Gaetano Arfè su don Milani

di Gaetano Arfè

La mia per la verità non è una relazione ma una testimonianza. Purtroppo non ho avuto modo, in questi giorni, di prepararmi in maniera adeguata a questo incontro, e dico prepararmi perché non si può parlare di don Milani sulla base di pochi appunti frettolosi. Si tratta di una grande esperienza religiosa sulla quale parlare non è facile, direi anzi che a volte può essere addirittura imbarazzante parlarne in tanti: sono di quelle cose che per poterle affrontare nella loro essenza bisognerebbe parlarne insieme a più voci, per cercare di risentirne quella che è stata la sostanza.
Avete sentito dire poco fa che il pensiero di don Milani non è ancora stato interamente ricostruito: questo è vero, ma credo anche che, sotto certi aspetti, sia un pensiero difficilmente ricostruibile, al di là di certi limiti, perché si tratta di un’esperienza così intima e sofferta che non è tutta traducibile in parole, qualcosa che parla alla coscienza prima ancora che all’intelligenza. Per questo io mi limiterò, questa sera, a raccontarvi quelli che sono stati i miei rapporti con don Milani e con la sua esperienza, che risalgono ad anni molto lontani, prima ancora di Esperienze pastorali, quando don Milani, qui a Calenzano, inizia il suo esperimento, la sua scuola. Io ero arrivato da poco a Firenze dove lavoravo all’Archivio di Stato e dove ero stato trasferito per punizione politica: allora erano ancora tempi in cui queste cose si facevano, ed un mio collega, che era segretario dell’Azione Cattolica, mi parlò di don Milani e parlò a don Milani di me. Fu così che un giorno mi arrivò una letterina scritta su un foglio strappato da un quaderno, in cui don Milani mi diceva dell’esistenza di questa sua scuola, che era passata attraverso una fase tutta negativa, o comunque fortemente critica. Aveva insegnato a questi ragazzi a dubitare di tutte le cose che gli venivano dette, di tutte le convenzionalità che gli venivano dette: aveva insegnato a leggere i giornali in maniera critica mettendone a raffronto diversi, raffrontando le varie verità e dimostrando come ognuno avesse una propria versione di parte, nessuna delle quali rispondeva ai vero. Aveva cioè condotto un’opera di educazione finalizzata a non lasciarsi ingannare. Ora voleva passare a una fase diversa, a una fase costruttiva, mettere i giovani, i suoi ragazzi, in contatto con personaggi vari che portassero esperienze ideali, anche politiche, professionali, scientifiche, di varia natura, e su queste discutere. Quindi m’invitava a parlare di storia del socialismo. Assoluta libertà di parola, un solo dovere: quello di essere sinceri, di non trincerarsi mai nella reticenza o nell’ambiguità; per il resto tutto andava bene. Fu così che iniziò il mio rapporto con lui. Tenete conto che erano tempi molto diversi da quelli attuali, il clima nel Paese era ancora di rotture e di contrapposizioni violente, di scomuniche e di manicheismi, in cui ad ognuno sembrava che tutto il bene stesse dalla propria parte e tutto il male dall’altra, per cui mi incuriosì e mi interessò. Ero già da anni militante politico attivo, appassionatamente attivo: mi interessò questa richiesta che mi veniva da un prete. Mi incuriosiva conoscere quali fossero gli intendimenti che si proponeva di raggiungere attraverso questa scuola, mi interessava questo metodo, che egli proponeva, di scambio e di dialogo.
Fu così che io arrivai per la prima volta a Calenzano per parlare di storia del socialismo a questi ragazzi. Poi sono tornato in altre occasioni: una volta per parlare di storia della questione meridionale, un’altra a parlare delle prospettive della vita politica italiana, ed ogni volta queste conversazioni si sono svolte, appunto, in quel clima di totale sincerità da tutte le parti, che era un fatto a quell’epoca assolutamente muovo. Così io capii realmente quelli che erano gli intenti e i metodi della scuola di don Milani. Lui attraverso la scuola non voleva insegnare la sua verità, lui voleva soltanto elevare le coscienze, le intelligenze dei giovani, metterli in grado di capire le cose e di orientarsi nel mondo ed è su questa base, poi, che si sarebbe innestato l’insegnamento della sua verità. Era una sfida che don Milani lanciava alle coscienze, qualcosa che si sentiva aleggiare in questa scuola e che veramente ne costituiva il fascino.
Mi resi conto che a lui la dimensione della politica era estranea: la politica, cioè, era anche un dovere, nel senso di partecipazione di tutti alla vita collettiva, ma i valori della politica in quanto tali a lui erano estranei. I suoi valori erano di altra natura e di altro ordine ed era soltanto in funzione di quelli che egli si muoveva. Così accadeva che nel corso di queste lezioni lui aveva l’abitudine, ogni tanto, di interrompermi perché c’erano dei punti che egli riteneva potessero essere di particolare interesse educativo per i giovani e sui quali, quindi, valeva la pena soffermarsi più che su altri. Il problema, infatti, non era tanto dare nozioni, quanto contribuire a una formazione culturale. Ricordo, per esempio, che una volta domandò se era vero che la sconfitta di Caporetto era stata determinata dalla campagna disfattistica dei socialisti, ed io risposi che, sulla base della mia documentata convinzione, questo non era vero, che le cause della sconfitta di Caporetto erano state di altra natura, almeno quelle prevalenti e determinanti. E allora lui commentò: «Mi toglie un’illusione, perché avevo ritenuto che ci fosse stata una protesta consapevole e attiva contro la guerra, lanciata dai socialisti». Da qui poi entrammo a parlare della guerra e della pace, dei problemi etici ad esse connessi, ed era questo il suo modo di fare lezione e di orientare chi faceva lezione. Capitava anche che se qualcuno poi indulgeva alla reticenza, all’ambiguità o addirittura alla menzogna, si vedeva bruscamente interrotto e magari messo alla porta.
Così abbiamo discusso in seguito della questione meridionale, di quello che aveva rappresentato nella storia d’Italia, di quella che era la condizione umana dei contadini meridionali, degli zolfatari in Sicilia, dei fasci siciliani. Tutte cose sulle quali lui richiedeva il massimo delle informazioni possibili, cercando i dati concreti del problema: come viveva questa gente, come operava, come pensava, come si era mossa, quali erano stati i movimenti che aveva creato, le rivolte di cui era stata protagonista. La storia della società vista attraverso i suoi protagonisti, attraverso le classi sociali sulle quali gravava questo peso di un’oppressione secolare, di classe, economica, politica. Ricordo ancora che un’altra volta che affrontammo dei temi di carattere politico, don Milani mi domandò se io ritenevo che in prospettiva potesse realizzarsi un’intesa fra cattolici e socialisti: era un problema che allora sembrava estremamente remoto nel tempo, una di quelle prospettive irrealizzabili per tutta una serie di ragioni, comprese le opposizioni delle gerarchie cattoliche. Gli dissi che non escludevo che in tempi relativamente lunghi si potesse arrivare ad una intesa di questo genere e lui chiese il mio giudizio su ciò. Io la vedevo come un’ipotesi positiva e lui contrappose il suo dubbio, cioè che un’intesa tra socialisti e democristiani sarebbe stata una sorta di compromesso tra le parti peggiori dell’uno e dell’altro schieramento, un compromesso deteriore che non avrebbe cambiato per niente i moduli della lotta politica in Italia e i metodi di governo. Don Milani ebbe delle parole estremamente severe poi nei confronti delle gerarchie ecclesiastiche per quanto riguardava la politica della Chiesa cattolica, da secoli sempre in arretrato rispetto alle esigenze dei tempi, e con spirito talmente polemico che mi permisi di domandargli come mai poi lui operasse dentro la Chiesa cattolica da prete, e mi rispose: «Questa tonaca è la croce che porto per godere dei sacramenti».
Quindi, come vedete, un’esperienza che non può essere valutabile in termini politici: un’esperienza tutta religiosa, questa è stata l’impressione che io ho sempre avuto dell’insegnamento di don Milani ed è quello che scrissi poi anche nella recensione che dedicai al suo libro.
Questo libro, ebbi il privilegio di leggerlo prima che fosse stampato e lui mi pose due quesiti. Uno di ordine tecnico, se mi sembrava che ci fossero degli strafalcioni dal punto di vista metodologico dell’uso che aveva fatto delle statistiche dei dati raccolti; l’altro era un quesito un po’ diverso, se trovavo, cioè, qualcosa che mi sonasse strano in bocca a un prete cattolico. Fu così, da questo duplice punto di vista, che io lessi questo testo, e dirò che l’impressione che ne trassi allora è l’impressione che ne ho conservato poi anche dopo. Dal punto di vista metodologico, al di là di certe rozzezze apparenti, era in realtà di un altissimo valore, con l’uso di una metodologia d’inchiesta, di cui a quell’epoca non esistevano altri esempi in Italia e anche dal punto di vista tecnico perché era un’inchiesta concepita con uno spirito che nessun sociologo aveva mai portato in queste cose, nessun sociologo e nessun economista. Perché anche le inchieste sociologiche valgono per lo spirito che ci si porta dietro, altrimenti diventano dei pezzi anatomici che non illuminano niente e nessuno. Invece se voi osservate i criteri con i quali è stata condotta questa inchiesta scoprirete che sono in realtà di una raffinatezza estrema e hanno permesso a don Milani di intendere tempestivamente certe tendenze di fondo della società italiana. Erano pochi allora, che io sappia, che intravedevano lo sviluppo del potenziale negativo in ogni fenomeno sociale e politico. Esistono delle componenti potenzialmente diverse e divergenti, positive e negative; lui proprio perché portava in quest’inchiesta un interesse che non era aridamente professionale, lui ha avuto la capacità di intuire quelle che erano le cariche negative che si manifestavano in certi fenomeni che già allora venivano alla luce nella società italiana. Pensate alla sua valutazione del fenomeno sportivo, a quanto ha comportato di negativo nella storia della società al punto che oggi le partite si fanno con il regime di stato d’assedio. Oppure pensate alla sua valutazione della televisione non come strumento ma per quello che essa poteva rappresentare, che ha rappresentato e che rappresenta nel nostro Paese: non era una forma di luddismo, per cui bisognava distruggere un nuovo strumento di comunicazione, bensì la consapevolezza del pericolo che questo tipo di comunicazione venisse adoperato non per esaltare l’uomo ma per mortificarlo, asservirlo ideologicamente e culturalmente, per corromperlo moralmente. La sua capacità di intendere questi fenomeni è stata veramente eccezionale.
Se voi guardate tutte le pagine che sono dedicate a questi temi, e pensate che questo è stato scritto trent’anni fa, vi renderete conto di quella che è stata la capacità di indagine dal punto di vista tecnico che a don Milani derivava dalla passione che ha portato in questo lavoro. Direi che è stato proprio questo che l’ha reso uno dei profeti della crisi del nostro tempo, uno dei punti di riferimento per le giovani generazioni.
Quando lui scrisse quel libro, me lo dedicò, chiedendomi di farlo conoscere nel mio ambiente, ed egli avrebbe pensato al suo. Io lo feci conoscere attraverso Il Ponte che allora era la rivista dell’alta intellettualità laica, non soltanto fiorentina ma italiana, era la rivista fondata e diretta da Piero Calamandrei, intorno cui si era raccolto il meglio dell’intelligenza laica. In quegli ambienti trovai un interesse non molto appassionato: veniva considerata la singolarità di questo sacerdote che parlava un linguaggio così diverso; l’originalità della sua figura poneva in secondo piano la carica innovativa che portava non soltanto nell’analisi sociologica, ma, attraverso l’analisi sociologica, anche nell’etica, nel modo di concepire il rapporto tra gli uomini ed i rapporti nella società. Trovai invece molto interesse in altri due giovani più o meno coetanei miei e di don Milani, che hanno anche loro, in altro campo, lasciato un segno della loro originalità. Uno di questi fu Raniero Panzieri, che è stato poi fondatore e direttore di Quaderni rossi, una delle riviste originali della sinistra italiana, e l’altro fu Gianni Bosio, anche lui organizzatore culturale e fondatore di una rivista, Movimento operaio, che per primo in Italia riscoprì il filone colto della cultura popolare nelle sue origini, nella sua genuinità, nella sua scaturigine, senza mai consentire che venisse degradato a strumento di commercio o di mercato.
Per lui si trattava di rivalutare e portare a galla questo filone di cultura popolare, autonomo, non subordinato ad altro, che era stato regolarmente ignorato dalla cultura nazionale, dalla cultura delle classi dirigenti. C’era una notevole analogia di interessi tra lui e don Milani, anche se non hanno mai avuto rapporti tra loro. Per lui, però, l’esperienza di don Milani fu molto importante per indirizzare poi la sua ricerca in questo senso e con lo stesso spirito. La lezione e l’apporto di don Milani, per certi aspetti, al di là dell’esperienza religiosa, questo nuovo modo di vedere i problemi della società, i problemi delle classi popolari, i problemi della cultura delle classi popolari, il tentativo di scoprire i valori anche nelle culture subalterne, è andato molto al di là dei limiti del mondo cattolico in quanto tale, ha interessato molto i giovani delle nuove generazioni che si sono aperti a questi problemi.
Mi riferirò ancora ad un’esperienza personale, quella che ho fatto all’Università di Bari negli anni della contestazione ’68-’69, quando ci fu qualcuno di quei giovani che scoprì che io ero stato in rapporto con don Milani. Erano tra i più accesi nella contestazione, tra i più polemici nei confronti del ceto insegnante in quanto tale, anche in questo educati da don Milani, e questi vennero da me perché vollero lungamente parlare di lui e ripetutamente mi resi conto quanto questa esperienza avrebbe fruttificato, come fosse andata molto al di là, fosse diventata una delle componenti ideali ed etiche di questi giovani che si affacciavano ai problemi nuovi.
Questo per me è stato il significato dell’incontro con don Milani. Un incontro che dal punto di vista scientifico è stato molto importante proprio per questa lezione di metodo che egli ha dato a tutti quanti noi, che vale anche per la mia disciplina, la storia, come vale per la sociologia; intendo questo nuovo modo di maneggiare l’indagine sociologica con uno spirito nuovo e con delle metodologie che sono finalizzate a capire l’uomo e non solo a fornire dei dati. È questa straordinaria capacità di intuizione che lo ha posto come uno dei profeti della crisi e come un punto di riferimento tra coloro che a questa crisi vogliono contrapporsi. D’altra parte l’esperienza religiosa di don Milani mi ha colpito profondamente e mi ha profondamente affascinato. Era tutto permeato di questa sua religiosità profonda, questo suo modo di vedere l’uomo, l’immagine di Dio sulla terra, il rapporto di profondo rispetto che egli aveva per l’uomo in quanto tale proprio perché per lui l’uomo era appunto questo, era questa testimonianza. Questo profondo senso di rispetto per l’uomo in quanto tale, era l’essenza della sua religiosità, era il suo modo di vedere l’immagine di Dio sulla terra. Il rapporto con don Milani non poteva definirsi come rapporto d’amicizia, nel senso tradizionale, convenzionale del termine; era un rapporto di un’intensità molto più profonda che prescindeva anche dalle persone e questo era l’elemento che si coglieva nel suo modo di rapportarsi con gli altri.
Se dovessi fare un bilancio, l’esperienza di don Milani è l’esperienza di una sconfitta: don Milani. cioè, ha identificato i ruoli di questa società, i ruoli che sarebbero scaturiti da una certa forma di sviluppo e da un certo modo di governare e di portare avanti i processi nella società. Lui l’aveva intuito, le cose, però, sono andate avanti in maniera nettamente contraria a quello che egli aveva ipotizzato. Oggi abbiamo una società che è la negazione di quella a cui don Milani guardava. Però io credo anche che esistono sempre delle potenzialità alternative nella storia degli uomini, fattori positivi e negativi procedono dialetticamente sempre insieme. Oggi noi abbiamo una società che nelle sue correnti prevalenti è la negazione dei valori di don Milani, è la negazione della religiosità, la negazione della società come egli la intendeva, la negazione dei rapporti tra gli uomini così come egli li intendeva. Però è anche vero che in questa società si vanno sviluppando delle forze in senso contrario. Si vanno sviluppando anche tra i giovani (si parla tanto male dei giovani, i giovani «vogliono» dicono): bisogna avere fiducia nei giovani come egli la ebbe: parlare alla loro intelligenza e alla loro coscienza significa farli protagonisti della svolta di una vita nuova. Questi segni si intravedono da molte parti, comincia ad esserci una saturazione di questo tipo di civiltà che va degradando sempre di più l’uomo. Cominciano ad esserci i segni di un rifiuto, gruppi che si organizzano anche al di fuori delle forze tradizionali, perché questo processo di involuzione ha coinvolto tutto, le istituzioni ufficiali, anche i partiti politici. Ma vediamo che nella società vanno sorgendo delle controspinte e per loro l’insegnamento di don Milani è un punto di riferimento importante e credo che lo diventerà sempre di più: da questo punto di vista questo nostro incontro di oggi è un atto di fiducia proprio nei giovani ai quali don Milani guardava e rivolgeva il suo insegnamento, e che oggi hanno ricordato quello che egli ha rappresentato per loro, e noi ricordiamo quello che egli rappresenta ancora oggi per tutti quanti noi.

A trent’anni da «Esperienze pastorali» di don Lorenzo Milani (a cura di Michele Sorice), Franco Angeli Libri, 1990, pp.41-47

Articolo tratto da:

FORUM (67) Koinonia

http://utenti.lycos.it/periodicokoinonia/



Lunedì, 24 settembre 2007