Lo schiudersi dei fiori del vuoto

Jiso Forzani


Conversazione a cura di Federico Battistutta

Una conversazione sul dialogo con la cultura buddista


E’ da poco in libreria il saggio I fiori del vuoto di Giuseppe Jiso Forzani edito da Bollati-Boringhieri. Si tratta di un saggio dedicato alla nascita e allo sviluppo della filosofia nella cultura giapponese. Si tratta di uno dei primissimi lavori sull’argomento pubblicati in Italia. Diversi sono gli spunti di riflessione presenti nel libro. Su alcune suggestioni scaturite da un prima lettura del volume ne abbiamo parlato direttamente con l’autore che in Giappone ha vissuto parecchi anni.

Nella premessa al volume presenti il tuo lavoro dedicato alla filosofia giapponese come un contributo volto “a riconoscere nell’altro un tu che dice ‘io’ in una maniera diversa”. Questa affermazione mi pare fondamentale per una corretta impostazione di ciò che sulla “Stella del Mattino” ci ostiniamo a chiamare dialogo religioso. Vi è il riconoscimento di una diversità e vi è pure la capacità di ascolto nei confronti di questa diversità, senza voler arrivare a una qualche conclusione che delinei uno schema rassicurante, sistemando le cose una volta per tutte, assegnando, ad esempio, alla cultura occidentale e a quella orientale, questa o quella peculiarità.

Da una lingua costitutivamente differente, come il giapponese, emerge un pensiero altro da quello nato nel bacino del Mediterraneo, che è un modo differente di interrogare e di problematizzare il proprio rapporto con la vita. A questo nudo dato di fatto il tuo libro ci invita a sostare.

Il gran parlare che si fa del dialogo, interculturale, interreligioso, interetnico, intergenerazionale, interpersonale …, oltre a denunciare la confusione che abita le nostre contemporanee squinternate società umane, serve nella maggioranza dei casi più che altro a mascherare l’incapacità e l’indisponibilità all’ascolto e all’attenzione sincera verso l’altro. I ripetuti inviti al dialogo, richiamandosi al buon senso e a sentimenti di generica quanto teorica tolleranza, sono quasi sempre petizioni di principio, che si basano su una visione edulcorata della realtà, su una concezione predeterminata dell’altro e su un’ipotesi consolatoria dell’incontro. Alla prova dei fatti, il dialogo è impresa difficile, sconcertante, rischiosa e nondimeno ineludibile. Ed è proprio da una ridefinizione di dialogo che bisognerebbe ripartire. Il dialogo non è un modo per ammansire l’alterità dell’altro, per farla in qualche modo rientrare in uno schema famigliare e rassicurante. Anzi: ha senso parlare di dialogo solo perché lo scandalo dell’altro, cioè il suo non essere commensurabile alle mie categorie, non è stemperato ma reso evidente e tangibile dall’incontro. Di fronte a questa alterità io posso reagire con il rifiuto, con l’indifferenza, con l’interesse. Il rifiuto è però un atteggiamento che alla lunga si rivela insostenibile, soprattutto nel mondo di oggi: io non posso eliminare tutto ciò che mi appare come alieno, perché è evidentemente una guerra persa in partenza – non riuscirò mai a conformare il mondo alla mia immagine e somiglianza, ma sarò costretto, magari poco a poco e insensibilmente, ad adattare la mia visione del mondo e di me stesso all’urto di una realtà diversa da come mi piace immaginarla. La miseria esistenziale e la misera fine dei totalitarismi del secolo scorso dimostra che l’umanità non è uni-formabile. L’indifferenza è altrettanto impraticabile: posso forse ignorare gli altri finché sono lontani da me, ma non posso ignorare il mio prossimo: e non posso non prendere atto che il mio prossimo, per vicino e parente che sia, è altro da me in maniera irrimediabile. “Ama il prossimo tuo come te stesso” è un’istanza che ha in quel “come” il suo punto saliente: un come ricco di significati, il primo dei quali è che il mio prossimo non è me e mai lo sarà. E non di meno è prossimo, così vicino da essere tangente. L’interesse dunque è l’unico atteggiamento ragionevole: sia nel senso che è nel mio interesse interagire nel modo migliore con l’altro, visto che non lo posso né eliminare né ignorare né rendere uguale a me, sia nel senso che interessandomi all’altro mi occupo anche di me stesso: inter-esse, è la reciprocità dell’essere. L’essere-io non può prescindere dall’essere-tu. E’ dal contatto con l’irriducibile alterità dell’altro che mi rendo conto che io stesso non sono esattamente quello che credevo di essere. Qui il discorso si fa ampio, ma basta rilevare che l’altro mi fa notare di me cose che da solo non sarei in grado di vedere: il suo sguardo “diverso” getta luce là dove il mio sguardo auto osservante non arriva. Mi accorgo così che “altro” non è solo il tu che incontro, ma anche ciò che ho sempre chiamato io, e che non è quell’identità monolitica che credevo fosse prima di confrontarmi con la visione che tu hai di me. L’incontro con l’altro altera anche la mia comprensione di me stesso e mi obbliga a interrogarmi su io. C’è dunque un dialogo rivolto all’esterno che procede di pari passo con un dialogo interiore. Il “come” della frase biblica ed evangelica indica qui il doppio senso di circolazione dell’amore: posso amare il prossimo come amo me perché anche io sono prossimo a me stesso, e perché il prossimo è un tu che dice io a modo suo. L’unico dialogo degno di questo nome trae da qui la sua linfa: dal coesistere di identità e alterità in entrambi i soggetti dialoganti: un dialogo fra soggetti in cui nessuno ha l’esclusività né dell’io né del tu. Qui comincia un’avventura che non finisce mai: bisogna però far attenzione che non si areni in un duplice monologo o in una parodia di dialogo che è solo un gioco delle parti truccato.      

Il libro si occupa di filosofia e di religione. Vi sono praticanti che percepiscono la ricerca intellettuale come una diversione da una retta pratica spirituale: facezie da intellettuali, appunto, o giù di lì. Viceversa per molti studiosi il cammino religioso stesso è una diversione da una investigazione altrettanto retta che non si deve arrestare dinanzi a supposti principi o dogmi religiosi che garantirebbero ai praticanti una qualche forma di salvezza. Quello che appare in effetti difficile, divenendo al contempo una bella prova, è proprio questo lavoro, un po’ da equilibristi, che consente di procedere lungo il cammino, attenti a non cedere alle lusinghe (o alle denigrazioni) provenienti dagli opposti versanti.

Lungi da me rimpiangere i bei tempi andati, che probabilmente appaiono belli proprio perché sono andati, ma non posso esimermi dal pensare che ci furono (e ci sono) tempi e luoghi in cui la distinzione fra filosofia e religione non era così netta come oggi sembra apparire. Certo, se per filosofia intendiamo un solo modello di pensiero, identificato dal logos greco, che poco a poco separa il mito dalla storia, e adibisce il pensiero logico a unico strumento degno di indagare il reale,  allora la frattura fra religione e filosofia è latente e non può che divenire un solco invalicabile. Dividere gli ambiti è un’operazione strumentalmente molto utile, in determinate circostanze necessaria, ma la realtà non è schematica e non si lascia dividere a spicchi. Io credo che l’uomo abbia in sé varie nature (se mi si passa il termine) differenti, che costituiscono la sua complessità e che non sono settori incomunicabili e immobili, ma si sovrappongono fra loro come figure geometriche in movimento al loro interno e fra loro. C’è in ognuno di noi un homo philosophicus, un homo religiosus, un homo ludicus, un homo matematicus, un homo eroticus…. Gli ambiti non sono definiti in modo rigido, in qualcuno una natura ha più spazio che in altri, ma nessuno è monocromo o unidimensionale. L’uomo a una dimensione non è reale né idealmente desiderabile, continua ad essere più un incubo che un sogno. E non è solo questione di ambiti, per cui quando metto in funzione l’intelletto e la razionalità per indagare il reale o per interrogarmi sono homo philosophicus mentre quando mi apro al mistero o riconosco l’istanza della fede, sono homo religiosus. All’interno di ogni ambito sono contenuti anche gli altri: così c’è una religiosità nella filosofia, e una filosoficità nella religione. Socrate non dimentica il gallo per Esculapio, Agostino confessa a Dio il proprio filosofico meditare. La dicotomia fede e ragione è un gioco di specchi che produce o la tirannia della fede o l’idolatria della ragione. Qualunque persona davvero ragionevole sa che la fede (che non è la credenza né implica di per sé alcuna trascendenza) è un’istanza che ogni essere umano scopre nel suo rapporto con la vita (che sia alimentata da una rivelazione o dall’umana ricerca) e qualunque persona davvero religiosa sa quali abissi dischiude negare libertà alla ragione. Ognuno di noi tiene insieme fede e ragione, e non c’è bisogno di nessuna teologia che lo giustifichi.

Oltretutto, per tornare ai termini della tua domanda, la ricerca intellettuale fine a se stessa può sì inorgoglire stupidamente l’uomo e rinchiuderlo in un delirio autoreferenziale, ma una pratica spirituale basata su dogmi indiscutibili non è da meno, anzi. Mentre una ricerca intellettuale aperta e senza pregiudizi è già una specie di pratica religiosa, così come una pratica religiosa fondata sulla gratuità è una forma di nutrimento intellettuale.

Il problema, difficile e affascinante, è riconoscere la non alienazione di ragione e fede e nello stesso tempo non equivocare, non chiamare una cosa col nome di un’altra. I danni peggiori si fanno quando si pretende di mettere la ragione al servizio della fede o la fede al servizio della ragione. Ciascuna serve se stessa, ed entrambe servono l’uomo: la mano destra non è al servizio della sinistra o viceversa, né l’una può sostituirsi all’altra. Il discorso comunque è assai complesso e merita approfondimenti ben più articolati. Non penso dunque di cavarmela con qualche aforisma, ma nello stesso tempo per ora mi fermerei qui, ringraziandoti per aver sollevato il problema e rimandando a auspicabili ulteriori confronti sul tema. 

Una domanda più specifica, ora. Nella parte centrale del libro, dedicata al periodo di Kamakura (1185-1333), riferendoti ad autori quali Shinran, Nichiren e Dogen affermi che l’insegnamento di tutti e tre si caratterizza fortemente per l’enfasi assegnata a una specifica pratica religiosa. Poco prima, parlando proprio della pratica del nenbutsu propugnata da parte di Shinran, ti soffermi su alcune aporie rinvenibili a tuo parere nel pensiero di questa importante figura, giungendo a sostenere che la reiterazione di tale pratica può apparire come una sorta di escamotage psicologico. Dici più o meno così: se la si vuole considerare come una prova dell’abbandono fiducioso da parte del praticante, tale pratica rischia comunque di ingenerare uno stato psicologico di incertezza continua, che pare francamente arduo identificare con la salvezza stessa. La mia domanda, un po’ provocatoria, è la seguente: potremmo estendere queste osservazioni e riferirle anche alla pratica dello zazen propugnata da Dogen?

Una pratica religiosa implica quella che in termini di logica possiamo chiamare aporia, contraddizione implicita. Considero la pratica religiosa, qualunque essa sia, un atto della fede: e considero la fede un moto dell’animo che non dipende dalla verifica – d’altro canto la pratica religiosa è esattamente la verifica (l’inveramento, l’attualizzazione) della fede. Questa dialettica contraddittoria fra non verificabilità e verifica è l’aporia insita di cui stiamo parlando. La persona che si affida a una pratica religiosa vede la contraddizione, se non è accecato dalla fede che allora rischia di degenerare in superstiziosa credenza, ma non la considera vanificante bensì costitutiva. Chi invece osserva una pratica religiosa dall’esterno, perché essa non lo coinvolge esistenzialmente, può ben pensare che la contraddizione sia esiziale. Faccio un esempio, per cercare di spiegarmi meglio. Paolo di Tarso così si esprime nella prima Lettera ai Corinti: “[…] se Cristo non è risorto, è vana la vostra fede” (1Cor. 15,17). Penso che per un cristiano che si riconosce nell’impostazione paolina (il che non è forse rigorosamente necessario per essere cristiani) la fede nella risurrezione di Cristo sia non solo un’istanza di fede ma una vera e propria pratica religiosa, nel senso che tutta la vita (i gesti, le parole, i pensieri) sono improntati a quell’atto di fede: per cui se ciò che sostiene quella fede venisse meno, tutto crollerebbe. Per me, che non credo nella risurrezione di Cristo come atto fondativo della mia prassi di vita e della mia prospettiva di morte, quel modo di dire rivela una debolezza intrinseca, quella che chiamo un’aporia: che fede è mai quella che si basa su un se, che potrebbe essere smentita dal verificarsi o meno di un accadimento, comunque si intenda il significato di risurrezione? Nello stesso tempo comprendo benissimo che vista dall’interno la cosa è del tutto diversa. Se Cristo è la mia vita (“non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me”, Galati 2,20) la risurrezione di Cristo è la mia risurrezione, la dimensione eterna della mia vita verificata nel tempo. Dunque la risurrezione di Cristo è determinante per la mia fede, e portare il discorso fino al limite della vanificazione, fino al rischio del non senso, è il gioco della religione: non ci si accontenta di una credenza consolatoria, bisogna andare fin là dove si rischia di perdere tutto, anzi, bisogna perdere tutto. La fede non ha punto di appoggio se non se stessa: ciò che chiamiamo fede e verifica sono due nomi della stessa cosa. Per cui, se fossi Paolo di Tarso aggiungerei: se Cristo non risorge dai morti la nostra fede è vana, ma è proprio quando la nostra fede si rivela vana che la fede di Cristo si rivela. Ma non sono Paolo.

Dogen parla di shojo no shu, che traduciamo con pratica a partire dalla verifica. Per Dogen questo è zazen, quella posizione in cui fede nella pratica e pratica della fede si fondono, e questa è la verifica. La quale non è tale perché si producono dei risultati sperati, ma per una conferma che si rigenera volta per volta. Dogen afferma che zazen “è la porta reale della pace e della gioia, è la pratica del risveglio che esaurisce l’essenza della via” (Fukanzazengi). Sedersi in zazen implica la fede che così sia, e l’impegno a verificarlo, a renderlo vero né più né meno che sedendosi così: dunque non cercando null’altro all’infuori del sedersi così. Visto da fuori può sembrare autoconvincimento; visto da dentro è fede verificata in pratica. In un altro testo Dogen taglia corto: “[…] alla domanda: “Perché sedersi?” non vi è altro modo di rispondere che così va fatto []. Insomma se non si fa zazen non si può comprenderlo e, senza fare zazen, non ha senso chiedere il perché del farlo” (Bendowa). Il rischio della tautologia è evidente, e non deve essere ignorato: ma qui sta la forza e la debolezza della religione. Il senso di sottolineare le aporie non è quello di una critica volta a smascherare il trucco religioso, ma di stimolo intellettuale a far sì che la religione non diventi un trucco da illusionisti. Qui l’incontro con l’altro, che non condivide il mio credo ma riconosce l’istanza di fede, è molto importante. E’ come un amico che viene a trovarmi a casa mia, e mi chiede di spiegargli come mai ho disposto le stanze, i mobili, le suppellettili… in quel particolar modo, per abitare lì. Quella continua a essere casa mia, e sono io e non lui che la abito, ma sentire come lui, per il quale è solo una casa e non il suo habitat, la vede e la racconta, mi aiuta a dissipare il velo dell’abitudine, e a guardare con novità all’ambiente che rischia di diventarmi troppo famigliare.

Da:

“La Stella del Mattino” – laboratorio trimestrale per il dialogo religioso

www.lastelladelmattino.org/rivista



Giovedì, 31 gennaio 2008