Afghanistan
La colpa è della vittima

di Alisa Tang (trad. M.G. Di Rienzo)

Ringraziamo Maria G. Di Rienzo[per contatti: sheela59@libero.it]per averci messo a disposizione questa sua traduzione, di Alisa Tang per Associated Press, 30.4.2008


Jalalabad, Afghanistan. Trafficata attraverso il confine pakistano, incinta, con il primo figlioletto di tre anni, Rukhma è stata venduta ad un afgano che l’ha stuprata ed ha abusato di lei in vari modi, poi ha ucciso a botte il bambino sotto i suoi occhi. L’uomo ha ricevuto una sentenza a vent’anni di prigione per omicidio, ma anche Rukhma è in galera.
Rukhma, che non sa quanti anni ha ma appare sotto la ventina, ha cercato protezione e giustizia dalle autorità la scorsa estate, e i maltrattamenti durati tre mesi erano appena finiti quando ha ricevuto una sentenza a quattro anni di prigione, il 5 dicembre, per “essere fuggita dalla propria casa” ed aver commesso “adulterio”, sebbene sia stata rapita e violentata.
La caduta dei talebani sei anni fa aveva promesso diritti alle donne afgane: andare a scuola, avere un lavoro, essere garantite dalle legge. I diritti delle donne sono oggi scritti nella Costituzione afgana. Pure, eccetto che per una minuscola elite urbana, la donna che fugga dalla violenza domestica o denunci uno stupro finisce dalla parte del torto per giudici e avvocati.
“Perché sono qui? Sono innocente.” Rukhma piange, nella cella piena di muffa, mentre culla sulle ginocchia la bambina che ha partorito in carcere. “E’ crudele che io abbia dovuto vedere la morte del mio piccolo e poi sia stata messa in prigione.”
In alcune zone dell’Afghanistan e del vicino Pakistan, una donna che fugga di casa viene automaticamente sospettata di averlo fatto per un amante, e può essere processata per adulterio. Il semplice uscire di casa senza il permesso della famiglia può costituire un reato (come nel caso di Rukhma, anche se è stata rapita), sebbene in realtà non sia classificato come tale nel codice penale afgano. Il giudice della provincia di Nangarhar che ha trattato il caso di Rukhma mi suggerisce che lei sia stata “leggera”: “Se mia moglie va al bazar senza il mio permesso, io la uccido. Questa è la nostra cultura.”, ha urlato Abdul Qayum, senza traccia di vergogna, durante l’intervista rilasciata nella città di Jalalabad. I suoi colleghi hanno riso, approvando. “Questo è l’Afghanistan, non l’America.”, ha concluso Qayum.
La Commissione indipendente afgana per i diritti umani ha registrato 2.374 casi di donne che hanno denunciato violenze subite nel 2007, a fronte dei 1.651 casi registrati l’anno precedente: un segno che sempre più donne cercano aiuto. Unità specializzate nel rispondere alla violenza domestica sono state stabilite nelle forze di polizia, e ci sono timidi segnali di simpatia a livello ufficiale, almeno nella capitale Kabul, che è una città relativamente liberale.
All’ospedale della capitale, una sedicenne che è troppo terrorizzata per dirmi il suo nome, sta lentamente recuperando la salute dopo vari interventi di chirurgia riparativa: il marito le ha tagliato il naso e le orecchie, le ha buttato tutti i denti fuori, tranne sei, con una pietra, e ha versato su di lei acqua bollente. I parenti della ragazza, che vengono dalla provincia di Zabul, nel sud, vorrebbero portarla a casa, ma il direttore dell’ospedale si rifiuta di dimetterla.
“Suo cognato viene qui ogni giorno. Mi dice: Lasci che la porti a casa, sta bene ora.”, racconta il dott. Ghairat Mal, “Io non mi fido di lui. E’ stato il Ministero per gli affari delle donne a portarci qui la ragazza, e io non la lascerò andare fino a che il Ministero non verrà a prenderla.”
Kamala Janakiram, del dipartimento NU per i diritti umani nell’Afghanistan dell’est, dice che fra il 70 e l’80% dei casi di denuncia, da parte delle donne, di violenza domestica ha visto le donne stesse accusate penalmente per essere “scappate di casa”. L’ufficio NU che tratta di droghe e criminalità attesta che numerose vittime vengono costrette a sposare i loro aggressori, o vengono incarcerate per adulterio, giacché provare lo stupro sembra impossibile.
Ma le donne possono andare in galera semplicemente sulla base di pettegolezzi, dice Manizha Naderi, la direttrice di “Women for Afghan Women”, un’organizzazione umanitaria: “E’ orribile, è una pratica orribile.”
Il terrore dell’essere forzate a tornare con il marito violento spinge alcune donne al suicidio. Janakiram cita il caso di una giovane donna di un villaggio della provincia di Laghman, a cui il marito aveva sparato, lasciandola a morire dissanguata. La giovane sopravvisse, ma il giudice della provincia si rifiutò di concederle il divorzio che lei aveva chiesto, insistendo che gli anziani del villaggio avrebbero risolto il suo problema. La donna era tal punto terrorizzata all’idea di dover tornare con il marito che lo scorso 30 gennaio si è data fuoco davanti al tribunale di Laghman. Ha riportato ustioni sul 98% del corpo ed è morta una settimana più tardi.
Naderi racconta invece della sedicenne rapita durante la propria festa di fidanzamento da tre uomini, e stuprata, dopo di che il fidanzato non volle più saperne di lei: “L’intero villaggio la mise sulla lista nera. Le dicevano: “E’ colpa tua. Perché sei andata con loro?” Era un’anima perduta, era stata violentata.”
C’è anche chi tenta, piuttosto che la denuncia alla polizia, di aver aiuto dagli anziani dei villaggi o dalle ong umanitarie. Orzala Ashraf, attivista afgana per i diritti delle donne, dice che usualmente le donne che fanno questo tornano a casa, ma sono ancora più vulnerabili agli abusi e persino a rischio di assassinio per mano dei parenti maschi decisi a salvare “l’onore familiare”: “La donna verrà umiliata ancora peggio di prima, perché ha violato le regole della famiglia: non doveva discutere i problemi familiari fuori dal circolo familiare.”
Rukhma, che ha solo il suo primo nome, sta ancora sperando che il tribunale la liberi in appello. Seduta sul pavimento della cella, con una sciarpa nera su testa e spalle, racconta di essere stata sposata a forza, prima dei tredici anni, ad uomo che la picchiava e che era il padre di Bilal, il suo bimbo ucciso. Riuscì ad ottenere il divorzio e sposò un altro pakistano, da cui aspettava la bimba l’anno scorso, quando fu rapita da una vicina di casa. La vicina la consegnò ad un afgano di nome Yarul che la reclamò come moglie, e la stuprò per tre mesi. Un giorno Rukhma udì per sbaglio Yarul contrattare con un altro uomo per venderla a quest’ultimo. Costui voleva la giovane madre, ma non il bambino. Impazzita dalla paura all’idea di perdere Bilal, Rukhma ha tentato di fuggire. Ritrovata e ricondotta nella casa di Yarul è stata picchiata e picchiata, continuamente e senza remissione, assieme al piccolo. Mi racconta che il bambino era sotto un lenzuolo, a stento conscio, con il sangue che gli usciva dalla bocca: “Quando ho potuto sollevare il lenzuolo lui ha alzato gli occhi, e ha visto sua madre. Ho capito che erano i suoi ultimi respiri, ed è subito morto.”, dice, e la voce le si spezza, il suo viso si contrae nel dolore, “Quella è stata l’ultima volta in cui ci siamo guardati negli occhi.” Rukhma scoppia in lacrime, e così fa la neonata nel suo grembo.
Quando la polizia è arrivata ad arrestare Yarul, ha arrestato via anche lei. Il giudice, Qayum, ammette che Rukhma è stata stuprata, ma insiste nel dire che il biasimo è condiviso: “Ha passato molte notti con quell’uomo. Ha commesso adulterio. E’ uno stupro, ma anche la donna è colpevole.”



Domenica, 04 maggio 2008