Il Violentatore non Pentito: Negli Abissi del Cuore Umano

di Daniela Tuscano

7 Giugno, 2008
Da qualche giorno Gianni Guido, uno dei massacratori del Circeo, è un uomo libero. Il Tribunale del Lazio l’ha affidati ai servizi sociali. Qui sotto ripropongo un pezzo da me redatto il 2 maggio 2005, alla notizia del nuovo arresto del suo sodale Angelo Izzo, “mente” della mattanza. Per la cronaca Donatella Colasanti, l’unica superstite della tragedia, è morta di tumore alla fine dello stesso anno.



Angelo Izzo, 50 anni, ha violentato e ammazzato una donna e sua figlia, quest’ultima 14enne. Nel 1975 Izzo (pariolino benestante e, per passatempo, nazifascista), dopo uno dei suoi inviti a cena con stupro e assassinio (lui li definiva, con snobismo pseudo-intellettuale, “orgette”), massacra Rosaria Lopez, allora 17enne, e fa quasi lo stesso con Donatella Colasanti, 20 anni (che si salva solo perché si finge morta). Poi coi suoi compari va al ristorante.

Quando viene arrestato, alza le mani in segno di vittoria mentre un sorriso gaglioffo gli attraversa il volto. In aula non si presenta, infastidito dalla presenza delle femministe. Dei suoi complici, uno (Andrea Ghira) non ha fatto un giorno di galera: è riuscito a scappare, probabilmente grazie alla complicità dei potenti - e dei parenti – che hanno sempre protetto anche Izzo (di famiglia ricca, come appena ricordato).

Durante gli anni Izzo cerca varie volte di scappare. Alfine ci riesce, ma viene riacciuffato e si complimenta con gli agenti per la loro abilità: mica era facile scovare un genio come lui. Si professa quindi pentito. Molti giornalisti lo avvicinano, lui si racconta con dovizia di particolari, si accusa di molti omicidi, viene dichiarato collaboratore di giustizia perché diffonde a destra e a manca notizie sulle varie stragi nere (probabilmente orecchiate in carcere). Dice che ha studiato, che sente orrore per sé stesso, che ha un gran bisogno di essere perdonato. E i giornalisti cominciano a provare un interesse - molto simile alla comprensione - per il “mostro”, pur sempre, in quanto mostro, e maschio, personaggio eccezionale. Fa niente se quelle frasi che rilascia sono quanto mai inequivocabili: “Stuprare e uccidere non è debolezza, fa sentire forti perché sei completamente padrone di un essere umano. Noi eravamo guerrieri, in lotta contro i nostri nemici“. I loro nemici erano innanzi tutto le donne. Poi i drogati, i diversi in genere. Però quest’immagine del guerriero deve affascinare, come certe menti, e non di pazzi, sono ancor oggi in qualche modo sedotte dalla presunta “intelligenza superiore” di Hitler. Che non era affatto particolarmente intelligente, ma solo banalmente, irrimediabilmente, inutilmente cattivo. Volutamente cattivo.

Il “pentito” Izzo era così in libertà vigilata (?), amorosamente accolto da un pastore protestante nella sua comunità di poveri disperati, alcuni dei quali affidati proprio a Izzo (e uno di loro si è reso complice dell’ultimo delitto con stupro, aggravato dalla pedofilia). Che ora, naturalmente, non si capacita di quel che è avvenuto, pover’uomo. In tutti questi anni, Donatella Colasanti ha chiesto invano che Izzo fosse tenuto in galera. Ha scritto ai rappresentanti di tutti i partiti, di destra e di sinistra, cercando di convincerli che il suo aguzzino stava solo recitando. Nessuno le ha dato ascolto. A un uomo si dà sempre una possibilità. Il guardasigilli Castelli, comunemente ritenuto un nemico giurato dell’amnistia, di fronte al caso Izzo si mostra molto morbido, possibilista. Prima di condannare bisogna avere le prove, si sta parlando di un assassinio gravissimo. Certo. Poiché Izzo è una bravissima persona sarebbe ingiusto accusarlo di simili atrocità. Le parole non erano esattamente queste, si capisce; ma il sugo della storia non cambia.

“Izzo non è un fascista, non è nulla: è solo un maniaco sessuale“, si dice da più parti (ma prima dove stavano?), come se l’appartenere a un movimento politico estremista “motivasse” maggiormente uno stupro. Però si precisa che è un “maniaco”: persona, quindi, diversa dalle altre. Ancora una volta, un “mostro”. Il fascino del Male.

Il “mostro”, ammettiamolo, ci rassicura. Come se il male non abitasse in noi, nella nostra cultura. E possiamo continuare a provare nei suoi confronti una perversa, inconfessabile attrazione.

Di recente “Il Giorno” ha pubblicato una bella intervista a un nativo americano (interprete de L’ultimo dei Mohicani) che lotta per i diritti della sua gente. Nel servizio egli esortava, fra l’altro, a tornare al matriarcato, perché “quando le donne governano tengono conto delle differenze e non prevaricano sui maschi. Nelle società patriarcali, invece, il maschio non governa: comanda. Si sente al centro dell’universo e vuole eliminare tutte le diversità“.



Poi è chiaro che esistono uomini sensibili così come donne cattive, ma questo è un dato di fatto indiscutibile. Sì, siamo tutti esseri umani, ma le affermazioni troppo generiche finiscono per privilegiare le classi dominanti, anche nel linguaggio. Noi diciamo infatti “mettere al centro L’UOMO“, intendendo per esso anche la donna, certo. Ma di fatto si dice “uomo”, e nell’immaginario di molti di noi (forse tutti) l’uomo è l’uomo, prima di tutto un maschio.

Per questo, anche nelle scuole, gli insegnanti più accorti tendono a usare un lessico meno inclusivo (sarebbe, in effetti, più opportuno parlare di “essere umano” o di “persona”, anche se mi rendo conto che quest’ultimo vocabolo è pregno di sfumature etico-religiose e si presta quindi a una certa ambiguità).

Izzo è quindi il frutto avvelenato di un’emarginazione che dura da millenni. Ma c’è di più (e se racconto l’aneddoto che segue è solo per spiegarmi meglio). La mia amica Nella, donna impegnata e sinceramente avulsa da ogni violenza, mi ha confessato che, a parer suo – ed evidentemente di moltissimi -, uomini come Izzo non meritano di vivere. Soggiungendo subito dopo: “…non mi fa piacere sentirmi in questo modo, ma non riesco a farne a meno”. Pronunciare queste parole le procurava una sofferenza fisica, un travaglio interiore squassante. La sofferenza consisteva proprio in quel “non provar piacere”. Il piacere, per Nella, era necessariamente legato a un sentimento nobile, a una pace profonda, all’amore per sé stessi e per il prossimo. Si rendeva conto che adottare lo stesso criterio di Izzo (anche lui “provava piacere”, ma in modo affatto diverso) sminuiva la sua umanità. Di fronte al Male Assoluto, la mia amica provava lo stesso sgomento che fa risorgere in tutti noi gli istinti primordiali.

Ma ci è stata data questa prova, dobbiamo confrontarci anche con questa parte di noi. Negarla è solo ipocrita e, in una situazione di questo genere, anche disumano.

“La farò io la giustizia!” esclama Renzo nei Promessi Sposi, meritandosi l’infuocato – infuocato d’amore, e l’amore, si sa, brucia – del suo Fra Cristoforo, che, da giovane, ha sperimentato il gusto amaro e terribile della vendetta. È, il nostro, un pensiero, quello stesso pensiero che ci permette di macchinare le più spaventose efferatezze, ma è pure in grado di farci comprendere - quindi di provare orrore, quindi di disarmare – il volto selvaggio della Nemesi. Per questo si dice: “È solo un pensiero”. Ma si dovrebbe aggiungere: “È soprattutto un pensiero”.

Ed ecco che l’atroce parabola di Izzo ci mette di fronte a un “mostro” che non sta fuori di noi, ma in noi, come un repellente e avido parassita. Esserne consci significa già averlo sconfitto. L’ orrore che proviamo per un uomo che ha rinunciato alla sua umanità, non potrà dunque mai trasformarsi in vendetta istituzionalizzata (ché è questa la pena di morte). Non c’importa di Izzo. C’importa la legge morale. L’unica che conti perché non è imposta dall’esterno, ma inscritta in ogni uomo e in ogni donna. E lo sappiamo bene, lo sentiamo, che la soddisfazione del sangue ci fa regredire al livello della bestialità. Ed è un pericolo che, da sempre accompagna la storia umana. Non è un caso che la Bibbia ne parli fin dalle prime pagine, in un passaggio di rara crudezza:

“Ho ucciso un uomo per una mia scalfittura

e un ragazzo per un mio livido.



Sette volte sarà vendicato Caino

ma Lamech settantasette” (Genesi 4, 23-24).

Sembra scritto oggi. Faremmo bene a non dimenticarcene.

2 maggio 2005



Sabato, 07 giugno 2008