorda dell’umanità molto prima che abbia inizio l’avventura di Abramo, il primo ad essere chiamato ivrì, e molto prima che abbia inizio l’avventura di Mosè e dei suoi discepoli, il popolo d’Israele.

Nell’economia della salvezza la messa da parte d’Israele (la sua «elezione») serve a costituire una alterità fondamentale rispetto alla quale gli uomini sono chiamati a confrontarsi. Tale messa da parte è continuata nei secoli della Cristianità. La maledizione d’Israele era  la sua elezione che veniva tragicamente confermata – e la storia continua: anche dopo la Shoah la distruzione d’Israele fa ancora parte dei programmi politico-militari di alcuni Stati ai nostri giorni.

Il desiderio di soffocare o, al contrario, di appropriarsi dell’identità d’Israele sono entrambi tentativi di negare questa alterità, e sono destinati al fallimento. Il riconoscimento della missione d’Israele è al contrario  la garanzia che tutte le altre diversità non verranno cancellate, nel tentativo di dare origine  a una pericolosa uniformità o a un confuso sincretismo.

«In quei giorni coloro che si rafforzeranno, dieci uomini di tutte le lingue dei popoli si rafforzeranno all’abito di un uomo giudeo dicendo: “Vogliamo venire con voi, perché abbiamo ascoltato (shamanu) che il Signore è con voi”» (Zc 8,23). Due volte al giorno gli ebrei  ripetono il grido del Santo, benedetto Egli sia: «Shemà Israèl:ascolta, Israele!». In quei giorni, anche i popoli avranno ascoltato, e saranno i giorni del Messia. In quei giorni «la mia Casa sarà chiamata Casa di preghiera per tutti i popoli» (Is 56,7).

Marco Morselli

Università di Modena e Reggio Emilia  

1° nissan 5766                          



[1] Cfr. L. Ginzberg, Le leggende degli ebrei, I, a cura di E. Loewenthal, Adelphi, Milano 1995, p. 24.

[2] A. Neher, L’esilio della parola, tr. di G. Cestari, Marietti, Casale Monferrato 1983, p. 156.

[3] Ibidem.

[4] Cfr. Rashi di Troyes, Commento alla Genesi,a cura di L. Cattani, Marietti, Genova 1999, p. 46.

[5] L. Ginzberg, op. cit., p. 158.

[6] A. Neher, op. cit., p. 111.

[7] Cfr. Maimonide, Hilkhot Melakhim, 9,1.

[8] Sul noachismo si possono vedere: A. Lichtenstein, Le sette leggi di Noè, a cura di S. Fatucci, Lamed, Roma s.d. e J. Vassal, Les Eglises, diaspora d’Israël?,  Albin Michel, Paris 1993. Nel libro di Lichtenstein si può trovare un confronto con il Codice di Hammurabi, le Leggi Assire e il Codice Ittita.

[9] Cfr. A. Pallière, Il Santuario sconosciuto, Marietti, Genova-Milano 2005.

[10] E. Benamozegh, Israele e l’umanità, Marietti, Genova 1990, pp. 209-240.

[11] Cfr. R. Fontana, Aimé Pallière, Ancora, Milano 2001, pp. 103-7. Fontana ha dedicato al noachismo due articoli pubblicati nei «Cahiers Ratisbonne» 1997 n. 3 e 1999 n. 6.

[12] E. Benamozegh, L’origine dei dogmi cristiani, Marietti, Genova-Milano 2002; Id., Morale ebraica e morale cristiana, Marietti, Genova 1997.

[13] Id., Israele e l’umanità, cit., p. 237.

[14]A. Pallière, op. cit., 143.

[15] Parole di Benamozegh riportate in A. Pallière, op. cit., p. 119.

[16] A. Livni, Le retour d’Israël et l’espérance du monde, Rocher, Monaco 1989, p. 303.



Mercoledì, 07 novembre 2007