Notizie di fine settembre

di Maria G. Di Rienzo

“La primaria difesa contro la violenza di genere è la pace, perché le donne e le bambine sono usualmente le prime vittime della guerra.” Così il rappresentante delle NU Alan Doss ha aperto il suo intervento a Monrovia (Liberia), il 3 settembre u.s., durante l’Assemblea generale dei Consigli delle Chiese, a cui ha partecipato anche il vice Presidente liberiano Joseph Boaki. Doss ha aggiunto che anche in tempo di pace sono necessarie misure specifiche per contrastare la violenza di genere, in special modo lo stupro. Ugualmente significative le parole del vice Presidente: “Delle donne, che hanno giocato un ruolo fondamentale nel portare la pace in Liberia, si abusa su base giornaliera.” Boaki ha annunciato le misure del proprio governo per lottare contro le violenze sessuali, fra cui un miglioramento dell’assistenza sanitaria alle vittime ed una velocizzazione dei processi giudiziari. C’è da ricordare che lo stupro fu usato come “arma di guerra” durante la guerra civile liberiana, che è durata 14 anni e che, secondo le stime NU, ha ucciso 270.000 persone.



Sempre restando nell’ambito NU, sarà utile sapere che il 20 settembre gli Usa, il Canada, l’Australia e la Nuova Zelanda hanno votato contro una risoluzione che chiedeva anche a questi paesi l’adozione della “Dichiarazione Universale dei Diritti dei Popoli Indigeni”. La Dichiarazione, che tutela culture ed istituzioni indigene, include anche un articolo che pone particolare attenzione ai bisogni delle donne, e condanna la violenza contro di esse: sarà per questo che non l’hanno votata?



Nelle regioni indiane colpite recentemente da inondazioni, hanno fatto la loro comparsa le “capanne della maternità”, un intervento congiunto di governo ed UNICEF. Il disastro ambientale, oltre ad aver sommerso cliniche ed ospedali, ha creato profughi e fra loro vi sono ovviamente anche donne incinte e/o in procinto di partorire. Dopo un primo tentativo nei pressi di un villaggio che è andato sott’acqua, Bargama Gachhi, e la prima bimba nata sana, le capanne si sono moltiplicate in altre cinquanta zone. Per ognuna di esse vi sono quattro infermiere ostetriche, quattro paramedici e tre medici a rotazione. Le capanne forniscono gratuitamente assistenza materna e prenatale, oltre che informazioni sulla pianificazione familiare, ed il governo indiano progetta di renderle permanenti.



Una bella differenza con il gruppo “Restituta” di Londra, che sta chiedendo al Papa di intervenire per proibire al personale di un ospedale cattolico di discutere di contraccezione e fecondazione artificiale con i propri pazienti. Fino ad ora non hanno avuto molti risultati, perché medici e mediche ed infermieri ed infermiere hanno dichiarato all’unanimità che se una tale politica verrà messa in atto si licenzieranno in massa.



Dove, da circa un decennio, i contraccettivi sono banditi da ospedali e cliniche (Manila, Filippine) si è arrivati alla crisi sanitaria. Potete leggere l’intero, sconvolgente, rapporto su http://www.reproductiverights.org L’ex sindaco di Manila, Jose Atienza, aveva proclamato il bando nel 2000, dichiarando di attenersi agli insegnamenti del Vaticano. Il nuovo sindaco, Alfredo S. Lim, è entrato in carica nello scorso luglio, e a lui femministe, attivisti/e per i diritti umani e personale sanitario stanno chiedendo di revocare il bando, che ha avuto un impatto devastante soprattutto sulle donne più povere: “All’ottava gravidanza ho rischiato di morire. Il dottore mi aveva detto di non restare più incinta. Ho chiesto mi legassero le tube, ma anche l’intervento mi avrebbe messo a rischio, e comunque l’ospedale non lo fa più. Però mi proibiscono di usare contraccettivi. Adesso penso che la prossima volta che partorirò dovrò morire. Noi guadagniamo 150 pesos al giorno (due euro e quaranta centesimi, ndr.) con cosa li compro i condom? E cosa dò da mangiare a tutti i miei bambini?” Alcune donne povere tentano di sottrarsi ai rapporti sessuali, il che ha avuto come risultato violenze fisiche e stupri da parte dei mariti... Un grande risultato, signor ex sindaco: mi auguro che ella si sia definitivamente ritirato dalla politica.



Della protesta delle donne saudite, che hanno inviato il 23 settembre la loro petizione a Re Abdullah per riottenere il diritto a prendere la patente, forse già sapete. Quel che potreste non sapere è che appunto la facoltà di guidare un’auto (assieme al diritto di muoversi liberamente, come dice la petizione) è andata perduta per le donne saudite nel 1990, grazie ad una “fatwa” emanata dal Consiglio dei grandi ulema. “Ci restituiscano ciò che ci hanno rubato.”. dice Wajeha al-Humwaider, analista di sistemi petroliferi ed attivista chiave della protesta, “Persino i cani e i gatti hanno più diritti delle donne arabe”. Pare davvero che nel paese serpeggi una sana femminile inquietudine: le studentesse delle facoltà di legge, ad esempio, non capiscono perché non possono esercitare la professione una volta laureate: in cinque stanno redigendo uno studio che presenteranno sempre al Re, ove dimostrano che essere attive come avvocate non è contrario all’Islam.



Dal Re alla Regina: Rania di Giordania ha lanciato il 10 settembre un progetto (con budget iniziale di un milione di dollari) per combattere la violenza contro le donne. Gli scopi dell’azione sono il fornire assistenza medica e legale alle donne vittime di abusi, e suscitare consapevolezza pubblica sul problema. La maggior parte delle donne giordane, secondo l’ultima indagine demografica sulla salute della cittadinanza (2002), crede che i loro mariti siano in qualche modo autorizzati ad usare violenza fisica o verbale. “Ciò che rende il progetto così importante,” ha detto Asma Khader, che dirige la Commissione nazionale giordana per le donne, “è che ci stiamo muovendo dalla teoria alla pratica. L’ostacolo principale è cambiare le percezioni delle persone: ed è questo ciò che ci serve per contrastare la violenza.”



Ricordate la campagna iraniana “Un milione di firme” per i diritti umani delle donne, vero? Grazie ad Amnesty International, che la sostiene, potreste aver avuto la fortuna di non sentirne parlare solo da me. Un bel po’ di donne sono finite in carcere per aver semplicemente firmato o raccolto le firme: l’ultima in ordine di tempo è Bahareh Hedayat, 24enne studentessa universitaria, arrestata durante un pacifico sit-in di protesta contro gli arresti indiscriminati di altri studenti.

Ma a fine luglio è stata la volta di un attivista di sesso maschile. Amir Yaghoub Ali ha compiuto vent’anni nella sezione 209 della prigione di Evin, in isolamento, perché fa parte del sempre maggior numero di giovani uomini impegnati nella campagna che chiede uguaglianza per le donne. La madre di Amir, che è stata informata dell’arresto del figlio dopo dieci giorni, ha chiesto al giudice in cosa consistessero gli “undici capi d’accusa” contestati al ragazzo: era forse illegale raccogliere firme? Le è stato risposto che: “Non si tratta di accertare cosa sia legale e cosa no. (detto da un giudice, credo sia il massimo) Quel che dobbiamo investigare è l’intenzione dietro alle sue attività. Amir è un maschio, cos’ha lui a che fare con le donne? E’ uno studente, e avrebbe dovuto badare ai suoi studi.”



La follia dilaga, anche in Cecenia, dove dal 13 settembre le impiegate pubbliche devono mettersi un fazzoletto in testa o verranno licenziate. Il Presidente Ramzan Kadyrov, trentenne, a detta di molti osservatori locali ed internazionali ha trasformato la regione nel suo feudo privato. Le leggi che anche lui dovrebbe rispettare separano stato e religione, e danno eguali diritti ai due sessi. Ma Kadyrov, dopo aver effettuato un pellegrinaggio in Arabia Saudita, ha dichiarato che “le tradizioni cecene sono diverse”.



Problemi con le “tradizioni” anche per la simpatica signora Ni, un’operaia cinese che ha trascinato in giudizio i suoi datori di lavoro. La signora Ni è stata infatti licenziata in base alla “tradizione” che vuole che le donne stiano zitte, soprattutto davanti ai loro superiori maschi. Poiché ha risposto al suo capo reparto invece di mettersi a piangere, e si è rifiutata di pagare la multa impostale semplicemente per aver aperto bocca, l’operaia è stata cacciata. Ma lei crede che non vada bene: “Il padrone mi ha detto che, secondo le regole della ditta, non ha importanza che sulla questione io avessi ragione o torto. Ai subordinati è permesso solo obbedire, ha insistito. Io però credo di avere dei diritti, oltre che dei doveri.”



Alla sinagoga Tifereth Israel, nello Iowa, per quanto si definiscano “conservatori”, pensano invece che uomini e donne siano fatti per stare insieme su questa Terra. E per parlarsi liberamente. Perciò non li ha scandalizzati celebrare lo Yom Kippur (21 settembre) con un team composto dalla rabbina, una cantrice e la presidente della sinagoga stessa, la dottoressa Marty Rosenfeld, che ha dichiarato: “Abbiamo preso posizione sull’eguaglianza dall’inizio, dando riconoscimento all’eguaglianza fra donne ed uomini. Quando per farlo ci è servito cambiare il nostro libro di preghiere, lo abbiamo fatto.” Alleluia!



Fonti: ABC News, Arab News, Associated Press, France Presse, Hindustan Times, Indigenous People’s Caucus, Inter-Press Service, New York Times, Reuters, Wall Street Journal, We News, Women’s Media Center



Lunedì, 24 settembre 2007