Figure dell’ebraismo
Per la vox hebraica di Paul Celan

di Giuseppina Camilli

Yerushalàim,al-Quds, per tutti la Santa o la Celeste, Gerusalemme la molteplice, con quel suffisso finale aim che significa dualità come shadàim, seni; oznàim, orecchie; einàim, occhi

                                    S. Jesurum

“Dopo Auschwitz” è un’espressione che indica un tempo, ma ho considerato che possa indicare anche un luogo: l’esperienza me lo ha confermato arrivando e ripartendo con dolore da Tel Aviv. Entrare in quel “dopo”, sia esso di tempo che di luogo, rappresenta il superamento di una interdizione severa. Chi scrive appartiene a una generazione cresciuta dopo il 1960 con la consapevolezza di ciò che è stata la Shoah e che ha formato, quindi, la propria coscienza sul quel confine, limite di senso e punto di non ritorno segnato, appunto, dall’indecenza di scrivere poesie “dopo Auschwitz” e dal credere ancora ad un Dio padre misericordioso e insondabile nella sua lentezza a rispondere, un Padre forse fragile come il bambino crocifisso raccontato da Wiesel, buono, ma forse non onnipotente come ha sostenuto Jonas.

Alcuni maestri  della mia generazione hanno pensato che oltre il punto di non ritorno, oltre la catastrofe, il Churban, oltre la rottura dell’alleanza tra umanità e Parola non rimanesse niente da ascoltare, da rispondere, nessun racconto da riprendere, di qui il divieto di Adorno a scrivere poesie “dopo Auschwitz”.

La fede della mia generazione è paradossalmente integra, perché ferita.

Le memorie, i sentimenti, le  storie  però irrompono, spingono, risalgono. Ci sono stati nuovi canti e  la  stessa Shoah è stata narrata, tramandata e trasfigurata da chi l’ha vissuta e patita. Tutti i poeti sono ebrei,da sempre, la loro narrazione, è stata anche una grande letteratura, uno smisurato indugio talmudico.                                                             

Fuori luogo, esiliato l’ebreo ha fatto del testo scritto e di quello orale la propria casa. L’eredità lessicale/grammaticale, la sua conservazione sono state il cuore, il paese dell’esistenza ebraica, anche oltre il rispetto delle osservanze liturgiche e dei precetti. Questa identificazione dello spirito con la lettera, con il logos, rappresenta l’intima, non scalfibile coscienza ebraica, il suo mythos, e ne spiega il miracolo della sopravvivenza.

Secondo la prospettiva ebraica la stessa creazione è un fatto linguistico, un dire, ruah Elohim. Dio spezza la propria solitudine creando col proprio fiato l’uomo, chiamato per sempre ad ascoltare e a rispondere attraverso la parola, che sarà discorso, grammatica, lingua, vocazione, invocazione, grido, dialogo.

Questa visione antica è stata inverata nell’etica contemporanea di Emmanuel Levinas: la parola va rivolta, la parola infrange la solitudine, genera e rigenera la relazione con l’altro che è ascoltatore, interlocutore, contraddittore, persona. Visione rinnovata, poeticamente, nella seconda metà del ‘900, da Paul Celan: la “parola vera” è creatrice, la parola poetica determina l’“inversione del respiro”, ovvero il capovolgimento del linguaggio ordinario di cui cambia la direzione e da cui trascende. Ogni autentica parola poetica è originario “fiato della vita”, halitus, ruah, fonema materiale con carattere di trascendenza. E’ sull’affermazione biblica della vita che viene inspirata, detta, soffiata nell’argilla che si fonda e rifonda la facoltà creatrice dell’uomo che, poeta, artista, matematico, sarà pericolosamente, dolorosamente poco meno degli angeli. Anche la parola greca poieo da cui deriva termine poeta/autore, significa: “costruisco, formo con arte, forgio” e poiesis vuol dire “procreazione e poesia.”

Il giudaismo è come nessun’altra tradizione, piantato e fiorito, fino a noi, nell’autorità della parola: testo rivelato e serie delle infinite interpretazioni e commenti. Qualcuno ha affermato che una logica stringente farà nascere la crisi, la rivolta del linguaggio proprio all’interno del giudaismo, da Hofmannsthal  a Derrida.

E se infatti la fiducia nella parola e nel linguaggio è, in Sigmund Freud assoluta, innocente, (la parola detta, ascoltata ed interpretata guarisce dal male più profondo e ci rimette al mondo) rimane il fatto che nel novecento, nella medesima Vienna, qualcuno ha scelto,dopo Auschwitz, di ammutolire. Fra tutti Arnold Schomberg, che nel linguaggio musicale destruttura la tonalità con la dodecafonia e nel testo della sua opera finale incompiuta farà dire a Mosè: “Oh! parola, Tu parola che mi manchi!”

Il silenzio di Dio e il silenzio della sua creatura sembrano così rispecchiarsi e l’arte potrà essere autentica poiesis solo se rappresenterà, attraverso il silenzio, l’orrore del proprio tempo.

Numerose vite e opere possono, pertanto, trovare spiegazione dentro  il pensiero di T.W. Adorno, espresso in particolare nella Dialettica negativa: “forse è falso aver detto che dopo Auschwitz non si può più scrivere una poesia. Invece non è falsa la questione meno culturale, se dopo Auschwitz si possa ancora vivere, se specialmente lo possa chi vi è sfuggito per caso e di norma avrebbe dovuto essere liquidato ….uomini riflessivi, artisti, hanno non raramente registrato un senso di non essere presenti, del non partecipare al gioco, come non fossero se stessi ma una specie di spettatori. E in un aforisma di Minima Moraliail solo atteggiamento responsabile è quello di vietarsi l’abuso ideologico della propria esistenza, e – per il resto – condursi, nella vita privata, con la modestia e la mancanza di pretese a cui ci obbliga da tempo, non più la buona educazione, ma la vergogna di possedere ancora, nell’inferno, l’aria per respirare.

Eppure io credo che il silenzio insopportabile sceso per un in–stante tra umanità e Parola, tra speranza e ragione non sia stato davvero tale: forse è stata una assenza della voce, un Cantico muto, balbettato sommessamente, come la saggezza rabbinica consiglia di evocare taluni salmi dal contenuto impronunciabile, che però non sarebbe né sano né bene escludere dalla preghiera. Forse fu una lotta silente e notturna poi, all’alba, il dialogo ricominciò a voce alta. Fu per merito di quelli che avevano ascoltato, Shema Israel, e amato con tutto il loro cuore, la loro anima e le loro forze, che avevano nonostante tutto creduto che solo la parola infrange la solitudine di Dio e quella dell’uomo e rigenera la loro relazione. Così ricominciarono a dire, a domandare e contraddire, a narrare, a tramandare, a gridare anche la  Shoah, il Churban, la distruzione del Tempio. Scriveva Kafka che il canto, per il poeta, è sempre personalmente un grido.

Ancora figure di ebrei, oltre tutti i nomi ricordati sin qui, per dire, da dentro, per rinarrarci ancora una volta quella lotta mitica, fondante e notturna con l’Angelo, di cui non conosciamo le parole scambiate ma la ferita di Giacobbe/Israele col suo esito permanente e quella che fu, evidentemente, la posizione frontale dei combattenti. Ancora voci narranti ebraiche, per dare un’espressione formale alla realtà sfigurata, per ricominciare la fatica estenuante del confronto e del dialogo condotto come un combattimento, faccia a faccia, con se stessi, con l’altro e con Dio.  Furono altri maestri della mia generazione, molte donne: Anna Frank, Hetty Hillesum, Hannah Arendt, Primo Levi, Edith Stein, Simone Weil. La catena delle suggestioni porterebbe fino all’oggi, ad Amos Oz, AbrahamYehoshua, Amos Gitai, Zygmunt Barman. Ma fra tutte queste voci risuona, particolarissima, temeraria e sintetica, quella del poeta Paul Celan.1

EINMAL, der Tod hatte Zalauf,

verbargst du dich in mir

UNA VOLTA, la morte ebbe accesso

Tu ti nascondesti in me

Nella sua opera poetica, dialogica per eccellenza, l’io e il tu sono l’elemento strutturale permanente e riconoscibile anche quando il testo è polverizzato e il gioco del senso polivalente delle parole è portato alle estreme conseguenze. È poesia dialogica anche perché scritta in lingua tedesca, lingua materna e lingua dei carnefici. Il poeta che avrebbe potuto esprimersi in francese, rumeno, russo, ebraico con la stessa padronanza, scelse la lingua del male subito, in uno sforzo di mediazione e di re-incontro che contribuì decisamente alla consunzione della propria vita, ma anche al processo di conoscenza e riconciliazione se è vero, come è vero, che i componimenti di Paul Celan sono sui libri di scuola dei paesi di lingua tedesca come la celebre, epica Todesfuge/Fuga dalla morte

Negro latte dell’alba noi lo beviamo la sera

Noi lo beviamo al tramonto come al mattino lo beviamo la notte

Noi beviamo e beviamo

Noi scaviamo una tomba nell’aria

chi vi giace non sta stretto

Nella casa vive un uomo che gioca colle serpi

che scrive

Che scrive in Germania quando abbuia i tuoi capelli d’oro Margarete

Egli scrive egli s’erge sulla porta e le stelle lampeggiano

Egli raduna i mastini con un fischio

Con un fischio fa uscire gli ebrei fa scavare una tomba nella terra

Ci comanda e adesso suonate perché si deve ballare

Negro latte dell’alba noi ti beviamo la notte

                                                          

Poesia dialogica e per questo religiosa, non confessionale. Paul Celan non era un pio, praticante ebreo, ma come racconta nel componimento Russischer Fruhling egli aveva certamente combattuto come Giacobbe con l’Angelo, sentendo il pianto della propria madre sepolta nelle fosse comuni nei campi di sterminio, madre che aveva pianto come la Rachele biblica per tutti i morti e gli esiliati. Da quel germe, da quella notte, era nata la sua opera di testimone, di sopravvissuto e di uomo contemporaneo, che avrebbe incessantemente ricercato per ogni momento/frammento della propria vita un legame con la propria tradizione religiosa e con la propria esperienza del divino, per riformulare autenticamente la domanda radicale, jobica, sul senso ultimo dell’esistenza e della sofferenza del giusto, dell’innocente; domanda che nell’età del nichilismo ancora tutti ci riguarda.

Paul Celan non era e non voleva neanche essere un poeta ermetico; anche nei suoi testi più complessi, sia per il ricorrente contrappunto con i testi biblici, sia per la compresenza di più significati dovuti all’essere uomo e autore plurilingue, è sempre distinguibile “un motivo dominante”. Questo motivo conduttore è quello della ricerca della “parola vera”, di quella inversione, trasfigurazione del linguaggio ordinario che rende la poiesis la facoltà che ci strappa, sollevandoci, dal baratro del silenzio e dai naufragi della Relazione.  La parola vera che va ri-detta dopo Auschwitz è quel “cristallo di fiato” Atemkristel nominato nella strofa finale di una delle sue poesie più alte che rimanda direttamente al ruah Elohim dell’origine.

In fondo

al crepaccio dei tempi,

nel

favo di ghiaccio

attende, cristallo di fiato.

la tua non intaccabile testimonianza.

Paul Celan, che negli ultimi anni della sua vita amava presentarsi sempre più come “ein judischer Dichter aus der Heimat der chassidischen Geschichten” - un poeta ebreo proveniente dalla patria delle storie chassidiche, volle intraprendere,  nel 1969, un viaggio per conoscere il giovane stato di Israele: vi rimase venti giorni.

C’era

la scheggia di fico sul tuo labbro,

c’era Gerusalemme intorno a noi

c’era aroma di pino bianco

sopra la nave danese, a cui

eravamo grati

Io ero in Te

Il viaggio in Israele fu l’approdo obbligato dell’intero percorso esistenziale del poeta, momento finale della sua incessante ricerca di quel “Tu” amato e misterioso a cui si era sempre rivolto. Fu anche ricerca di identità, di comunità, bisogno di comunicazione e di consolazione: “in Gerusalemme sarete consolati”(Is 66,13)

Il riferimento alla Gerusalemme terrena ed a quella celeste caratterizza l’intero , ciclo di componimenti, pubblicati postumi.

…il non baciato

muro di un pianto

si fa rumoroso

per pienezza,

esso tasta le nostre bocche

si schiera dalla nostra parte,

c’intride

del suo biancore,

noi diamo noi stessi ad altri:

a te ed a me…

Pochi anni fa, mentre mi trovavo dentro un pellegrinaggio a Gerusalemme che, alla prova dei fatti, non riusciva a porsi nella prospettiva dell’abbraccio al fratello giudeo, respinto per secoli, la vox ebraica irrompeva fuori luogo, imbarazzante, la voce dell’esule, la voce di dentro, “la parola vera” mi costringeva a spezzare il cliché della organizzazione che mi conteneva e di cui facevo parte. Ero sciolta, ma non sola, finalmente entrata nel mythos dell’altro, nella sua coscienza inscalfibile, nel suo grembo, nella nostra radice, radix- matrix. Ero ricongiunta al fratello maggiore, interiormente inginocchiata  a Yad Vashem.

Un poeta fragile, ein judischer Dichter, mi dava “le parole vere”, le domande che rendevano possibile la svolta biografica, forse lo svuotamento del cuore.

I poli

sono in noi

insuperabili,

nella veglia,

noi trapassiamo, dormendo, davanti

alla porta della misericordia

io ti perdo in tuo favore, è questo

che mi consola nella neve.

Di’ che Gerusalemme esiste,

dillo, come se io fossi questo

tuo biancore

come se tu fossi

il mio,

e potessimo esser noi senza noi,

io ti sfoglio, per sempre,

tu ci ottieni, pregando, piegandoci

a giacere,

la libertà

Di’ che Gerusalemme esiste.

Invocazione, Salmo contemporaneo elevato oltre il bisogno individuale di rassicurazione, espressione del desiderio di trovare il senso ultimo che Gerusalemme promette e riassume,  oltre i confini, i legami del nostro presente annichilito.

Da:

“La Stella del Mattino” – laboratorio trimestrale per il dialogo religioso

www.lastelladelmattino.org/rivista



1Paul Celan, pseudonimo di Paul Anczel nacque a Cernovcyin, Bucovina, il 23 gennaio1920, morì suicida a Parigi il 24 aprile 1970. Cittadino francese, scrisse, per scelta, in lingua tedesca. Fu l’unico sopravvissuto della sua famiglia alla deportazione e allo sterminio. Nella sua poesia si incontrano influssi espressionisti e surrealisti che si fondono con la tradizione ebraico chassidica. La sua opera, pubblicata interamente in Italia nei Meridiani Mondadori, è considerata fra le più alte del Novecento per come ha saputo rappresentare il dramma dell’olocausto e la complessità della condizione ebraica tra diaspora e ricerca di stabilità in Israele.



Mercoledì, 06 febbraio 2008