Ringraziamo Maria G. Di Rienzo[per contatti: sheela59@libero.it]per averci messo a disposizione questa sua traduzione. Aunohita Mojumdar è una giornalista indiana, corrispondente per We News, attualmente lavora a Kabul,
in Afghanistan. Ha coperto con i suoi reportage la regione dell’Asia del sud per 17 anni, ed è stata corrispondente locale
durante il conflitto in Kashmir e nel dopoguerra nel Punjab), 7 ottobre 2007.
KABUL, Afghanistan. Ogni anno, la festività di Eid, che chiude la stagione mensile del Ramadan, viene commemorata con
l’amnistia presidenziale per i prigionieri. E’ un far mostra di benevolenza culturale, giacché il Ramadan viene
tradizionalmente celebrato con le famiglie riunite. Ma mentre questa festa di Eid si avvicina con la data del 13 ottobre,
gruppi femminili e ong internazionali stanno mettendo sull’avviso che molte prigioniere, se rilasciate, diventeranno delle
vagabonde senza casa, ostracizzate e vulnerabili allo sfruttamento sessuale. Altre potrebbero tornare immediatamente in
prigione perché donne “non accompagnate”. Altre ancora saranno vittime dei loro parenti, che desiderano punirle più
severamente, spesso con la morte.
“Le donne muoiono, dopo aver lasciato la prigione.”, dice la dottoressa Anou Borrey, consulente per la giustizia di genere
del Fondo per lo sviluppo delle donne delle NU in Afghanistan.
“Le afgane in prigione potremmo dirle fortunate, almeno sono vive.”, dice Carla Ciavarella, coordinatrice del programma
legale dell’ufficio delle NU che si occupa di droga e criminalità in Afghanistan. L’ufficio ha lavorato con il sistema
penitenziario afgano per quattro anni. “Non sappiamo quante donne vengano uccise e abusate nelle loro stesse case, ogni
giorno.”
Gli avvertimenti seguono un rapporto dello stesso ufficio dei primi di settembre, in cui si documentava come circa metà
delle donne presenti nelle maggiori prigioni afgane sono detenute per i cosiddetti “crimini morali”: adulterio, fuga da
casa, l’essere state trovate in compagnia di un uomo che non era loro parente, e persino l’aver dato rifugio ad una donna
in fuga.
Christina Orguz, rappresentante afgana dell’agenzia NU, dice che nella maggior parte degli altri paesi del mondo queste
detenute sarebbero considerate vittime di crimini, e non criminali.
I dati del rapporto riecheggiano la ricerca sullo status delle donne in Afghanistan rilasciata nel gennaio 2007 da Medica
Mondiale, un gruppo che si occupa del sostegno a donne e bambine traumatizzate nelle zone di guerra o di crisi, e che ha
lavorato moltissimo con le prigioniere afgane:
“Il caos giudiziario fa sì che le donne vengano ritenute responsabili dei crimini anche se ne sono vittime, e i casi
vengono giudicati in base a leggi tribali o tradizioni, invece che in base al codice penale vigente. In particolare, viene
perseguito il reato detto “zina”, o contatto sessuale al di fuori del matrimonio, senza neppure accertarne la realtà, e le
donne vengono condannate alla prigione anche se hanno subito uno stupro.”
Il rapporto redatto dall’ufficio NU si è avvalso delle interviste alle prigioniere, fra cui 56 delle 69 detenute della
prigione di Pul-e-Charki, situata alla periferia di Kabul. Una di esse ha narrato agli intervistatori che suo marito ha
ucciso un altro uomo durante una disputa per il possesso di certi terreni, e per farla franca ha detto di aver commesso
l’omicidio a causa dell’adulterio della moglie. Poiché la donna non aveva testimoni che dicessero che non l’aveva commesso,
è stata imprigionata. Analfabeta e povera, dovrà scontare sei anni di galera assieme al figlioletto. La sentenza iniziale
era di un anno, ma è stata aumentata dopo che la donna ha chiesto il divorzio, una richiesta che ella ritiene abbia
maldisposto il giudice nei suoi confronti.
Alcuni dei “crimini” delle donne non sono presenti neanche nell’attuale codice penale afgano, che pure si basa sulla
sharia, o legge islamica. Il sistema giudiziario basato sulla sharia, ed anche sui tradizionali consigli degli anziani (che
spesso sono ancora più duri), vede le donne come proprietà della famiglia estesa del marito, una visione che distorce
l’interpretazione delle leggi penali.
Essendo “proprietà”, per esempio, le donne non hanno il diritto di andarsene da casa, perché non hanno il diritto di
uscirne senza il permesso del marito o di un parente maschio, un costume che preserva gli uomini dall’essere deprivati dei
loro “possedimenti”. Le donne sono anche le custodi dell’onore familiare, ed ogni erosione percepita di tale onore può
essere considerata pericolosa e punibile dalle famiglie. Uno studio di UNIFEM del maggio 2006 stima che l’82% degli atti di
violenza contro le donne afgane venga commesso da membri delle loro famiglie.
La violenza domestica è comune, ma lo è di più all’interno dei matrimoni imposti, inclusi quelli che coinvolgono spose
minori dei 16 anni d’età. La “Commissione indipendente afgana per i diritti umani” stima che la maggioranza dei matrimoni
nel paese (tra il 60 e l’80%) siano forzati, e molti includono spose di sei anni. Le leggi afgane permettono ad una ragazza
di sposarsi a 15 anni con il consenso paterno, ma in pratica si considera che i padri siano intitolati a garantire il
consenso delle figlie qualsiasi sia la loro età. I matrimoni e i divorzi sono spesso non documentati, in Afghanistan. Ciò
significa che una donna che si risposa dopo un divorzio può essere accusata di adulterio se solo il marito sostiene di non
aver mai divorziato da lei. I costumi sociali e le tradizioni rendono qui molto più difficile ad una donna dare inizio alle
procedure di divorzio, e la mancanza di documentazione formale sulle nascite, i matrimoni ed i divorzi rende difficile
procurarsi evidenza legale. In una disputa in cui vi sia la parola di un uomo contro la parola di una donna, usualmente è
l’uomo ad essere creduto. Alcuni ex mariti si avvalgono di questa mancanza di prove rispetto ai loro divorzi per ottenere
compensi in denaro dal secondo marito, che avrebbe preso le loro “proprietà”. Le donne vengono date via per pagare debiti,
per siglare accordi, per raddrizzare torti.
Amina, che come molte donne afgane usa sola il suo primo nome, è membro del locale Consiglio di donne per la Pace a Ghazni,
una città nell’Afghanistan del sud. Incontrando a Kabul la deputata del suo distretto, ha ricordato con rabbia la storia di
una vedova di 46 anni, da lei conosciuta, che era stata costretta a sposare il cognato di nove anni, perché gli “usi e
costumi” dicono che una vedova deve risposarsi all’interno della famiglia del marito.
Zahira Mawlai, la deputata, ha sottolineato che secondo l’Islam il consenso della donna è obbligatorio per ogni matrimonio,
e che usare la forza è considerato peccato. Ma in pratica, ha aggiunto, le donne afgane mancano spesso del potere di
prendere decisioni. Un primo passo per mettere fine ai matrimoni di minorenni ed ai matrimoni forzati, ha suggerito, è
denunciare tali pratiche come illegali, poiché lo sono.
I rappresentanti delle NU e i gruppi di donne come Medica Mondiale stanno lavorando per fornire alle donne prigioniere
quelle capacità che le aiuteranno a sopravvivere ed a stabilire condizioni per un rilascio sicuro. Ciò include
l’alfabetizzazione, la formazione professionale, e lo studio delle leggi vigenti. I volontari e le volontarie stanno anche
lavorando per sottoporre delle linee guida a breve e a lungo termine al Ministero afgano per la Giustizia, per il
trattamento e la riabilitazione delle detenute. In questo processo stanno raccomandando delle “case di transizione”, la cui
creazione non è ancora stata stabilita.
Maggiori informazioni:
United Nations Office on Drugs and Crime, "Female Prisoners and Their Social Reintegration":
http://www.unodc.org/pdf/criminal_justice/Afghan_women_prison_web.pdf 
Medica Mondiale:
http://www.medicamondiale.org/
Martedì, 09 ottobre 2007
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