Tu non uccidere

I primi 10 capitoli del più famoso degli scritti di don Primo


di Don Primo Mazzolari

PREFAZIONE


«Il cristiano è un “uomo di pace“,
non un “uomo in pace“: fare la pace
è la sua vocazione«.
(P. Mazzolari, Tu non uccidere)


Non c’è pace senza disarmo. Non c’è disarmo se non tacciono i cannoni, se non si smontano, oltre alle ram­pe missilistiche, anche gli spiriti. La pace non si regge sull’equilibrio degli armamenti, ma solo sulla vicende­vole fiducia, sul disarmo dei cuori (cfr. Giovanni XXIII, Pacem in Terris, n. 113).
Oggi, a più di cento anni dalla nascita di don Pri­mo Mazzolari, innanzi alla sua tomba di testimone e costruttore di «pace con giustizia», nell’amore, risen­to nel profondo dell’animo l’interrogativo di Hans Fal­lada: « Kleiner Mann, was nun? » (« E adesso, po­ver’uomo? »). I protagonisti dell’idillio sognato da Fal­lada trovano la forza liberatrice da umilianti condi­zionamenti e dall’emarginazione nell’amore semplice e purificatore. È ciò cui aspirano gli onesti di tutto il mondo, i poveri e gli emarginati: riconoscimento del­la propria dignità, rispetto dei diritti inalienabili della persona, solidarietà universale.
È passato poco tempo dal giorno in cui, nelle terre in cui si consumava il dramma del Medio Oriente, le lu­ci della ribalta si sono spente. La guerra ha vinto. La pa­ce ferita attende il taumaturgo che la rimetta in piedi.
Ha detto, qud giorno, l’arcivescovo di Ravenna, mons. Tonini: «Sono felice che tutto finisca finalmente, non solo perché cesserà il massacro di vite umane, ma per­ché la si smetterà anche con questa estasi dell’arrivano i nostri ». Egli vorrebbe che la fantasia della gente fosse ripulita da tutte le visioni guerresche, vorrebbe che ne rimanesse una sola: « Quel soldato iracheno prigionie­ro, inginocchiato e impaurito sotto la minaccia del mi­tra, visto in televisione, perché quella immagine susci­ta fratellanza e partecipazione

Noi abbiamo appreso dal messaggio cristiano come camminare, dove andare, cosa portare con noi. Cristo ci ha autorizzati ad operare esclusivamente con la for­za della Parola e dell’Amore.
Preoccupati di non soffiare ora sul fuoco di un più esteso conflitto che ci terrorizza: Nord-Sud, e, Dio non voglia: Mondo cristiano-Mondo musulmano, abbando­nati idoli ed illusioni, menzogne e compromessi, denun­ciati interessi inconfessabili, siamo persuasi che solo di­nanzi ai testimoni, come i papi di questo secolo, come i Gandhi, i La Pira, i Mazzolari, i Martin Luther King, « la morte ha paura » (David Turoldo), la guerra ha pau­ra, la prepotenza ha paura.
Nelle giornate più dure della crisi e della guerra nel Golfo, taluni hanno riesumato il complimento « utili idioti», talaltri avrebbero voluto relegarci in sagrestia e proibirci addirittura di citare Newman, il maestro della «libertà di coscienza».
«Nostro Signore non ci proibì di difenderci, ma ci proibì certi modi di difesa. Inutile dire che ci proibì tutti i mezzi peccaminosi. Ci proibì di restituire schiaf­fo per schiaffa Avete sentito dire: Occhio per occhio, dente per dente; ma io vi dico di non resistere al male. Così ai servi di Cristo è proibito difendersi con la violenza».
Commentava Mazzolari: «Non si rinuncia a resistere, si sceglie un altro modo di resistere, che può parere est re­mamente folle, qualora si dimentichi, o non si tenga ab­bastanza conto, dell’orrendo costo della guerra, la quale non garantisce neppure la difesa di ciò che vogliamo con essa difendere » (Tu non uccidere, 1955).
In quelle lunghe settimane di passione, eco fedele e sollecita della voce del Papa, L’Osservatore romano, co­me già nelle buie ore degli anni quaranta, si è dissocia­to « dal coro di consensi bellici » (20 gennaio 1991), ha compiuto un’eccellente catechesi, ha spronato all’auda­cia dell’amore, ha protestato contro « la cultura bellica, germe di morte», ha scongiurato i responsabili delle na­zioni ad intraprendere « la via del negoziato, certo più difficile della via delle anni».
A suo tempo, in vista della pace sociale e tra le nazio­ni, Mazzolari conchiudeva il suo lucido carme Tu non uccidere con appassionato appello alla ragione e alla fede:
« Di fronte alla criminale resistenza di molti benpen­santi, non è facile persuadere la povera gente che la giu­stizia possa arrivare senza violenza. Se vogliamo rista­bilire la fiducia degli oppressi e dei diseredati nella pa­ce cristiana, dobbiamo, prima che sia troppo tardi, di­mostrare che non è necessario far saltare con la dina­mite la corteccia degli egoismi, i quali impediscono ai poveri di vivere e di far valere democraticamente i loro diritti. La pace non sarà mai sicura e tranquilla fino a quando i poveri, per fare un passo in difesa del loro pa­ne e della loro dignità, saranno lasciati nella diabolica tentazione di dover rigare di sangue la loro strada. Sen­za giustizia non c’è pace. Frutto della giustizia è la pa­ce: “Opus justitiae pax».

Lo riaffermava Paolo VI nell’enciclica Populorum pro­gressio. L’ha ripetuto l’8 febbraio scorso Giovanni Pao­lo II: « La società ritroverà la pace, tanto auspicata, solo se si eliminano le cause del disagio e dell’ingiustizia».
Suona l’ora dell’obiezione di coscienza, individuata come servizio e profezia. Essa invita i cristiani più sen­sibili alle urgenze evangeliche e gli scienziati ad entra­re nell’area del dialogo e delle trattative. Tutti gli onesti sono spaventati innanzi ai progressi compiuti dalla microelettronica piegata alle esigenze e alle pretese della guerra. Torna attuale il severo monito di Giovanni Pao­lo II agli scienziati:
« Verità, libertà, giustizia, amore (cfr. Pacem in terris) siano i fondamentali capisaldi della vostra generosa scel­ta di una scienza che edifica la pace. Questi quattro va­lori, capisaldi della scienza e della civile convivenza, de­vono essere alla base di quell’universale appello di scien­ziati, uomini di cultura, cittadini del mondo, che la Pon­tificia Accademia delle Scienze, con la mia piena e con­vinta approvazione, vuole lanciare al mondo per la ri­conciliazione dei popoli, per il successo dell’unica guer­ra che deve essere combattuta, quella contro la fame, la malattia, la morte di milioni di esseri umani che po­trebbero essere salvati... Assumetevi anche voi le vostre responsabilità, consapevolmente » (Insegnamenti di Gio­vanni Paolo II, VI-2, 1983).
Ancora un ricorda Ho letto, nei «giorni del Golfo», ritrasmessa da un’antenna non sospetta di arrendevo­lezze al Vaticano, un’intervista concessa da Massimo Cacciari a Marco Sappini: « Ha ragione il Papa e solo il Papa - diceva Cacciari -. Io sento che l’appello di Wojtyla parla alla mia coscienza e alla mia intelligen­za. Mi interroga e mi sfida di più. Rimanda tutti alla comprensione dell’altrQ alla costruzione di una cultu­ra davvero ecumenica » (L~Unità, 27 febbraio 1991, p. 8).

La «fontana del villaggio» (Giovanni XXIII), postosi decisamente a servizio delle nazioni, ha dato acqua re­frigerante lungo tutto il corso di questo secolo XX. A questa sorgente vogliamo dissetarci. Vogliamo rinunci a-re all’arroganza ed agli egoismi per entrare nell’area del­la settima beatitudine, pur consapevoli di non essere so­vente costruttori di pace, perché non siamo in pace né con Dio, né con noi stessi, né col nostro prossimo.
Senza la riconsiderazione e la confessione delle col­pe, dei silenzi, delle connivenze di ieri, il deserto non tornerà a fiorire, l’Onu non sarà mai la casa di tutti: «La via della pace richiede un cammino meno glorioso, ma sostanzialmente più eroico ed efficace del cammino trac­ciato dalla via della guerra » (LOsservatore romano, 25/26 febbraio 1991).

Andiamo, dunque, a rileggere assieme, nelle pagine che seguono, la « lezione » di Mazzolari:
« Se la colpa di un mondo senza pace è di tutti, e dei cristiani in modo particolare, l’opera della pace non può essere che un’opera comune, nella quale i cristiani de­vono avere un compito precipuo, come precipua è la lo­ro responsabilità. Ogni sforzo verso la pace ha una sua validità: chiunque vi si provi dev’essere guardato con fi­ducia e benevolenza. Il politico può far delle cernite, por­re delle pregiudiziali: il cristiano mai. Il cristiano non può rifiutare che il male, per comporre cattolicamente ogni cosa buona».


†Loris FRANCE5CO Capovilla
arcivescovo di Mesembria




INTRODUZIONE


A Bozzolo, in una giornata d’agosto del 1950, arriva­no a don Primo Mazzolari, nella stessa busta, due let­tere sorprendenti.
La prima è formalmente indirizzata ad Adesso, il quindicinale « d’impegno cristiano » fondato da Mazzo­lan nel gennaio 1949. La lettera dice:

« Caro Adesso,
siamo un gruppo di giovani né fascisti, né comuni­sti, né democristiani, ma cristiani, democratici, italia­ni. Ogni giorno, a ritmo incalzante, sentiamo parlare di niarmi, di stanziamenti favolosi e urgenti per pro­duzioni belliche, di guerra imminente, di difesa nazio­nale e di blocchi contrapposti.
Chiediamo:
1) In caso di guerra, dobbiamo impugnare le armi?
2) In caso affermativo - come italiani - con chi e contro chi?
3) In caso di occupazione americana (vedi patto atlan­tico) o russa il nostro atteggiamento dovrà essere di col­laborazione, di neutralità o di ostilità?
Desideriamo una risposta precisa di Adesso per cia­scuno degli interrogativi.
Ringraziamo per l’ospitalità e salutiamo cordialmente». La seconda lettera è rivolta personalmente a Mazzola­ri. Dice:
« Carissimo don Primo,
il gruppo di giovani che Le scrive si presenta: tutti lettori e sostenitori di Adesso, tutti laureati, tutti non iscritti a partiti, tutti provenienti da associazioni o am­bienti cattolici, tutti ex combattenti, ex partigiani, ex prigionieri, nessun fascista, nessun capitalista. Può bastare.
Dopo mesi di discussione, orientati verso una pace che è tremendamente sentita, prima ancora che volu­ta, mentre stavamo per prendere una decisione, venne all’ultimo momento il discorso di Pacciardi - con re­lativo messaggio di De Gasperi - alle truppe in mano­vra. Fu la goccia che fece traboccare il vaso.
È sorto così il nuovo caso di coscienza, che, non du­bitiamo menomamente, non sarà solo nostro.
Abbiamo voluto con chiarezza e precisione formula­re tre domande, indirizzandole ad Adesso. Noi ora, pe­rò, Le chiediamo personalmente:
a) se Lei ritiene di poterci rispondere personalmen­te, per il solo fatto che nella lettera allegata si ravvisa-no cose più gravi - di quanto non siano - per Adesso, faccia pure, stracci la lettera e non la pubblichi;
b) se Lei ritiene di dover rispondere evasivamente o di impostare la discussione aprendo una parentesi che non resterà a lungo vuota, pubblichi pure, ma firmi al­lora - pago della nostra lealtà - « un gruppo di gio­vani di città diverse».
c) se Lei invece - come pensiamo - imposterà il pro­blema, risponderà con precisione e darà motivo di aver­ci compreso, allora metta pure i nomi, uno sotto l’al­tro e... quel che ha da venire venga. Noi siamo pronti. E che il Cielo ci benedica, per quel che facciamo ades­so e per quel che faremo domani.
Grazie e perdoni ».

I giovani che si rivolgono a Mazzolari - possiamo, adesso, nipeterne i nomi « uno sotto l’altro » - sono:
Giovanni Cristini, Lino Monchieri, Franco Nardini, Ga­briele Calvi di Brescia; Marco Del Corno, Mauro Laeng di Milano; Giuseppe Gilardini di Pavia; Matteo Perrini di Taranto; Gaetano Santomauro di Bari.

Mazzolari risponderà ben presto, su Adesso, alle tre domande di quei ragazzi: ma i termini del loro « caso di coscienza » diverranno anche il tema costante di una lunga serie di scritti - tutti di suo pugno - alcuni but­tati giù d’impulso, altri più sistematicamente medita­ti, pubblicati ad intervalli in una rubrica dal titolo (qua­si un proclama e un programma): « Pace, nostra osti­nazione».
Un’« ostinazione » continua, che ispira per anni - in quell’epoca di guerra fredda, di allarmi, timori e incer­te speranze - interventi, puntualizzazioni, polemiche. Solo agli inizi del ’55 gli amici di Adesso pensano di rac­cogliere in volume quei brani: ai quali Mazzolari ag­giunge altri scritti, redatti in funzione della completez­za del testo, suggeriti, a loro volta, da occasioni, stimoli immediati, e da una profonda, lacerante riflessione per­sonale sul rifiuto, sulla illiceità assoluta e permanente di ogni guerra.
Possiamo seguire attraverso il diario di Mazzolari le vicende, la risonanza e l’accoglienza di questo testo, al quale non mancarono le rituali tribolazioni.

Venerdì 4 marzo 1955. Nella pagina dell’agenda sul­la quale Mazzolari annotava ogni giorno, in poche ri­ghe, le opere, i fatti, i sentimenti da affidare ad un « dia­rio » tutto suo, intimo e personale, troviamo: « Arriva Rienzo [Colla] da Roma, Genova, Milano. Tu non ucci­dere sarà pronto fra quindici giorni». È il primo rife­rimento esplicito al volume (di cui Mazzolari aveva completato a gennaio la correzione e la revisione delle bozze), allora in stampa presso « La Locusta » di Vicen­za, che sarebbe apparso qualche settimana dopo, ano­nimo, con quel titolo così perentorio e intrigante.

Martedì 19aprile 1955. Ecco, su quest’altra pagina del « diario »‚ un brevissimo appunto: « È uscito Tu non uccidere, ma qui [a Bozzolo] non è arrivato ». Le copie del piccolo volume arriveranno qualche giorno dopo. 1127 aprile, infatti, Mazzolari scrive: « Spedito Tu non ucci­dere a don Spada, dott. Manghini, sorella Maria, Vitto­ria Fabrizi, Igino Giordani ».
Il libro, come dicevamo, era anonimo. La data d’edi­zione, la prima, era fissata al 15 aprile 1955. A giustifi­cazione dell’anonimato, il testo veniva introdotto da queste righe: « Alcuni giovani cattolici, trovatisi casual­mente insieme per qualche giorno di vacanza, si sono trovati a parlare di pace, come vuole il loro cuore, con nessuna relazione prefabbricata e nessuna preordina­ta conclusione. Questi frammenti ripetono in qualche modo il travaglio della loro ricerca, in cui ogni parola porta il costo della loro cristiana preoccupazione. Se il loro andare oltre l’obbiezione di coscienza, fino a sen­tire la guerra come un peccato; se la loro professione di pace, che arriva all’impegno di un terz’ordine laico, fosse un sentire immaturo o un proposito indisciplina­to, da questo momento, senza rinunciare al loro trava­glio, dichiarano la propria obbedienza alla Chiesa».
Chi fosse, in realtà, l’autore, gli amici e i lettori di Adesso non avevano difficoltà ad immaginare: ma la portata rivoluzionaria delle posizioni espresse in quei « frammenti »‚ rispetto alle tradizionali « distinzioni »sostenute dalla Chiesa di allora, consigliava - ogni tempo ha i suoi fardelli e le sue pene - una tempora­nea prudenza. Una prudenza che, eliminando il rischio di misure censorie « personalizzate » finiva per favori­re, assieme con la diffusione del testo, un vasto e salu­tare dibattito.
Martedì 3 maggio 1955. Mazzolari scrive sulla sua agenda: « Igino Giordani mi risponde una affettuosis­sima lettera per Tu non uccidere. Spedisco il libro an­che a Luigi Santucci ».
Incominciano i commenti, i giudizi, le recensioni. Adesso annuncia per la prima volta la pubblicazione del volume nel numero del 10 maggio: « Una pubblicazione - scrive - originale ed audace, che raccoglie, in forma quasi aforistica, il frutto delle meditazioni di un gruppo di giovani cattolici sui problemi della guer­ra e della pace». Nel numero del 15 maggio, Adesso de­dica, invece, al libro (« piccolo di mole ma inquietan­te »)’ un’intera pagina, ma soltanto per riportarne al­cuni estratti, senza un proprio commento. 1110 giugno, il quindicinale pubblicherà un breve scritto di Aldo Pe­drone sul tema del « non uccidere», ma senza riferimen­ti diretti al libro (con accenni, piuttosto, ad un altro vo­lume: « La passione di Gesù», di Bernardi, edito da Ma­rietti).

Martedì 7giugno 1955. Una breve nota di don Primo sul diario: « Giordani mi manda un bellissimo articolo su Tu non uccidere che spedisco subito a Giulio » (Giu­lio Vaggi, direttore responsabile di Adesso).
L’articolo appare subito, nel numero del 15 giugno con il titolo: « La pace è soprattutto eroismo ». Giorda­ni si congratula, innanzitutto, con chi ha raccolto e pub­blicato quei « frammenti » di meditazione: « In questo libretto - scrive - si stilla dal Vangelo più di qualche idea saggia e di qualche fermento... Spetta a noi catto­lici prendere l’iniziativa della pace (e la pace si fa coi nemici, non con i commensali). Se noi cattolici abbia­mo, come abbiamo, un’idea superiore e più vera che non quella degli atei, dobbiamo farla valere e non te­nerla nei volumi, scritti magari in lingua morta... Pur­troppo, la guerra è tuttora in mano dei militari, dei po­litici, dei banchieri: ma questo non stupisce. Stupisce e angoscia, invece, che, a loro servizio, anche giuristi e letterati e magari moralisti, siano sempre pronti a le­gittimare, osannare e provocare quell’imbecille delit­to che è la guerra, la quale oggi non risolve nessun pro­blema. Genera problemi: e tra essi quello sempre più crudo d’una decadenza morale e d’una sfiducia religio­sa tale da legittimare il pensiero del cardinal Feltin, secondo cui il problema della pace non è un problema, ma il problema dell’età nostra». E Giordani così conclude il suo scritto: « Coraggio, e beati voi che siete i “pacifici“
Un’altra pagina Adesso dedica a Tu non uccidere nel numero del 1° luglio 1955, questa volta con una vera e propria recensione a firma di Angelo Romani: « I venti­quattro capitoletti del Tu non uccidere sono venuti al­la luce timidi e ingiustamente umiliati da una anoni­ma paternità: forse perché sapevano di presentarsi ad un ambiente smarrito e sospettoso ad un tempo. Se Tu non uccidere, per meglio farsi sentire, fosse uscito a gri­dare fuori di casa, avrebbe destato immediatamente scalpore. Sa, però, di essere più un libro di domani che un libro di oggi e per questo ha scelto il marcire del gra. num frumenti in un angolo del giardino di Casa
L’umiliazione di quell’anonima paternità verrà ri­scattata soltanto nel 1965 (a sei anni dalla morte di don Primo) quando uscirà, giustamente anche se tardiva-mente firmata, la terza edizione.
Ritorniamo al 1955. Adesso, sia pure con una certa discontinuità (ed anche, volendo giudicare con il sen­no di oggi, con una sorta di reticenza ad approfondire « in proprio » ed esaltare le conclusioni più brucianti di quel testo) tiene aperto il discorso, con interventi vari o con citazioni da altre opere, alternandone la colloca­zione o sotto la sigla « Tu non uccidere » o sotto la con­sueta rubrica « Pace, nostra ostinazione».
Un articolo, apparso sul numero di Adesso del 15 set­tembre, stimola un particolare richiamo. È di Luigi Santucci, pubblicato dapprima sul quotidiano Il Popolo di Milano, e ripreso, poi, dal quindicinale mazzolaria­no. È una « lettera aperta » che Santucci rivolge a don Primo, qualche tempo dopo che un incontro dei quat­tro « grandi » a Ginevra, in piena guerra fredda - c’e­rano, sul Lemano, Eisenhower e Krusciov - si era con­cluso in un singolare clima di speranza e di euforica attesa. Ebbene, dopo questo fatto, quando - scrive Santucci - sembra che il sogno mazzolariano di pace ad ogni costo sia divenuto un po’ meno sogno, o, in qual­che caso « un sogno meno pazzo e risibile, dal momento che mostravano di condividerlo i quattro arbitri del mondo »‚ dopo questo fatto « tutti siamo in debito con don Primo almeno di una lettera di rallegramento... ». La ragione è che « fra le nostre tende cattoliche è ben stato Lei, don Primo, durante questi anni, il cappella­no della pace ». E Santucci immagina una sorta di pel­legrinaggio di « cuori speranti » in cammino verso la ca­nonica di don Primo: « cioè verso il piccolo quartier ge­nerale della pace in Italia». « E così - aggiunge - ho fantasticato che certe sue pagine circolassero sui ta­voli dello storico convegno; che certe sue parole - co­late come stille di sangue in tante nostre sere di inti­mità - echeggiassero in quei giorni a sovvertire il con­formismo, l’astuzia e ambigua fede degli scacchisti di Ginevra».

Il 15 marzo 1956, Adesso annuncia la preparazione di una nuova edizione di Tu non uccidere, ancora anoni­ma (« sgorgata dalla ostinazione » del quindicinale) e ri­porta su due pagine una sintesi dei giudizi più acuti e delle reazioni più vive suscitate da quei « frammen­ti » nel mondo della cultura e del giornalismo italiano.
« Quando la primavera dell’anno scorso - è detto in una nota editoriale - il Tu non uccidere iniziò il suo giro in Italia, tutti noi ebbimo un attimo di apprensio­ne. Sarà la sua voce? Sarà avvertita? Non gli si costrui­rà sopra confusione e rancore? ».

Nel ’57 esce la seconda edizione, ancora anonima. Mazzolari, sulla sua agenda, nota l’arrivo delle prime copie a Bozzolo: 17 giugno.
Non passeranno molti mesi prima che il timore di Adesso (« Sarà raccolta la sua voce? Sarà avvertita? Non gli si costruirà sopra confusione e rancore?») si avveri.
Lunedì 24 febbraio 1958. Sulla pagina del diario, que­ste poche parole: « Rienzo Colla mi comunica che il San­t’Uffizio, per mezzo della Curia di Vicenza, ha ordina­to il ritiro di Tu non uccidere. Pazienza».
Sabato 3 maggio 1958. Un’ultima annotazione sul dia­rio: « Viene Rienzo. La Curia di Vicenza ha sigillato in una cassa Tu non uccidere ».

Oggi, a trenta, quarant’anni di distanza da quei tem­pi, non c’è nulla nel testo di Mazzolari che possa dirsi superato, datato, inattuale e caduco.
È vero, le occasioni di guerra cambiano, gli antago­nisti hanno un nome diverso: ma la « questione » rima­ne la stessa. E rimane identico l’impegno del cristiano.
I pochi riferimenti « datati » alla situazione di guer­ra fredda di allora, e alla contrapposizione dei due bloc­chi, dei due sistemi politici, militari, ideologici, « occi­dentale » e « orientale »‚ non tolgono alcunché alla « at­tualità » di un discorso che è ancora in anticipo, rispetto alle posizioni ufficiali della Chiesa e a tanta parte di una coscienza cristiana dubbiosa, inquieta, in peren­ne contraddizione.
Certo, qualcuno potrà ancora esserne sconcertato, dissentire o dubitare: ma non c’è dubbio che nessun di­scorso, nessun dibattito, nessuna seria riflessione sul­la guerra e la pace, dovunque e con qualsiasi intenzio­ne si facciano, potranno più escludere quelle parole, potranno più « far senza » quei princìpi, quella carica combattiva, quelle rigorose argomentazioni, quell’im­placabile ortodossia, quel dovere che sta al di sopra di ogni eccezione: tu non uccidere.
E non è stato certamente un caso, durante il conflit­to nel Golfo, il fatto di aver sentito risuonare dal bal­cone del Palazzo apostolico, dall’Aula delle benedizio­ni, dall’altare di San Pietro, le quotidiane invocazioni alla pace, gli appelli, i moniti, le parole e gli allarmi di Giovanni Paolo II, così singolarmente evocanti la ca­rica profetica e la passione cristiana di un povero pre­te in terra mantovana, il cui torto è stato, forse, quello di aver avuto troppo presto ragione.

ARTURO CHIODI



TU NON UCCIDERE


Ci siamo accorti che non basta essere i custodi del verbo di pace, e neanche uomini di pace nel nostro in­timo, se lasciamo che altri - a loro modo e fosse pure solo a parole - ne siano i soli testimoni davanti alla povera gente, la quale ha fame di pace come ha fame di giustizia.
Certi nostri silenzi, che sembrano dettati dalla pru­denza, possono diventare pietra d’inciampo.
Qui non si tratta di accorgimenti o di concorrenza
- parole che non dovrebbero aver credito in terra cri­stiana - ma del dovere di dire e fare, a tempo giusto e nel modo giusto, ciò che un cristiano deve dire e fare per rendere visibile la verità e per impedire che i sem­plici siano tratti in inganno e siano messi alla prova anche gli eletti.
« Perché appariranno qui e là falsi cristi e falsi pro­feti, capaci di segni e prodigi da sedurre, se fosse pos­sibile, anche gli eletti » (Matteo 24,24).

Certi movimenti per la pace non si svuotano ironiz­zandone i riti o dileggiandone le iniziative; ma operan­do noi concretamente, prima e meglio di ognuno, se­condo il nostro stile e la nostra tradizione, la cui ric­chezza di verità e di stimoli è tanto varia e originale da prestarsi ai più impensabili plagi perfino dal cam­po comunista.
Conviene lasciare ai politici di presuntuoso intellet­to l’ironia o il dileggio. Su labbra cristiane, l’ironia e il dileggio, oltre che manchevoli di carità, potrebbero parere un tentativo di coprire la nostra accidia odi giu­stificare la nostra arrendevolezza alle ragioni del « bloc­co » che tenta di annetterci.

Noi non ci sentiamo di condannare né di rifiutare nes­sun onesto e sincero tentativo in favore della pace: vo­gliamo soltanto ricordare a noi stessi che, come cristia­ni, dovremmo essere davanti nello sforzo comune ver­so la pace. Davanti per vocazione, non per paura. Quan­do fa buio, la lampada non la si mette sotto la tavola.
Le manifestazioni per la pace non sono conclusive, ma non sono nemmeno inutili. L’epifania è sempre una festa cristiana, che viene in qualche modo continuata anche manifestando per la pace e richiamando intor­no a questo problema, che è « il problema del nostro tempo » (card. Feltin), l’attesa e la sofferenza della po­vera gente.

Purtroppo la guerra è tuttora in mano dei militari, dei politici e dei banchieri: ma se l’opinione mondiale ne sventasse a poco a poco le trame denunciando certi criminali disegni; se li folgorasse con l’orrore del pec­cato contro l’uomo, prendendo dal Vangelo e dalle let­tere degli ultimi papi l’accento e la passione profetica, finiremmo per accorgerci che qualche cosa si muove. È questione d’aver fede quanto un granello di senapa, e prendere l’iniziativa in nome di questa fede, poiché se non ci si deve dare, e neanche si deve firmare per una pace falsa, bisogna che qualcuno si faccia avanti e offra agli uomini di buona volontà la vera pace.

Alcuni diranno che la nostra tesi sarà sfruttata dai comunisti.
Noi crediamo che non sia una ragione valida tacere una cosa che si sente di dover dire perché può servire la tesi avversaria.
I malintenzionati, purtroppo, non mancano, ma, se si badasse a questo, né Dio avrebbe dovuto creare il mondo come l’ha creato, né Cristo ricrearlo come in­vece continuamente lo ricrea.
Ognuno vede con l’occhio che ha, per cui tutto è per­vertibile, come tutto è convertibile.
D’altra parte, noi crediamo che Dio, il quale sa trar­re dalle pietre figli d’Abramo e dagli idolatri la comu­nità della Chiesa, potrà, oltre che dagli altri, trarre an­che dai comunisti la comunione dei santi.

***

Quando si tratta di guerra, pare che non ci sia più niente di criminale: tutto viene verbalmente giustificato dalle necessità della guerra.
La scusa di evitarla tenta di giustificarne la prepa­razione; la vittoria da raggiungersi ad ogni costo fa le­cito l’illecito. Mai come in tempo di guerra e per la guer­ra Machiavelli fa scuola.
Se qualcuno protesta, protesta contro la parte avver­saria, la quale ha il torto di fare ciò che tutti fanno.

Quindi, più che una revisione di mezzi, o un control­lo sugli armamenti (ciò che uccide, fosse anche un sas­so, è sempre un mezzo cattivo) s’impone il controllo di noi stessi. Siamo così poco sicuri di volere veramente la pace, che ci teniamo offesi appena uno osa guarda­re dietro le nostre parole.

Proposte e controproposte di disarmo si rincorrono da anni; ma neppure l’uovo del controllo viene fuori, perché a Washington, a Londra, a Mosca, a Parigi, son tutte galline senza uova.
Per queste vie, che per colmo d’ironia si chiamano concrete (per certa gente, la concretezza è lo svenarsi nel riarmo prima e nei campi di battaglia poi), non si fa molto cammino verso la pace.

Non tengono né tre né cinque punti, né tre né cinque grandi, né conferenze a basso o alto livello, se prima non abbiamo il coraggio di spaccarci il cuore per sco­prirvi il peccato in ogni pensiero di odio, e in ogni ma­no fratricida che per qualsiasi pretesto e con qualsiasi mezzo si leva contro l’uomo.
La guerra non è soltanto una calamità, ma un pecca­to. Se non avremo paura di afferrare il senso del pec­cato che c’è in ogni guerra, e di dichiarare le nostre con­traddizioni di cristiani rispetto alla guerra, l’amore vin­cerà la pace.

Il tedesco Max Josef Metzger, « prete e martire » (co­m’è chiamato da un biografo protestante), fu ucciso dai nazisti nel 1944 perché predicava la pace.
Affermava: « Noi dobbiamo organizzare la pace, co­sì come altri organizza la guerra».
In una lettera scritta dal carcere al papa nel 1944 as­serì: « Se l’intera cristianità avesse fatto una potente, unica protesta, non si sarebbe evitato il disastro? ».

***

Il cristiano che non si scopre in contraddizione col Vangelo di pace, o non si è mai guardato in Colui che
- essendo « segno di contraddizione » - svela i pen­sieri degli uomini, oppure ama ingannare se stesso.
La misura della nostra elevazione spirituale viene fornita dalla maggiore o minore consapevolezza delle nostre contraddizioni, la quale ci distoglie dal sentirci soddisfatti e dal legare lo Spirito al nostro corto passo e ai nostri brevi traguardi.

Non è forse una contraddizione
che dopo venti secoli di Vangelo gli anni di guerra siano più frequenti degli anni di pace?
che sia tuttora valida la regola pagana: « si vis pacem, para bellum »?
che l’omicida comune sia al bando come assassino, mentre chi, guerreggiando, stermina genti e città sia in onore come un eroe?
che nel figlio dell’uomo, riscattato a caro prezzo dal Figlio di Dio, si scorga unicamente e si colpisca senza pietà il concetto di nemico per motivi di nazione, di raz­za, di religione, di classe?
che l’orrore cristiano del sangue fraterno si fermi da­vanti a una legittima dichiarazione di guerra da parte di una legittima autorità?
che una guerra possa portare il nome di « giusta » o di « santa», e che tale nome convenga alla stessa guer­ra combattuta dall’un campo o dall’altro per opposte ragioni?
che si invochi il nome di Dio per conseguire una vit­toria pagata con la vita di milioni di figli di Dio?
che venga bollato come disertore e punito come tra­ditore chi, ripugnandogli in coscienza il mestiere delle armi, che è mestiere dell’uccidere, si rifiuta al « dovere»?
che sia fatto tacere colui, che per sé soltanto, senza la pretesa di coniare una regola per gli altri, dichiara di sentire come peccato anche l’uccidere in guerra?
che si dica di volere la pace, e poi non ci si accordi sul modo, appena sopraggiunge il dubbio che ne sca­piti la potenza, l’orgoglio, l’onore, gli interessi della nazione?
che si predichi di porre la vita eterna al disopra di ogni cosa, e poi ci si dimentichi che il cristiano è l’uo­mo che non ha bisogno di riuscire quaggiù?

Crediamo che questi pochi accenni bastino per dar rilievo alla nostra sostanziale contraddizione, per met­terci in vergogna davanti a noi stessi, e per sentirci me­no sicuri in un argomento ove la nostra troppa sicu­rezza potrebbe degenerare in temerarietà o in un de­littuoso conformismo alle opinioni dominanti.

***

Cristianamente e logicamente la guerra non si reg­ge. Cristianamente, perché Dio ha comandato: « Tu non uccidere » (e « Tu non uccidere »‚ per quanto ci si arzi­gogoli sopra, vuol dire: « Tu non uccidere »); e per di più si uccidono fratelli, figli di Dio, redenti dal sangue di Cristo; sì che l’uccisione dell’uomo è a un tempo omi­cidio perché uccide l’uomo; suicidio perché svena quel corpo sociale, se non pure quel corpo mistico, di cui l’uccisore stesso è parte; e deicidio perché uccide con una sorta di « esecuzione di effigie » l’immagine e la so­miglianza di Dio, l’equivalenza del sangue di Cristo, la partecipazione, per la grazia, della divinità.

L’antica profezia, che prepara il Vangelo, raccoglie e potenzia un’ansia di pace. Il più puro messianismo
ebraico, come quello ellenico di Teocrito e quello ro­mano di Virgilio, preannunzia un ordine nuovo in cui
regneranno giustizia e pace per tutti e ci sarà pane per i poveri.
« Opus justitiae pax! ». Così realisticamente la pace è vista dal profeta Isaia (32,17), non come un sogno nar­cissico, ma come un prodotto della giustizia. Il Messia sarà il pacificatore, colui che sopprimerà il muro di di­visione tra il popolo eletto e i popoli reprobi, il ricon­ciliatore. « E sarà chiamato col nome di principe della pace: il suo impero crescerà, e la pace non avrà più fi­ne» (9,6).

E Michea precisa: « Egli sarà arbitro tra molti popo­li, e imporrà leggi a potenti e remote nazioni. E trasfor­meranno le loro zappe in vomeri, e le loro aste in zap­pe; e non impugneranno più, popolo contro popolo, le armi, e non si addestreranno più a maneggiare le ar­mi» (4,3).
Con questa visione e con queste aspirazioni, i profe­ti chiedono al Signore: « Disperdi le nazioni che voglio­no la guerra» (Salmo 67).

E Cristo venne: e sulla sua culla, nella notte dei tem­pi, gli angeli cantarono: « Gloria a Dio nell’alto dei cie­li e pace in terra agli uomini ». Quel che è la gloria per Dio in cielo, è la pace per gli uomini in terra: la pace è la gloria degli uomini; la gloria è la pace di Dio.
« Cristo è la nostra pace... »‚ venuto « a recare il buon annunzio di pace »‚ dice san Paolo ai romani, gente di guerra. La sua rivoluzione è la scoperta del fratello, fat­ta con la carità; e frutto della carità è la pace. La sua legge è il perdono: e il perdono tronca gli impulsi di guerra. La guerra denuncia, in chi la promuove, un atei­smo effettivo, una ribellione a Dio.
Una delle beatitudini evangeliche suona: « Beati i pa­cifici, perché saranno chiamati figli di Dio». I pacifici sono i facitori di pace: ché la pace si fa, si produce. Il cristiano è un produttore di pace, che ricostruisce in­definitamente nel tessuto dei secoli: e cioè ricostitui­sce senza tregua la vita, facendo « guerra alla guerra »come dice Pio XII, per combattere il suo nemico, che è la morte. I facitori di pace saranno figli di Dio. I faci­tori di guerra saranno figli di Satana, che le Scritture chiamano « omicida».
Dove vale il Vangelo, regna la pace, negli individui e nelle nazioni; dove si scatena la guerra, il Vangelo èviolato, anche se teologi pavidi o ingenui o prezzolati abbiano sfigurato talora le parole di Cristo per legitti­mare il carnaio.

***

Il cristiano è un « uomo di pace »‚ non un « uomo in pace »: fare la pace è la sua vocazione.

Ogni vocazione è un seme, e il seme può « cadere lun­go la strada, tra le spine, in luoghi sassosi o in un buon terreno». Poiché la strada, la pietraia, la brughiera non lo rifiutano, in ognuno di noi, indipendentemente dal­la nostra fruttuosità, c’è una « pace seminale »‚ la qua­le può aprirsi un varco attraverso qualsiasi resistenza.
E allora, anche se i miei piedi non si muovono verso la pace, sono un « uomo di pace »: anche se pecco con­tro la pace, fino a quando non rifiuto il Vangelo di pa­ce, la pace è in agonia dentro di me.
La cristianità, nonostante le contraddizioni che la tra-vagliano, e di cui tenta invano una giustificazione ra­zionale, è un mondo che « agonizza per la pace».
La nostra fiducia - la parte umana della nostra fi­ducia - si nutre di questa paradossale condizione, che rivela l’aspetto militante della nostra vocazione di pa­ce e il suo durissimo costo, poiché il dono è continua­mente esposto alle vicissitudini dei tempi e alle incon­tinenze della nostra fragilità.

Il dialogo tra la pace e l’uomo - ora strada, ora pie­traia, ora brughiera - dura da secoli sotto lo sguardo paziente della Chiesa che custodisce il Vangelo di pa­ce e lo semina ovunque, senza chiedersi dove e come e se nascerà, poiché la sua missione non è di capire, molto meno di far trionfare la Parola, che ella deve so­lo custodire e seminare.
Chi onestamente considera l’impegno della Chiesa, invece di farle colpa se il mondo non è ancora un mon­do pacifico, si meraviglia come il mondo non sia anco­ra riuscito a chiudere la bocca e a inchiodare le mani della instancabile seminatrice, e si sia limitato finora, fuori e dentro la cristianità, a congegnare ragionevoli scuse e dotte favole per dimostrare che conviene riman­dare a tempi più maturi il comandamento della pace.
Il quale è tuttora in mora per non recar nocumento a quei brevi e piccoli interessi che ci sembrano più im­portanti della pace.

La pace cristiana è quindi ancora una pace crocifis­sa: e le ragioni che si adducono per tenerla inchiodata sono altrettanto valide di quelle tirate fuori nel sine­drio e nel pretorio per inchiodare il Pacifico.

Pare a molti che, invece di servirci della ragione per arrivare alla pace (le scuse degli invitati al banchetto non sono del tutto insensate), la sospendiamo, per ti­more che la pace faccia saltare il mondo dei nostri in­teressi.
Finora la pace ha trovato sulla sua strada più mode­ratori che cultori, più paura che fiducia: la paura di morire, non di far morire.
Molti, invece di considerarla un crimine, poiché fa­cendo la guerra si uccide, la tengono come una disgra­zia, per il fatto che in guerra si può essere uccisi.

Quando si parla di pace bisogna parlarne come ne parlano i fanciulli, non pensando a nient’altro, non ne­gando con le mani o col cuore ciò che le labbra dicono.
La pace è un bene pieno: sulla pace non si ragiona né si distingue. È una parola che non sopporta aggiun­te: una parola cristiana.
Da quando i cristiani si sono messi a « ragionare » sulla pace, a porre delle condizioni « ragionevoli » alla pa­ce, a mettere davanti le loro « giustizie», non ci siamo più capiti, neanche in cristianità, ed è stata la guerra. Tutto il mondo ha « ragione » o crede d’averla. La « ra­gione » va con tutti, e finirà di stare col lupo, non con la pecora, la sola che avrebbe veramente ragione, se non invidiasse il lupo e non cercasse di superarlo.

La pace vuole un linguaggio semplice, senza riguar­di di persone, senza retorica, senza crociate.
« Pace a voi! »
« Sia pace a questa casa! »
« Vi do la mia pace! »
« Rimanete nella mia pace! »
E si mettevano sulla strada, a due a due, senza bor­sa, senza bastone, senza niente.
La gente li scherniva, quasi fossero dei pazzi; qual­cuno però si fermava, mormorando: E se avessero ragione?
Ma dietro non avevano nessuno e niente.
Non erano attaccati a nessuno, a niente: essi erano attaccati all’uomo, alla sua anima, alle sue tribolazio­ni, poiché l’uomo era entrato nel loro cuore assieme al Figlio dell’uomo, col nome di fratello.
Così è cominciato il vangelo di pace.
***

Solo un quinto dell’umanità - secondo le statistiche dell’Onu - si nutre a sufficienza; e di questo quinto (400 milioni di persone) fa parte anche il popolo italia­no, presso cui in genere non si gozzoviglia...

« Chi vuole che la stella della pace spunti e si fermi sulla società, concorra da parte sua a ridonare alla per­sona umana la dignità concessale da Dio fin dal prin­cipio... rifiuti ogni forma di materialismo, che non ve­de nel popolo se non un gregge di individui i quali, scis­si e senza consistenza, vengono considerati come ma­teria di dominio e di arbitrio.., dia al lavoro il posto da Dio assegnatogli fin dal principio » (Pio XII).

I Padri della Chiesa compresero ciò.
Quando il vescovo san Giovanni Crisostomo, per la pace del suo popolo, si mise a colpire dal pulpito la du­rezza dei ricchi che derubavano i contadini, prima lo chiamarono eretico e materialista (un vescovo che si occupava di vigne!), e poi lo fecero morire in esilio.

Il vescovo Ancel afferma che « la guerra al comuni­smo si fa eliminando la sua causa che è la miseria, co­sì come la guerra alla febbre si fa rimuovendo il male da cui parte».

Ecco un realismo che segnaliamo a certi nostri cen­sori ai quali fa comodo chiudere gli occhi sui disoccu­pati e sulle baracche e affidare la difesa della civiltà cristiana e della povera gente ai carri armati.

Quando parliamo di iniziative di pace, non ci lascia­mo prendere dalla facile e ingiusta tentazione di far col­pa al papa e ai vescovi di non parlare e di non fare.
La colpa è nostra, della cristianità, che non dovreb­be essere preceduta dalla voce dei pastori, i quali, non una, ma cento, mille volte, adesso, prima e sempre han­no affermato e confermato l’incrollabile volontà paci­fica della Chiesa.
Il tacere, il non muoversi, o il muoversi lentamente, è nostro; ed è uno dei segni della nostra decadenza, che poi ci fa chiusi, lamentosi e sterili oppositori delle ini­ziative altrui.

La guerra non è solo quella degli esplosivi.
E l’ateismo non è solo quello di coloro che mentre combattono la Chiesa predicano il materialismo dia­lettico, ma anche quello di coloro che mentre bazzica­no la chiesa trattano il fratello come utensile, materia­listicamente.

La guerra 1939-45 è costata tre volte di più della pri­ma guerra mondiale: e cioè 375 miliardi di dollari oro.
Con le somme spese si sarebbe potuto provvedere d’un alloggio comodo e mobiliato ciascuna famiglia de­gli Stati Uniti, del Canadà, dell’Australia, Inghilterra, Irlanda, Francia, Germania, Russia, Belgio ecc., e di più costruire chiese, ospedali, scuole, musei, biblioteche, strade, stadi ecc.
Ma s’è preferito quella ricchezza - costata lavoro, ingegno, sacrificio - gettarla in armi, per distruggere abitati e abitanti.

« Ogni cannone che viene costruito, ogni nave da guer­ra che viene varata, ogni razzo che viene preparato rappresenta un urto a coloro che hanno fame, a coloro che hanno freddo e non hanno da coprirsi. Infatti un bom­bardiere pesante costa quanto trenta scuole o due cen­trali elettriche capaci ognuna di fornire luce ad una cit­tà di 60 mila abitanti o a due ospedali; un solo aeropla­no da caccia costa come 150 mila quintali di grano; con i dollari necessari per allestire un cacciatorpediniere, si potrebbero costruire case per 8000 senzatetto » (Ei­senhower).

« Col denaro sprecato in un solo mese di guerra mon­diale, si potrebbe irrigare tutto il deserto del Sahara »(Joliot Curie).

Dove si vede che la guerra è uno svenamento di ric­chezze prima, di sangue poi: uno sperpero dei beni, fat­to per istigazione di assoluta irrazionalità e belluinità.

Se quanto si spende per le guerre, si spendesse per rimuoverne le cause, si avrebbe un accrescimento im­menso di benessere, di pace, di civiltà: un accrescimen­to di vita.
E non è meglio vivere che morire ammazzati?

« L’avvenire appartiene a quelli che amano, non a quelli che odiano... Il demonio ha invaso la terra con l’odio: fate rivivère, prepotente, l’amore. Tanti sono an­cora cattivi perché non sono stati finora abbastanza amati » (Pio XII).


***

La cristianità si è inserita nell’olivastro della saggez­za pagana di Atene e di Roma, cavandone, nel contem­po, aiuti e limiti, ma anche pesantezze, che dopo venti secoli non hanno ancora finito d’impedirla.
Dove gli antichi hanno raggiunto l’eccellenza, il ful­gore temperato della loro « umanità »‚ noi abbiamo so­stato, incantati a tal segno da considerare temerario e pericoloso il procedere oltre, sia pure in nome del Vangelo e con l’aiuto della Grazia.
Talvolta il limite è stato felicemente superato, più che in nome dei comandamenti, in nome dei consigli evangelici, che paiono meno impegnativi, se non proprio un di più.
Parlando di umanesimo integrale, dobbiamo chieder­ci quando riusciremo a rompere la cerniera dell’uma­nesimo regalatoci dalla sapienza pagana, che è vera­mente un grande dono purché non ci impedisca di ap­prodare verso le rive della stoltezza cristiana.
La pace è ancora nelle strettoie della concezione uma­nistica antica, che ne ritarda la germinazione e la cre­scita evangelica, in nome della giustizia.

Da che mondo è mondo, l’uomo fa del male all’uo­mo, gli muove guerra e l’uccide, « propter justitiam».
Nell’aberrante nostro comportamento, c’è una sostan­za umana: l’uomo può confondere, invertire, pervertire i termini del giusto e dell’ingiusto, ma per camminare o far camminare gli è giocoforza richiamarsi alla giustizia.

Il forzoso omaggio aumenta la nostra diffidenza di fronte alla giustizia degli uomini.
Ogni guerra è parsa giusta a coloro che l’hanno di­chiarata o combattuta: e la storia, a distanza non di an­ni ma di secoli, non ci capisce niente e traccia giudizi opposti, poiché i posteri, del pari che i contemporanei, leggono faziosamente gli avvenimenti.

A parte che la guerra è sempre « criminale » in sé e per sé (poiché affida alla forza la soluzione di un pro­blema di diritto); a parte che essa è sempre mostruo­samente sproporzionata (per il sacrificio che richiede, contro i risultati che ottiene, se pur li ottiene); a parte che essa è sempre una trappola per la povera gente (che paga col sangue e ne ricava i danni e le beffe); a parte che essa è sempre « antiumana e anticristiana » (perché si rivela una trappola bestiale e ferisce direttamente lo spirito del cristianesimo); a parte che essa è sempre « inutile strage » (perché una soluzione di forza non è giusta; e sempre comunque apre la porta agli abusi e crea nuovi scontri): qual è la guerra giusta e quella in­giusta? Può bastare l’affidarsi alla cronaca pura, alle semplici date, per stabilire chi attacca per primo, chi offende e chi si difende? Tutto è così complesso e in­tricato: guerra economica, guerra pubblicitaria, guer­ra fredda.

Oggi, soprattutto, si fa sentire più evidente l’impos­sibilità di discernere se una guerra è giusta o no, e se si può ancora parlare di aggressori e di aggrediti.

Saremmo tentati di vedere un segno provvidenziale in questa tremenda oscurità: la mano di Dio che ci trat­tiene dall’abbandonarcj alla logica spietata di chi si cre­de giusto e uccide in nome della giustizia.

Uccidere «per giustizia», più che una ragione, può diventare un anestetico o una scappatoia giuridica, da scriba e da fariseo, piuttosto che da cristiano.

« Se la vostra giustizia non supererà quella degli scri­bi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli » (Mat­teo 5,20).
E per timore che i suoi non capissero, ecco alcune sbalorditive precisazioni evangeliche:
« Udiste che fu detto agli antichi: “Non uccidere, chi ucciderà sarà reo in giudizio“. Ma io vi dico che chiun­que si adirerà col fratello, sarà reo in giudizio e chiun­que dirà al fratello: “fatuo“, sarà reo nel sinedrio; e chi dirà: “stolto“, sarà reo nel fuoco della geena. Se dunque rechi l’offerta all’altare, e ti ricordi che tuo fra­tello ha rancore con te, lascia l’offerta davanti all’alta­re e va’ a riconciliarti col fratello; poi torna e porgi l’of­ferta. Accordati col tuo avversario, mentre sei con lui per via; perché non ti consegni al giudice, il giudice poi alle guardie e tu non sia gettato in carcere. In verità ti dico che non ne uscirai senza aver pagato sino all’ul­timo centesimo.
Udiste che fu detto: “Occhio per occhio e dente per dente“. Ma io vi dico: Non resistete al male. A chi ti per­cuoterà la guancia destra porgi la guancia sinistra; a chi ti muoverà lite per toglierti la tunica lascia anche il mantello.
Udiste che fu detto: “Amerai il tuo prossimo e odie­rai il tuo nemico“. Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli, il quale fa sorgere il sole sui buoni e sui cattivi e manda la pioggia ai giusti e agli ini­qui. Perché, se amate quelli che vi amano, qual merito avete? Non fanno lo stesso i pubblicani? E se salutate soltanto i vostri fratelli, che cosa fate di più degli altri? Non usano lo stesso i gentili? Siate dunque perfetti co­m’è perfetto il vostro Padre Celeste » (Matteo 5,2 1-48).

E per coloro che si reputano giusti racconta la para­bola del fariseo e del pubblicano. E a coloro che si ri­sciacquano continuamente la bocca con la « giustizia», ricorda che egli è venuto non per domandare giustizia ma misericordia.

Molti cristiani si trattengono dalle strade evangeli­che per paura di menomare la giustizia e di mettere il male sullo stesso piano del bene, quasi non fosse il Vangelo che ha proclamato: « Beati gli affamati e asse­tati di giustizia, perché saranno saziati » (Matteo 5,6).

Un mondo senza giustizia non è un mondo cristiano: un mondo senza misericordia lo è ancor meno.
Dove s’incontrino la giustizia e la misericordia non sappiamo: certamente non s’incontrano su un campo di battaglia.

Tra gli idoli del giorno la giustizia ha un posto emi­nente, accanto alla libertà, se non prima.

Ora, sta scritto che « gli idoli sono opera della mano dell’uomo e non hanno né occhi, né bocca, né cuore »e fanno l’uomo simile a sé, cioè senza cuore. Infatti, fu­rono commesse più nefandezze e atrocità in nome del­la giustizia che dell’ingiustizia, poiché nessuno ha il co­raggio di professarsi malvagio.

Il fariseo è l’uomo che si crede giusto.

***

Il fortilizio della guerra giusta è la « guerra di­fensiva ».
Io non assalgo - si dice - mi difendo: non porto via niente a nessuno, impedisco che altri mi porti via ciò che è «mio».
Pare di aver detto tutto e di poter accantonare ogni scrupolo. Ma non sempre chi attacca per primo o fa le barricate è l’insorto: non sempre chi si difende è dalla parte della giustizia... Poi, ci si accorge che il « mio »è almeno sospetto, e lo si sostituisce con un nome di gran marca: il bene.
Si difende il bene, il bene comune, visto che il mio bene ha un suono equivoco. Il qual bene è la donna, l’ar-mento, il pascolo, il campo, la casa, il focolare, la cit­tà, la tribù, la razza, la patria, la classe, la civiltà, la religione, la cristianità, l’occidente, l’oriente, la liber­tà, la giustizia.
Beni discutibili, almeno alcuni: ma ognuno è tenta­to di vederli a modo suo, per cui capita che ci faccia­mo guerra e ci uccidiamo per difendere lo stesso bene.
Da secoli, se dai retta alle giustificazioni dei bellige­ranti, non esistono aggressori. Tutti difendono gli stessi beni, che non sembrano veramente tali se non gronda­no sangue. Gli uni e gli altri vantano mille ragioni, le quali non sono che una maschera dietro cui si nascon­dono ipocrisie, interessi e cupidigie di dominio e cli ferocia.

Grandi e belle realtà la patria, il popolo, la libertà, la giustizia... Ma esse van servite con la pace: ché la guer­ra ammazza la patria, la quale, se non è un nome vano, è fatta di cittadini, di case; immiserisce il popolo; fa ser­vi di dittatori o stranieri; e con la miseria eccita furto, rapacità e sfruttamento, per cui l’ingiustizia aumenta. Chi ama veramente la patria le assicura la pace, cioè la vita: come chi ama suo figlio gli assicura salute.
La pace è la salute di un popolo.

La tesi della guerra difensiva non manca di raziona­lità: diremmo che ne ha tanta, e di così comodo uso, che tutti possono appropriarsela, l’agnello come il lupo.
Infatti, a un certo punto del racconto, non sai più di­stinguere l’uno dall’altro, vestendosi il lupo d’agnello, e l’agnello facendosi lupo con la scusa di difendersi dal lupo.

Non si sono mai battuti galantuomini contro cana­glie, ma galantuomini contro galantuomini.

Adesso possiamo capire perché Cristo si è rifiutato di fare lo spartitore là dove si litigava solo per avere.
Se nessuno vuoi dare, non c’è parola che tenga o che persuada. Sull’egoismo non cresce che la giustizia egoi­stica, suffragata da quelle ragioni, di cui il lupo eso­piano ci ha dato un saggio brillantissimo.

La guerra non la si può fare se non da lupo a lupo, tra lupi e lupi, usando i metodi del lupo: mentre la re­sistenza è tutt’altra cosa, e la si può fare rimanendo agnello, nell’animo e nel metodo.
Dev’essere una sorpresa piacevolissima per il lupo quando scopre che l’agnello lo copia.
Sgozzare un agnello pare una facile impresa. Inve­ce, no. È assai più gustoso far fuori un lupo.

Un belato raggiunge il fondo del cuore e il settimo cielo: l’urlo di un lupo si perde nel deserto come il cachinno del predone.

Un lupo che si fa agnello è meno mostruoso di un agnello che si fa lupo.
Facendosi lupo, l’agnello mostra di non credere nel­la bontà, mentre il lupo le rende omaggio assumendo­ne le insegne.

Chi muore da lupo avrà la ricompensa del lupo: chi muore da agnello viene assimilato all’Agnello « che to­glie i peccati del mondo».

« Rallegriamoci ogni volta che ci troviamo in mezzo ai lupi...
E comportiamoci sempre come agnelli, sull’esempio, l’imitazione e la rassomiglianza di Gesù: come lui la­sciamoci non soltanto tosare, ma perfino sgozzare, e senza tanti pianti; non resistiamo al male; se ci danno uno schiaffo porgiamo l’altra guancia; se ci prendono la tunica, diamogli anche il mantello... Non difendia­mo né il nostro bene, né la nostra vita, come Gesù che si lasciò togliere l’uno e l’altra, senza difendersi con la parola o con gli atti, muto davanti ai giudici, senza implorare aiuto al Padre suo contro i suoi aggressori, chiedendo soltanto il loro perdono e la loro salvezza...
Gli agnelli non hanno armi, non ne hanno affatto... e, per loro, il campo, la casa, tutta la terra non è che un pugno di fango... » (Charles de Foucauld).

« Dignus est Agnus qui occisus est » (introito della Messa di Cristo Re).

***

« Gli uccelli dell’aria hanno un nido, le volpi una ta­na »‚ la misericordia non avrà dove posare il capo nel­la stessa cristianità se continueremo a coltivare paga­namente la giustizia.
Occorre che si spacchi la granitica resistenza della giustizia giuridica, se si vuol far posto alla giustizia cor­diale, che precorre la misericordia.

Se la difesa fosse quel dovere così preciso e sacro e inderogabile che si viene proclamando, dove collocare il gesto di chi, per amore, rinuncia a difendersi sul pia­no della forza?
Se il perdono e la misericordia non avessero un’istan­za nella natura, anche appoggiati a validissimi motivi soprannaturali, rimarrebbero sentimenti troppo stac­cati e così pericolosi da averne paura.
La giustizia è una misericordia sul nascere: la mise­ricordia, una giustizia al suo termine.

« Siate misericordiosi come è misericordioso il Pa­dre che abbiamo nei cieli».
Sul Calvario viene raggiunta la perfetta somiglian­za tra il Figlio dell’Uomo e il Figlio di Dio, perché Cristo ha rinunciato a difendersi contro l’uomo, sen­za rinunciare a testimoniare per la verità e per la giu­stizia.

I diritti dell’amore non sono in contrasto coi diritti della giustizia e della verità, purché non si separi la giu­stizia e la verità dall’uomo, riducendo l’uomo a unò schema o a un concetto.
Chi, attraverso l’uomo, vede soltanto la patria, la na­zione, la razza, la classe, il partito, la religione, è nell’occasione prossima di peccare contro l’uomo e di « svuotare la croce».
L’uomo, visto dall’alto della croce, non è la massa, non il russo, non l’americano, non l’ebreo, non il bor­ghese, non il proletario, non il comunista, non il pre­te... ma l’uomo, quella povera creatura che prima di es­sere colui che ci fa morire, è colui per il quale moriamo.

La giustizia non salva.
Il giudizio di Salomone è giusto per la mamma che non è più mamma, non per la mamma che vuol vivo il suo bambino ad ogni costo, poiché il diritto alla vita nel cuore di chi ama sta prima del diritto alla giustizia.

La carta dei diritti dell’uomo, se non vuole servire d’inconscio strumento per cancellare l’uomo reale, co­me lo ha fatto Dio, dev’essere compilata con verità e giustizia sufficiente, ma con tanto amore.
« Chi non ama è omicida».
La verità senza la carità è una « pietra d’inciampo ». La giustizia senza la carità è un nodo scorsoio che tutti credono di avere il diritto di tirare.

Dare la pace ai morti è l’impegno di Dio: fare la pace coi vivi è un nostro impegno.

Quando l’ostacolo è un uomo, non lo posso abbatte­re come si abbatte una muraglia, una pianta, un passero.
Io mi rifiuto di sentirmi e cli essere trattato come una muraglia, una pianta, un passero.
« Due passeri non si vendono per un soldo? Eppure nemmeno uno di essi cade a terra senza che il Padre vostro lo voglia. Ora anche i vostri capelli sono conta­ti. Non temete dunque; voi siete da più di molti passe­ri » (Matteo 10,29-30).

La nostra religione è fondata sull’insostituibile va­lore del sacrificio, che ha il suo vertice sul Calvario e si ricapitola nella croce.
Questa fede appare già in qualche modo nell’istinto dell’uomo cli ogni tempo, di ogni religione o di nessu­na religione. E più forte dell’uomo, più forte della sua ragione, più forte della sua filosofia. Ci si può ridere sopra, ma alla fine ci prende nel suo vortice.
Il materialista più ostinato è costretto a farvi appel­lo ogni volta che vuoi raggiungere un bene dell’uomo, un bene qualsiasi, fosse soltanto un aumento di salario.
Come può un cristiano la cui « via regia » è la « via crucis » rinunciare alla croce?
Chi accetta la necessità della guerra, si schioda dal­la croce non potendone sopportare 1’« impotenza » nel fare la giustizia.
« Se sei il Figlio di Dio, scendi dalla croce... »
« ... et ne nos inducas in tentationem ».

***

Dicono:
l’uomo può perdonare: il cittadino non può per­donare;
il cristiano deve perdonare: la società non deve per­donare;
la Chiesa deve perdonare: lo Stato non deve per­donare.
E gli aforismi della saggezza corrente potrebbero riempire varie pagine...

Non ci si accorge che se uno soltanto non perdona, è come se nessuno perdonasse?
Il peccato di uno ha inquinato il mondo. Chi sono poi coloro che non devono perdonare?
Non sono uomini, ma concetti, cioè mostruosità fab­bricate dall’uomo per non ascoltare l’uomo.
Moloch ha figliato: nazione, stato, classe, razza, de­mocrazia, grandezza, onore, potenza; prestigio, gloria, giustizia: sono i suoi figli di oggi, che l’aiutano a divo­rare l’uomo.

Ma la patria - dicono - non è un interesse; la liber­tà non è un interesse; la democrazia non è un interes­se; ma « valori spirituali ».
Non lo neghiamo; ma se un bene spirituale viene tra­dotto in termini di interesse, per questi o per quelli, si può pretendere che altri vi si immoli come sopra un altare?

Dopo essere stati più volte ingannati nel corso di una stessa generazione, i poveri marciano riluttanti alla di­fesa di certi beni spirituali, che dovrebbero essere di­fesi, se veramente fossero sentiti come beni spirituali, sul piano dello spirito e con metodo adeguato.

Se invece di disporci a fare la guerra per salvare il nostro « patrimonio spirituale», si cercasse di render­lo un bene comune, radicandolo profondamente nell’a­nimo di ognuno, chi ce lo potrebbe strappare?
Il diacono san Lorenzo, distribuendo ai poveri di Ro­ma il patrimonio della Chiesa agognato dall’imperato­re, ha trovato la vera maniera di salvarlo.

Per avere l’assenso di una testa, si può anche spac­carla o tagliarla: ma spaccandola o tagliandola non si guadagna l’assenso, si elimina un contraddittore. Do­po, però, ci si accorge che ha ragione la testa spaccata o tagliata, anche se prima aveva torto.
La testa di san Giovanni Battista ha più ragione sul piatto che sul collo.



Lunedì, 21 giugno 2004