Da Esperienze Pastorali
Lettera a don Piero

di don Lorenzo Milani

Per ricordare don Lorenzo Milani a 40 anni dalla morte


Caro Piero,
Cesare m’ha detto che quando ti raccontò dell’atteggiamento che ho preso di fronte a un industriale e agli industriali in genere, restasti un po’ turbato.
M’ha detto che anche don Divo dice di me che ora son proprio fuori del seminato e che un prete non deve occuparsi di queste cose. S. Paolo infatti non diceva agli schiavi di ribellarsi ai padroni, anzi nella lettera agli Efesini scrive: «Schiavi. obbedite ai vostri padroni terreni come al Cristo».
Parrebbe dunque che io avessi deviato parecchio.
Ma credi, le cose non sono così semplici come possono apparire a chi sta lontano. Son invece molto complesse e dispero di potertele spiegare con questa lettera. Ma mi ci proverò lo stesso, perché mi sta troppo a cuore che tu intenda come mi sia potuto ritrovare in questa apparente deviazione di fini ultimi. E poi parla anche a don Divo, perché sono sicuro che perfino lui, se lasciasse i libri e la scuola e venisse a immergersi nel cuore di un popolo di campagna, farebbe come me, né più né meno.
E non dico così perché pensi che vedendo da vicino le umiliazioni di cui son vittime i poveri debba diventare anche lui, come loro, ribelle e perso nel desiderio di riforme. Ma solo perché potrebbe valutare come queste cose hanno conseguenze anche nel campo strettamente religioso.

Parte prima
Una qualsiasi storia nuda e cruda fra le tante che ti potrei raccontare. La storia del mio Mauro.
Mauro entrò a lavorare a 12 anni.
Lavorare a 12 anni vuol dire rovinarsi la salute. Non andare a scuola. Sentirne d’ogni colore, lontano dal grembo della mamma prima del tempo.
Lavorare 12 ore a turni vuol dire sottoporsi il doppio degli altri agli infortuni. Tornare a casa solo per buttarsi sul letto e levarsi solo per ripartire. Perdere anche la scuola popolare, la Messa una domenica sì e una no. Perder gli amici. Dormire quando vegliano gli altri, vegliare quando dormono. Insomma esser tagliati fuori dal viver civile.
Già. Poi scordavo di dirti che Mauro non era assicurato. Lui non ne avrebbe avuto neanche l’età, ma poi a Prato tra i tessitori, coi libretti, non ne lavorerà 10 su 100.
Alla Mutua o all’Ispettorato forse credono nella magìa, ma gli altri, quelli che stanno nelle strade e nelle case e perfino le mamme che non metton piede fuor di cucina e non leggono il giornale, lo sanno tutte.
Una marea senza nome e perfino senza peso nelle statistiche perché lavora senza libretto. E chi lavora senza libretto non compare negli incartamenti dei grandi e neanche sarà contato dalle macchine che stan strizzando il sugo del censimento del 1951. Gente che non esiste, eppure vive e soffre e si ammala e mangia e prende moglie e fa figlioli e s’infortuna e tutto questo senza assicurazione, senza contratto, senza difesa. In una parola: schiava come ai tempi di Nerone: gente senza diritti.
Pare impossibile che i tutori dell’ordine non sentano quel canto disperato delle macchine che chiamano, che urlano, che accusano.
Ma l’ordine si sa non è un concetto univoco. Se lo violano i poveri è attentato allo Stato. Se lo violano i ricchi è la Congiuntura Economica, è un complesso di cose complicate che noi campagnoli non si possono intendere.

Io penso invece all’art. 40 della Costituzione: il Diritto di sciopero.
Possibile che il Baffi, uno stupido piccolo privato possa beffare così una legge che un popolo s’è data? Che un popolo ha pagato così cara: sangue, fame, guerra civile, elezioni tanto sofferte da ogni parte.
E poi non è una legge qualsiasi. È quella che il Cristo attendeva da noi da secoli, perché è l’unica che ridia al povero un volto quasi d’uomo.
Non gli riconoscerà ancora il potere sopra le cose. Ma almeno sul suo lavoro: di darlo o non darlo quando gli pare.
Si usa dire che nelle fabbriche grandi le infrazioni alle leggi sociali non ci siano. Non è vero.
Dal Baffi si lavora con contratto a termine. Ognuno firma per due mesi e rinnova alla scadenza per altri due e così via.
Non si può. Ma al Baffi non glie ne importa.
Si dice poi che nelle fabbriche grandi, son tutti assicurati. Ma non è vero neanche questo. Dal Baffi so di moltissimi che non lo sono. E Mauro mio e Danilo li ha assicurati una settimana innanzi al licenziamento, come un ultimo spregio.
È evidente, anche solo da questo fatto che il Baffi è un pazzo. E un pazzo non fa regola. Ma non è questo che voglio dire.
II tragico non è che ci sia un pazzo. Il tragico è che un pazzo possa impunemente fare e disfare nella vita degli umili. Che la società sia organizzata in modo da proteggerlo.

Ma se non smetto dirai che le invento. Dirai che esagero, che riesumo fatti del ’700 nelle miniere inglesi, dell’800 nelle solfatare siciliane. Io invece posso portare testimoni punto per punto di tutto quello che scrivo in questa lettera.
E del resto puoi fare il conto anche da te. Cosa è cambiato di sostanziale dal ’700 in qua?
Quando un uomo può licenziare quanto e quando gli pare hai bell’e inteso tutto. Ha il coltello dalla parte del manico, delle leggi sociali se ne può anche ridere.
Ecco, questo è il peggio davvero. Il peggio non è beffar la legge. Il peggio è beffar l’uomo, distruggerlo da dentro. E per distruggerlo da dentro basta una cosa sola: tenerlo sotto il segno del terrore.
Io rimugino pensieri di ribellione. Li alterno a preghiere contrite. Poi d’improvviso m’impongo anche un esame di coscienza: l’altro giorno don Enrico m’ha detto: «Tu dai tutta la colpa ai padroni. Il male lo vedi da una parte sola».
Provo a mettermi in quest’ordine di idee. Per scrupolo provo a pensar male anche di Mauro...
Ma no; non regge! Son cose che si posson dire solo da un tavolino quando gli uomini non son che cifre su un foglio di carta. Che si possono respirare solo nell’aria malsana dei giornali «indipendenti». Che si dicono per essere «oggettivi», per tenersi al di sopra delle due parti. Senza ricordarsi che tra il forte e il debole le parti non sono eguali e non si può distribuire i torti con salomonica indifferenza.
Ce n’è tanti che osano parlare così. Ma lo dicono degli operai in genere. In faccia a un operaio nessuno si proverebbe!
Qui invece bisogna parlar di uomini in carne e ossa, con un nome e cognome. Gente che si è vista in viso, di cui si sa come è composta la famiglia. Esca don Enrico dal suo studio, entri in casa di Mauro. S’immerga sotto il peso di tre o quattro disgrazie come le ha lui. Si provi a alzare gli occhi sul suo viso. Sul viso che ha ora mentre mi pedala accanto. Quello che ha in chiesa. Quello che ha sui banchi della Scuola Popolare.
Ragazzate in fabbrica lui? Svogliatezza? Sbadataggine? Ci credi te? Io no. Certe cose le fanno certi ragazzi, malati al capo o al cuore. Si fanno in certi stati d’animo, in certi momenti di sicurezza, di distensione.
Ma Mauro quando li ha avuti quei momenti? Ma a Prato, ma in Italia chi li ha? Col lavoro sempre lì appeso a un filo? Coll’aver provato cosa vuol dire stare a casa?
Sì c’è sempre al mondo qualcuno che è capace di ridere ai funerali. Chi va a ballare la notte che gli muore il babbo. Tutto può darsi. Ma per qualche eccezione non si può bollare di follia una classe intera. E tanto meno quella dei poveri.

Parte seconda
Piero, ho sentito preti e giornali dire che tutte le cose sindacali e sociali sono materia. Che non bisogna che il prete si faccia trascinare dal suo cuore di uomo, da motivi terreni.
Che il pensiero del benessere è eresia. Che ai poveri Gesù parlava solo di croce e di cielo.
Ci credo Piero. Lo credo con tutto il cuore, con tutto me stesso. Appunto. È al cielo che li voglio portare i miei figlioli. Son partito per questo e ancora non penso altro che a questo.
Ma se mi chiede ragione di quel che fa il Baffi, di quel che fa il governo cattolico, che gli posso dire?
Potrò ingannarlo? Potrò dirgli che attenda? Potrò dirgli che il Baffi ha diritto per diritto naturale? Che la Celere ha il dovere di difendere la legge pagana che fa forte il Baffi? Che questa legge è quella che Dio ha posta?
Io non posso dirgli queste cose. Non mi crederebbe. E ha ragione.
E io, Piero, non posso non essere creduto dal mio Mauro. Lui n’ha bisogno di me suo prete per mille altre cose troppo più grandi di questa stupida cosa del lavoro e del governo.
N’ha bisogno per il perdono di Dio di cui ha avuto sete fino a oggi e di cui avrà bisogno anche domani. N’ha bisogno per il Corpo di Cristo che l’aiuti ad affrontar la vita e il matrimonio e la vecchiaia e poi la morte e poi la Vita Eterna.
Parlargli d’altre cose? Tenere il discorso sempre su quello della fede?
Non mi parrebbe vero, credimi. Ma son anche maestro di morale e confessore e se mi interroga devo rispondergli. E di chi è la colpa se nove volte su dieci la sua domanda sarà su questo campo umiliante?
Ah avessi una posizione così limpida da poter rispondere: «A me lo vieni a dire? Che c’entro io, l’uomo dei Sacramenti, il pontefice tra la terra e il cielo coi misfatti dei forti di questa terra? Pensa all’anima tua, pensa a salvarti. Chiedimi il libro di Dio, il Corpo di Cristo, il suo Perdono».

Penso ora che è ancora troppo dono di Dio che io l’abbia ancora qui a domandarli a me i suoi perché. So che è l’ultimo giorno. Domani non verrà più. C’è un altr’uscio, non lontano dal mio dove c’è qualcuno che saprà dargli le risposte che attende.
Mi par già di sentirti protestare: «Che c’entra? Sei te Lorenzo che non sei riuscito a mostrargli la Croce, a predicargli il Vangelo nudo e crudo e la dottrina sociale della Chiesa».
No Piero. Se il colpevole di questa umiliazione dell’uomo non fosse in nulla aggiogato al mio carro, io potrei dire a Mauro che pieghi il capo all’uomo come fosse dinanzi a Dio. Per salvarsi l’anima e in sconto dei suoi peccati. Potrei leggergli la lettera di S. Paolo agli Efesini. Quella che don Divo cita contro di me.
Ma così come sono non posso leggergliela. Don Divo s’è scordato che S. Paolo, quando scriveva quella lettera era in prigione. Vittima con le vittime. Lui sì che poteva additare la Croce.
Ma chi è dall’altra parte non può. Io non posso. Non posso neanche se mi ci son trovato solo per un imprevedibile coincidere di circostanze storiche che non dipendono da me. II fatto resta e cioè che son compromesso col governo e col Baffi. Al governo gli ho dato il voto. Ho proibito dall’altare di dare il voto a altri. Ho proibito di leggere i giornali che lo criticano. E il governo che io ho così sorretto, non platonicamente, ma in concreto, il governo s’è lasciato legare mani e piedi dal Baffi e da quelli con lui.
Il governo s’è alleato col Faraone contro Babilonia. L’ha stimato prudenza. Ed io ho taciuto. Non mi son fatto buttar nel pozzo come Geremia. Anzi ho avuto onore dal governo e aiuto d’ogni genere.
Ecco qual è il muro che mi impedisce di andare incontro al povero e additargli la Croce. Se lo facessi suonerebbe come un orribile scherno.
II fatto è che un governo non c’è stato e questo fatto è stato tutto a svantaggio dei poveri. Comunque non è questo che conta, cioè non ci interessa accertare se il governo ha fatto tutto quel che poteva, quanto invece ci interessa aver chiarito come il governo c’entri.
E se c’entra è giusto che Mauro lo ritenga responsabile della condizione di inferiorità che lo pone in balìa del Baffi. Del governo i meriti e i demeriti. E vuoi che questo non coinvolga anche noi preti nel giudizio di responsabilità? Quando Mauro avrà inteso tutto ciò, come potrà spiegarsi il nostro legame con i suoi oppressori, un legame che ci declassa e non sciogliamo. «Perché - si domanderà - il prete ostacola con le sue stesse mani il proprio apostolato e macchia volutamente il proprio onore? perché? c’è dunque un interesse?».
E tanto più lo dirà se ancora una volta, invece di dirgli che mi sono sbagliato anch’io su certi uomini e su certi strumenti, gli dirò che anche la prossima volta, sia pure per esclusione, è a quegli stessi uomini e a quegli stessi istrumenti che dovremo affidare le sue sorti d’uomo.
«Come - potrebbe dirmi - mi dici che la Grazia rende gli uomini simili a Dio e questi uomini, che tu sostieni in quanto cattolici, in quanto garantiti dalla Grazia, non hanno saputo in tanto tempo esprimere una capacità inventiva contro questa situazione di ingiustizia, si lasciano condizionare dall’esistente, da quell’esistente che è sbocciato tra le mani dei massoni, ma che i tuoi cattolici hanno ricevuto e conservato venerabondi come si conserva la reliquia di un santo.
Ma allora perché ti immiserii nelle loro responsabilità? Io in Dio ci credo e voglio vivere nella Chiesa, ma possibile che ciò comporti la rinuncia a modificare la nostra condizione di inferiorità sociale, la rinuncia a pretendere che la ricchezza sia spesa in modo da assicurare un lavoro libero per tutti?
Deciditi! O non t’immischi più di politica o se te ne immischi altri non possono essere gli obbiettivi tuoi e dei candidati che ci proponi e dopo tanti anni dovete assoggettarvi a subire un giudizio che sembra tocchi anche la capacità della fede che predicate di illuminare le intelligenze, far dilagare la Carità, liberare le forze migliori dell’uomo anche sul piano pratico sostenendo la volontà. E se a questo non serve la Fede, che ho a che fare con te prete politico?
Se i santi non sono adatti per questo mondo tienli nel chiostro e stacci anche te lontano dal fango politico. Può darsi che allora ti ci raggiunga anch’io attratto da questo distacco totale che vi farebbe diversi da tutto e tutti. Ma se ti chini su questa terra e ci additi degli uomini cui affidare la nostra sorte terrena fa’ che la loro santità risplenda in ogni loro atto, trasfiguri le loro leggi, suggelli di un sigillo divino inconfondibile e inimitabile il loro modo di governare».
Via Piero confessalo, questo non è stato il volto dei governi che abbiamo espresso. E non c’è più bisogno neanche di sfogliare altre cifre. È troppo chiaro che il governo non ha osato nulla che fosse segno di una fede nel Dio che aiuta i giusti, nel Dio che è Provvidenza per chi osa amarlo, per chi osa abbandonarsi filialmente nelle sue paterne mani.
Piero ti prego, non mi rispondere che il governo fa quel che può, che è il meno peggio, che senza di lui chissà dove si poteva essere arrivati. Questi discorsi si posson, fare a un politico, a un economista, a chiunque vive su questa terra per questa terra. Ma a un prete come sei te, come son io, non lo dire.
Per un prete, quale tragedia più grossa di questa potrà mai venire? Esser liberi, avere in mano Sacramenti, Camera, Senato, stampa, radio, campanili, pulpiti, scuola e con tutta questa dovizia di mezzi divini e umani raccogliere il bel frutto d’esser derisi dai poveri, odiati dai più deboli, amati dai più forti. Aver la chiesa vuota. Vedersela vuotare ogni giorno di più. Saper che presto sarà finita per la fede dei poveri.
Non ti vien fatto perfino di domandarti se la persecuzione potrà esser peggio di tutto questo?
Ho visto troppo bene che la via c’era. Che siamo forse ancora a tempo perfino ora.
Non era nel fondo della natura umana questa ripulsa alla fede e ai sacramenti.
È solo un guscio esterno che si potrebbe bene infrangere. E come posso rassegnarmi a non provare?
Dovrei arrendermi a 30 anni come s’arrende un vecchio di 60 scoraggiato e scettico?
Dovrei buttarmi soltanto alla preghiera anche per questo? Rimettermi soltanto all’azione dello Spirito Santo? Lo faccio, credimi, ma lo faccio col rimorso di chi sa che l’abito che porta non è quello della Trappa. ma un abito che impegna a cercare anche le vie terrene, di portare la Grazia.
No Piero, credi, le ho pensate tutte. Non sono stato leggero in questa cosa. E tu, se anche non avrai seguito tutto il mio pensiero e se non tutto ti tornerà, ascolta almeno il grido di dolore di un sacerdote frainteso e ottienimi giustizia.
Quando quattr’anni fa arrivò l’ordine d’essere severi coi comunisti io l’ho ubbidito. Per quel decreto mi sono lasciato odiare, abbandonare, disprezzare da tanti miei poveri figlioli. Non ho alzato un lamento contro il Papa perché sapevo che ha ragione.
Ma ora che son stato quattr’anni sulla breccia per lui, ora che con tanta sofferenza ho chiarito ai poveri l’assoluto rifiuto del marxismo da parte della Chiesa e mia, e ci ho rimesso tanti miei figlioli, sangue del mio sangue, ora non voglio sentirmi dare del demagogo solo perché vo in cerca delle pecorelle smarrite. Voglio essere trattato alla pari dei missionari.
A loro si permette di varcare gli oceani e di addentrarsi nella giungla. Nessuno per questo li accusa di spirito d’avventura.
A loro si permette anche di uccidere una tigre o un serpente che impedisce il cammino.
Nessuno li accusa di essere partiti per passione alla caccia. Ognuno sa che dietro all’oceano e alla giungla c’è un villaggio sperso dove anime lontane han bisogno del prete. Ecco perché il prete s’è fatto marinaio, esploratore, cacciatore.
Il Papa s’è fatto anche guerriero quando partiva contro i turchi con le navi. Perché i turchi devastavano il suo ovile. Impedivano il suo ministero in oriente, la sua preghiera al Sepolcro.
Ecco perché anch’io ho diritto di gridare contro il Baffi e il Governo.
Non per il pane che strappano al mio bambino.
Ma perché strappano il mio bambino dalle mie braccia.
E son sacerdote anche proprio in quest’atto. E non ho deviato dalla tradizione apostolica e pastorale. Perché ho in mano la Pisside sola. Non l’ho deposta sull’altare. Non ho deposto la tonaca per correre sulle barricate. Nelle mie mani consacrate ho solo i Sacramenti e coi piedi do una pedata a un ostacolo caduco che mi sbarra la strada.
E son sacerdote più io di te, che perdi il tempo a raccoglier ragazzi col pallone. Di te che t’abbassi a costruire un cine parrocchiale mentre il mondo va in fiamme. E nessuno ti dice nulla. E nessuno ti trova troppo umano. E nessuno osserva che i ragazzi a 15 anni ti van via per sempre e non li riafferri proprio negli anni più importanti della loro vita. E nessuno nota che non hai affrontato il problema centrale, che non hai adempiuto il tuo obbligo di portare i Sacramenti e il Vangelo agli adulti, ai lontani, ai nove decimi del tuo popolo. E nessuno trova a ridire se tu, che sei padre di 5.000 anime, ti dedichi a fare il catechismo a 100 vecchierelle e a curare il piccolo gregge dei sani che non han bisogno di medico, lasciando fuori i 4.900 abbandonati alla tempesta. E ognuno si contenta della tua povera scusa: «Non vengono, non ci posso far nulla, io son qui a attenderli, il catechismo lo insegno, se non vengono è colpa del comunismo».

E qui prevengo ancora un’ultima tua domanda.
Quella che a te pare conclusiva perché concreta. Mentre tutto quello che ho detto fin ora, che è solo precisazione di principi e di gerarchie di valori, non soddisfa la tua smania di «soluzioni».
Per me invece questa parte della lettera è quasi indifferente. La butto giù alla svelta, la riduco a tre proposte e fra queste non scelgo.
Fate voi cui importa.
Ciò che chiedo con passione è solo che poniate l’apostolato sacramentale e catechistico del Sacerdote nel posto che gli compete: indisturbato.

Prima proposta
Potrebb’esser quella di tornare al «non expedit». Ritirarci tutti, preti e laici, dal mondo col quale abbiamo compromesso noi, i nostri Sacramenti e la dottrina. Chiuderci nel segreto del nostro cuore in un esame di coscienza che duri almeno qualche decennio. Temprarci alle fonti della Grazia Riaprire e sviscerare ancora i Sacri Testi e le Encicliche. Pregare. Far penitenza del male che abbiamo fatto alla causa del Cristo e della Chiesa.
Domani il Cristo stesso risponderà coi fatti a questo nostro atto di fede. E il comunismo, se anche dovesse avanzare (ma non avanzerebbe certo tanto quanto sta avanzando ora: di questo sono sicuro) avanzi pure, tanto la nostra forza interna sarebbe tale da divorarlo, digerirlo, ributtarlo fuori rifatto a modo nostro. Come facemmo qualche secolo fa coi barbari, né più né meno.

Seconda proposta
Seguitare a comprometterci tutti, preti e laici, come abbiamo fatto finora.
Ma allora bisognerebbe farlo meglio. Meglio in una maniera tale che i politici e gli economisti e i comunisti stessi ci dessero di pazzi.
Buttar giù tutto. Eliminare il predominio del potere economico da qui a stasera. Sostituirlo col dominio di una legge morale che ponga i diritti di Dio e dell’uomo al disopra di ogni diritto terreno e neghi radicalmente il diritto di possedere se il possedere dell’uno dovesse sminuire il diritto di un altro alla vita o alla casa.
In una parola: essere coerenti fino in fondo ai principi della morale e delle Encicliche.
Ma questo dicono che è imprudente e impossibile. Dicono che gli ideali sono una cosa e la politica un’altra.
Io non vedo perché. Impossibile per un cristiano non è nulla. Neanche spostare le montagne. C’è scritto chiaro che bisogna cercare prima il Regno di Dio e la sua Giustizia e che tutto il resto (cioè le conseguenze, i pericoli, i danni) ci sarà rimediato dall’alto.
Soltanto questo è ciò che può dire un prete.
E se i politici cattolici non hanno fede né amore sufficienti per far così, si tolgano quel nome di cattolici e si contentino di quello più modesto di cittadini. E questa potrebbe essere la:

Terza proposta
Una precisa distinzione di incombenze tra preti e laici. E non solo di incombenze, ma anche di impostazione dei problemi.
Due pesi e due misure dunque? Sì certo. Come da secoli abbiamo fatto.
Un peso è quello del programma e deve essere altissimo, senza compreso neanche un solo peccato veniale. Altrimenti non c’è perdono
E l’altro peso è quello dopo il fatto. La misericordia immensa per l’uomo che è caduto, che non ha raggiunto l’ideale prefisso. Che s’è macchiato dei compromessi più innominabili, ma che è venuto a chiederne perdono, a chiedere la forza di ricominciare da capo e di far meglio.
I laici cattolici potrebbero dunque seguitare a occuparsi attivamente della città terrena (leggi umane, governi, elezioni, giornali...), ma a conto loro, come privati cittadini che cercano di avvicinarsi all’ideale cristiano e sanno di non riuscirci e non presumono di esserne l’incarnazione autorizzata.
Ma i preti abbiano un mondo loro inequivocabilmente distinto.
Abbiano giornali e discorsi da preti, completamente diversi da quegli altri.
Giornali e discorsi in cui l’ideale cristiano sia così alto e puro da non piegarsi mai alla ricerca terrena del «possibile», del «prudente», del «minor male», delle «esigenze della sana economia».
Le loro parole suonino tutte troppo lontane da questa terra. Così come è alto il dire: «Non commettere atti impuri» in un mondo che non ha nessuna intenzione di smettere di commetterne e molti.
Tanto alta e pura fu la parola di Cristo che gli uomini invece di costruire una città terrena come lui la voleva, lo abbandonarono e lo misero in croce. Nulla di ciò che il Cristo ha detto è realizzabile in questa terra su vasta scala. E la preghiera che ogni giorno diciamo parla di un Regno che dovremo sempre cercare, ma mai raggiungere se non in cielo.
Parli dunque pure il prete di governi e di politica, ma solo per criticarli.
Mostri al cristiano soltanto quanto lontano egli sia dall’ideale altissimo del cristianesimo e mai lodi le realizzazioni terrene dei cattolici che (se anche domani divenissero molto meglio di quel che tragicamente sono) saranno sempre orribili parodie dell’ideale.
E ora ho finito e ti saluto con affetto e spero che tutto sia chiarito e se non lo fosse scrivimi te o chiunque cui capitasse di legger questa lettera e non fosse d’accordo o volesse degli altri schiarimenti.


Don Lorenzo Milani
Esperienze pastorali, LEF, pp.443-471

Articolo tratto da:

FORUM (58) Koinonia

http://utenti.lycos.it/periodicokoinonia/



Lunedì, 11 giugno 2007