Conoscere l’ebraismo
La Qabbalah di Elia Benamozegh, un Maestro dell’ebraismo sefardita e italiano.

di Marco Morselli,
Università di Modena e Reggio Emilia

Rav Elia Benamozegh è una delle maggiori figure dell’ebraismo italiano e sefardita dell’Ottocento. Nasce a Livorno nel 1823 da una famiglia originaria di Fez, in Marocco. Perde ben presto il padre, Avraham, e viene allevato dalla madre Clara e dallo zio materno Yehudah Coriat, rabbino e cabalista. Nelle lunghe notte invernali, alla fioca luce di una candela leggono insieme lo Zohar, il principale testo della Qabbalah.

            A 16 anni Elia vede stampate le sue prime pagine: la prefazione al Maor waShemesh, un’opera cabbalistica. Qualche anno dopo viene ordinato rabbino e inizia a insegnare nell’allora prestigioso Collegio Rabbinico livornese.

            A Livorno rimane fedele per il resto dei suoi giorni, conducendovi una vita interamente dedicata agli studi, alla scrittura, all’attività tipografica e editoriale, all’insegnamento, in compagnia della moglie, dei figli, degli allievi.

            Da liberale segue con partecipazione il Risorgimento e saluta con entusiasmo l’emancipazione degli ebrei e i nuovi orizzonti che essa apre.

            Scrive in ebraico, in italiano, in francese. Del 1865 è la Storia degli esseni, del 1867 Morale juive et morale chrétienne. Verranno pubblicate postume le sue opere maggiori: nel 1914 Israël et l’humanité e solo nel 2002 L’origine dei dogmi cristiani. Molte sue pagine sono tuttora inedite, molte sono andate perdute, altre sue opere attendono di essere ripubblicate, tradotte, studiate[1].

            Benamozegh ritiene che la Qabbalah costituisca la tradizione filosofico-teologica dell’ebraismo, come la Mishnah e il Talmud ne costituiscono invece la tradizione pratico-rituale. Pertanto la tradizione cabbalistica e la tradizione talmudica devono andare di pari passo. L’una costituisce la teoria, l’altra la prassi. Egli riteneva inoltre che, avendo il cristianesimo un’origine cabbalistica, solo facendo ritorno alla dottrina originaria sarebbe stata possibile una riforma di quella religione «che ha contato e conterà nelle sorti dell’umanità».

            La Torah orale precede ed accompagna la Torah scritta. La Bibbia diventa incomprensibile se la si isola dalla Tradizione. Tre generazioni prima di Gershom Scholem, Benamozegh tenta di presentare agli europei la tradizione esoterica ebraica, ritenuta però non di origine medievale, ma risalente a Mosè e tramandata da bocca a bocca in una catena ininterrotta di generazioni.

            Egli ha inoltre riscoperto la dimensione universalistica dell’ebraismo. Per millenni esso è stato accusato di essere una religione particolaristica. Benamozegh ha voluto dimostrare l’infondatezza di tale accusa. Come sarebbe mai possibile che da tale particolarismo siano nate due religioni universali (o meglio: aspiranti all’universalità) come il cristianesimo e l’islamismo? Vi è nell’ebraismo una duplice struttura, particolare-universale, articolata in mosaismo e noachismo. Con l’avvicinarsi dell’era messianica si assisterà ad una progressiva purificazione delle diverse tradizioni religiose che porterà addirittura, al di fuori delle religioni abramitiche, alla conciliazione tra monoteismo e politeismo.

                       

Nel 1865 Aimé Pallière (1868-1949), un giovane cattolico francese, entra “per caso” nella Sinagoga di Lione il giorno di Kippur. L’impressione che ne riceve è tale da trasformare completamente la sua esistenza[2].

Inizia a studiare l’ebraico e, tramite l’Historia de’ riti ebraici di Leone Modena, scopre il modo in cui gli ebrei attraverso Shabbat e i moadim (le feste, o meglio: le sacre convocazioni, i tempi in cui Israele incontra il Signore) santificano il tempo[3]. Si procura un Siddur, un libro di preghiere, e inizia a pregare tre volte al giorno. Incomincia a osservare le mitzwot, quella parte dei 613 comandamenti che è possibile osservare durante il periodo della distruzione del Tempio.

L’incontro con l’ebraismo, anzi con il popolo ebraico, provoca in Pallière una radicale crisi religiosa. Eppure tale crisi non si trasformò mai in una crisi di fede: la emunah in D. non gli venne mai a mancare. Anzi, proprio il radicarsi nella fede d’Israele gli permise di attraversare la crisi modernista, dalla quale tanti altri furono travolti.

In quella fase della sua vita Pallière aveva deciso di convertirsi all’ebraismo. Viene indirizzato a Rav Elia Benamozegh di Livorno. Nel 1889 egli dunque è a Livorno per la festa di Rosh haShanah, il Capodanno ebraico, ma Benamozegh è malato e non può riceverlo. Inizia però tra loro una corrispondenza nella quale Benamozegh gli propone di diventare un noachide: «Per essere nostro fratello, come desiderate, non avete bisogno di abbracciare l’ebraismo nella maniera che credete, cioè sottomettendovi al giogo della nostra Legge. Noi ebrei siamo depositari della religione destinata all’intero genere umano, la sola religione cui i gentili siano assoggettati, e per cui sono salvi e veramente nella grazia di D. La religione dell’umanità non è altro che il noachismo»[4].

Del noachismo Pallière non aveva mai sentito parlare e la proposta non gli sembrò né chiara né convincente. Maestro e discepolo si incontrarono solo una volta (nel 1898) e la loro corrispondenza terminò poco dopo.

Nel 1900 Benamozegh lascia questo mondo. L’anno successivo Pallière si reca sulla sua tomba e, come scrive, «è a partire da quel momento che ho cominciato a comprendere Elia Benamozegh e la dottrina che mi aveva esposto. E’ a iniziare da quell’ora che mi sono veramente sentito suo discepolo»[5].

Che cos’è il noachismo? Lasciamo che sia lo stesso Benamozegh a presentarlo: «La legge di Noè non ha niente da invidiare, per nobiltà e santità, alla legge di Mosè. E’ stata non solo la legge di Adamo, di Noè e di tutti i Patriarchi prima di Abramo, ma anche quella di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, di tutti i loro figli e discendenti e dello stesso Mosè prima della rivelazione del Sinai»[6].

Il goy (il non ebreo) che si convertiva doveva presentarsi davanti a tre rabbini e alla loro presenza doveva dichiarare la sua intenzione di voler appartenere alla religione noachide. E’ probabile che la conversione fosse accompagnata dal battesimo, ossia dall’immersione nelle acque del miqweh, come avveniva e avviene per le conversioni all’ebraismo “mosaico”.

Con la conversione il goy diventa un ger toshav e si impegna a rispettare sette comandamenti: 1) istituzione di tribunali 2) divieto di blasfemia 3) divieto di idolatria 4) divieto di adulterio 5) divieto di omicidio 6) divieto di furto 7) divieto di mangiare una parte di un animale che sia strappata mentre è vivo (ossia divieto di crudeltà nei confronti degli animali).

Rispettando questi comandamenti, il noachide entrerà nel mondo a venire, avrà parte alla vita eterna.

Benamozegh sperava dunque che con Pallière avrebbe avuto inizio il moderno movimento noachide. Il che vuol dire anche che egli riteneva ormai prossimi i tempi messianici, dal momento che il noachismo viene visto come la religione dell’umanità messianica.

Tuttavia, se esaminiamo la  vita di Pallière successiva alla rivelazione nei pressi della tomba, possiamo tranquillamente affermare che non solo non diede vita al movimento noachide, ma in fondo non  fu neppure lui stesso un noachide. Egli si dedica a organizzare incontri ecumenici (con salutisti, battisti, metodisti, avventisti) e anche interreligiosi (fu amico di un sufi), finché la Pascendi di Pio X nel 1907 non pose fine a tale genere di attività. Dedica lunghi anni all’edizione e riscrittura di quello che è considerato il capolavoro di Benamozegh: Israël et l’humanité (pubblicato a Parigi nel 1914). Si convince che la sua vocazione sia quella di predicare agli ebrei la fedeltà alla Torah e alla Terra d’Israele. Dirige movimenti giovanili ebraici, educa al sionismo, collabora con il Keren Kajemet, insegna la lingua ebraica, riorganizza il culto nella Sinagoga riformata o liberale di rue Copernic a Parigi. Influenzato, o in sintonia con il suo amico italiano Rav Alfonso Pacifici vuole aiutare gli ebrei a riscoprire l’ebraismo integrale e favorire l’incontro tra Am, Torah, Eretz (Popolo d’Israele, Bibbia d’Israele e Terra d’Israele).

Come si vede, un programma lodevole e affatto straordinario, ma diverso da quello preconizzato da colui che lui considerava il proprio maestro.

Nel 1942 Pallière ritorna alla pratica dei sacramenti cattolici. Vive gli anni della Shoah nascosto e cercando di aiutare per quel che può i suoi amici perseguitati. Assiste con emozione alla nascita dello Stato d’Israele, ossia al risorgere di una sovranità ebraica dopo 19 secoli di asservimento. Chiude i suoi giorni nei pressi di un’Abbazia, considerato dai monaci come «un cristiano che viveva in modo ebraico».

            Nell’epistolario Benamozegh scrive che il noachismo è la religione dell’umanità convertita al culto del vero D., di cui i Profeti hanno annunciato il trionfo nei tempi messianici. Si può continuare a chiamarlo cristianesimo, egli aggiunge, purché venga “liberato” della dottrina della Trinità e dell’Incarnazione.

            Ora, si può ben capire che per un cristiano questo discorso sia inaccettabile. Cosa rimane mai del cristianesimo una volta che sia stato “liberato” dei suoi dogmi centrali? Bisogna però ricordare che a tali questioni Benamozegh aveva dedicato un’opera di centinaia di pagine: L’origine des dogmes chrétiens, che potrà essere pubblicata solo un secolo dopo la sua morte. In tale opera egli riconduceva le dottrine della Trinità e dell’Incarnazione alla loro origine cabbalistica. Si tratterebbe dunque non di eliminare, ma di riformulare tali dogmi, in modo più conforme alla loro origine ebraica.

            L’altro punto sul quale si è determinato lo scisma tra cristianesimo e ebraismo riguarda l’abolizione della Torah, e qui Benamozegh ha buon gioco nel dimostrare che tale abolizione non risale a Rav Yeshua ben Yosef  e neppure ai suoi primi  talmidim, discepoli. Si pensi anche solo a Matteo 5,17-19 o a Atti 15.

            Pallière non ha voluto quindi abbandonare il suo cristianesimo: ha voluto essere un diverso tipo di cristiano. Ha abbandonato la teologia della sostituzione e l’insegnamento del disprezzo. Ha amato Israele, la sua spiritualità, la sua storia, le sue feste, le sue preghiere. Ha amato le sue Scritture e la sua lingua. Ha compreso la dialettica tra esilio e ritorno. Ha ritenuto che il suo essere seguace di Yeshua non lo ponesse affatto in opposizione a Israele, ma anzi gli consentisse di farne in qualche modo parte, di esserne affiliato. Israele è la radice santa sulla quale sono stati innestati i goyim.

            Per quale ragione in fondo Benamozegh non è riuscito a essere più chiaro e a spiegare meglio al suo discepolo quale fosse il suo pensiero?

            Per rispondere a questa domanda dobbiamo affrontare un’altra questione, apparentemente il maggior motivo di dissenso tra ebrei e cristiani. Rav Yeshua ben Yosef è il Messia oppure no? Se si risponde sì, si è cristiani, se si risponde no, non lo si è. E’ segno della grande saggezza di Rav Elia Benamozegh che tale questione non sia mai affrontata direttamente. Non è questa la questione che può essere affrontata in via preliminare in un dialogo tra ebrei e cristiani. Se lo si fa, non ci si può che trovare di fronte a un sì e un no, oltre i quali, da entrambe le parti, si aprono gli abissi dell’apostasia.

            «Il Messia non è venuto, né verrà, ma sta venendo»: questo detto di Benamozegh è in linea con il pensiero dei grandi maestri d’Israele come Yehudah haLewi o Mosheh ben Maimon, i quali considerano cristianesimo e islamismo come preparazioni messianiche[7].

            Se degli ebrei nel I secolo non avessero elaborato una teoria messianica concernente Rav Yeshua ben Yosef, il cristianesimo non sarebbe nato. Tale dottrina, al pari di tante altre, ha subito nel corso dei secoli, e in special modo nel corso dei primi tre, dei profondi cambiamenti. Dopo Jules Isaac, noi conosciamo i danni causati dalla teologia della sostituzione e dall’insegnamento del disprezzo[8]. E’ però forse ancora possibile restaurare la dottrina originaria? Questa è la speranza di Elia Benamozegh, a questo mira il programma da lui elaborato, con la sua idea di un tiqqun del cristianesimo come parte del tiqqun olam (guarigione, purificazione, riparazione del mondo).

L’attesa messianica unisce ebrei e cristiani. Entrambi, sia pure in modo diverso, vivono tra un già e un non ancora. Purché il Messia compia le opere del Messia, è poi così grande la differenza tra una prima e una seconda venuta?

Se, a partire dalla hebraica veritas sul Messia, i cristiani decideranno di ridivenire messianici, allora forse veramente non saranno lontani i passi del Messia.



[1] Elia Benamozegh, Israele e l’umanità. Studio sul problema della religione universale, Marietti, Genova 1990; Id., Morale ebraica e morale cristiana, Marietti, Genova 1997; Id., L’origine dei dogmi cristiani, Marietti, Genova-Milano 2002. Su Benamozegh sono da vedere:  «La Rassegna Mensile di Israel» set.-dic. 1997 (numero speciale a lui dedicato); A. Guetta, Filosofia e Qabbalah. Saggio sul pensiero di E. B., Thalassa De Paz, Milano 2000; Sedici autori per E. B., Thalassa De Paz, Milano 2001; L. Amoroso, Scintille ebraiche. Spinoza, Vico e B., ETS, Pisa 2004.

[2] A. Pallière, Il Santuario sconosciuto. La mia “conversione” all’ebraismo, Marietti, Genova-Milano 2005.

[3] Come prima introduzione si possono consigliare: A. J. Heschel, Il Sabato. Il suo significato per l’uomo moderno, Garzanti 2000; C. Estin, Feste e racconti ebraici, Dehoniane, Roma 1995.

[4] La lettera è riportata in appendice all’ autobiografia di Pallière, p. 174.

[5] A. Pallière, op. cit., p. 122.

[6] E. Benamozegh, Israele e l’umanità, cit., p. 219.

[7] Per una prima informazione su questi due grandi filosofi ebrei medioevali si può vedere: Torah e filosofia: percorsi del pensiero ebraico, Giuntina, Firenze 1993.

[8] J. Isaac, Gesù e Israele, Marietti, Genova 2001.



Venerdě, 09 novembre 2007