La scatola tonta

di Barbara Spinelli (La Stampa, 23.10.2005)

Quando la classe politica s’azzuffa sullo show di Celentano, e c’è chi trova uno scandalo davvero immenso aver permesso che la trasmissione avesse luogo, mentre altri invece inneggiano alla Rai che ha dimostrato di esser «straordinariamente libera» visto che ha consentito in prima serata d’attaccare il presidente del Consiglio. Quando pagine e pagine dei quotidiani s’avventano come mute sull’avvenimento, lo guatano prima e lo rosicano dopo, quasi che la verità di noi tutti e del mondo e della politica fosse interamente lì, condensata in quelle ore che giovedì hanno visto il Molleggiato giocare e cantare, monologare fra sé e parlare ai politici, ridere e irridere, dividere l’umanità in bello e brutto, lento e rock. Quando uno show di questo tipo supera il mero Fatto e si trasforma in Evento che promette sommovimenti elettorali, addirittura storici: allora vuol dire che qualcosa è leggermente andato storto, in Italia dove la televisione pareva fosse un docile strumento in mano ai politici. È come se questi ultimi avessero fabbricato un Golem, che ora inghiotte i propri demiurghi. Come se il mezzo televisivo avesse trovato il modo di trasformare i politici in propri pupazzi, e dicesse a ciascuno di noi: ecco come sta il mondo in cui vivete, ecco com’è fatto, divertitevi e sollazzatevi perché qui è tutta la sua verità e dicendovela siamo la televisione più libera del mondo. Giancarlo Dotto su queste colonne ha espresso bene il suo disagio, ieri: «I politici credono di usare il (Grande) Casino ed è invece il Casino che usa loro. Li usa e li getta. Se da Vespa ci sono Buttiglione e Valeria Marini, è Buttiglione che diventa un po’ Marini e non viceversa».

Ma il Grande Casino non si limita a usare e gettare i politici, dopo esser stato inventato e usato da uno di loro - Berlusconi - che in politica è entrato senza smettere il mestiere di magnate televisivo. Il Grande Casino è uno spazio singolarissimo perché solo apparentemente aperto, imprevedibile, dunque incasinato. In effetti è chiuso, soffocante, la luce che emana oscura la vista, il suo orizzonte è l’orizzonte d’uno scantinato. Esistono trucchi scenici siffatti, Kafka li descrive nei suoi Diari con precisione: «Il palcoscenico non è affatto buio, è inondato dalla luce del giorno. Perciò gli uomini chiudono gli occhi e vedono così poco».

In realtà il Grande Casino è una sorta di gabbia-Colosseo, dentro cui si vorrebbero mettere non solo gli italiani ma l’umanità che li circonda, e questa gabbia è per i politici una soluzione ideale, un ordine travestito da disordine. Il giorno dopo lo show parleranno tutti di quel che è avvenuto dentro la gabbia, come se questo fosse l’universo reale nella sua completezza. Diranno che è stata fatta luce, quando al contrario si è fatto buio. Si chiederanno l’un l’altro se Celentano sia grandioso o non grandioso, rock o lento, e dimenticheranno quel che nei fatti sta accadendo, fuori dal Colosseo: una costituzione che viene radicalmente riscritta senza che tra maggioranza e opposizione esista il benché minimo accordo; una pandemia alle porte di cui tanti hanno paura perché l’Italia non è rifornita come la Francia di anti-virali; una mafia che imperterrita lavora con e per i politici, come se Falcone e Borsellino non fossero vissuti; un dramma dell’immigrazione che vien lasciato incancrenire dal governo. Vedranno anche quel che il centrodestra non riesce a fare, nonostante possieda le tv: evitare che quattro milioni e mezzo di italiani - indifferenti a quel che la televisione dice o tace - vadano a votare alle primarie della sinistra e scelgano Prodi come candidato premier. Il Grande Casino Tv è pur sempre ambiguo: permette ai politici di sopravvivere come conventicola chiusa, ma può divenire una benda che acceca.

La televisione infatti non è solo Guy Debord, anche se in larga misura è manipolata nei modi descritti da Debord: non è solo «un’immensa accumulazione di spettacoli, dentro i quali tutto quello che è direttamente visto viene allontanato in una rappresentazione». Sull’orlo di show come quello di Celentano si aprono baratri che racchiudono frammenti di verità, e può capitare che televisione e radio li portino alla luce. Chi immagina un’altra televisione e un modo di far politica che tenga conto del reale ha forse visto ieri sera sulla Sette il documentario di Roberto Burchielli e Mauro Parissone sul centro accoglienza profughi a Lampedusa. Il documentario s’intitola Così è la vita - Gli ultimi giorni di Lampedusa, e fa vedere eventi di cui i politici non parlano, anche quando giornalisti di grande mestiere come Fabrizio Gatti, che si è finto clandestino a Lampedusa, li ha descritti dettagliatamente sull’Espresso: fa vedere la degenerazione del centro di permanenza temporanea (Cpt) in una sorta di prigione isolana. Conferma che c’è stata una decisione governativa di svuotare il centro, di ripulirlo e lasciarvi solo undici clandestini, per non sfigurare davanti a una commissione di europarlamentari venuti il 15 settembre per un’ispezione. Filma il leghista Borghezio (lo stesso che ha parlato del campo come di un «hotel a cinque stelle») nel momento in cui predispone l’immonda sceneggiata e si lamenta dell’Europa «che abbiamo sempre tra i coglioni». Intanto centinaia di profughi sottratti allo sguardo dei parlamentari sono imbarcati per non si sa dove, in fila e ammanettati quasi fossero terroristi.

Abbiamo l’inferno alle porte e anche le speranze, e non è sempre la televisione a nasconderlo ma i tanti politici che vorrebbero imperasse solo il regno dello show, della satira addomesticata. Che son costretti a parlare di quel che esiste al di là dello show solo quando non possono far altro: come dopo l’ultima trasmissione di Tv7, venerdì, quando si son trovati alle prese con le dichiarazioni del nuovo procuratore antimafia Pietro Grasso, su Provenzano imprendibile da decenni perché protetto «da intere fasce sociali: rappresentanti delle professioni, politici, imprenditori, forze di polizia». Meglio parlare di Celentano - e fingere che metà Italia sia appesa a lui per il solo fatto che l’ha guardato - piuttosto che curarsi di altre cose che la televisione trasmette o potrebbe trasmettere. Tutto quel che Santoro ha avuto da dire nel programma di Celentano è stato: «Rivoglio il mio microfono». Si può capire la delusione di Milena Gabanelli, direttrice della trasmissione Report intervistata su La Stampa: se questo è il messaggio di un giornalista televisivo che dopo esser stato cacciato da Berlusconi si fece eleggere al Parlamento europeo, allora c’è poco da sperare in una politica che abbia un rapporto non più succube con la Tv. Allora la gente penserà che «si diventa politici di professione quando non si ha meglio da fare».

Questo è il tremendo che accade sui bordi poco illuminati della Tv-Colosseo: un tremendo che i politici vedono poco, presi come sono da trasmissioni che paiono inondate dalla luce e null’altro sono se non lo specchio dei loro clan. Eppure ce ne sarebbero di cose da fare, se si mettessero a guardare il reale senza sognare d’agguantare microfoni. Servirebbe molto, oggi, la politica: a reinventare l’Europa, a ripensare l’immigrazione e l’Islam, ad aggiustare perfino la costituzione, ma dedicando a questi compiti tempo, ostinato senso del servizio, volontà di costruire il nuovo come si costruì dopo il fascismo, mettendo d’accordo forze avversarie anche se antifasciste. Invece i governanti son lì, loro sì appesi a Celentano. Non è un casino. È il salotto romano in cui tutti si trovano e son complici: politici, giornalisti, saltimbanchi. È il salotto dove ci si divide tra chi è dentro e chi fuori, chi è simpatico e chi no, chi veste in un modo e chi in un altro, chi è lento e chi rock. Queste divisioni sono molto italiane, molto conformiste, e letali per il pensiero perché sistematicamente emarginano i non classificabili, i non trasformisti. Bertinotti che sfoga non si sa quale collera civile invitando a non nominare Marco Travaglio («Solo a sentire il suo nome mi viene l’orticaria. I moralisti danneggiano la sinistra», Corriere della Sera 5-10) è complice di questa mondanità che corrode la politica e le alternanze. È usato dalla televisione-show (gli spagnoli hanno un nome che la descrive perfettamente: Scatola Tonta) e la usa nel peggiore del modi.

La grande Scatola Tonta è il salotto che prende il potere e lo esercita sulle masse. Oggi è Santoro a frequentare Celentano, ma Berlusconi magari lo frequenterà domani, per difendere in una Rai «così straordinariamente libera» (le parole sono del presidente della Camera Casini) una sua legge sugli spot elettorali che abolirà la par condicio. Tutto sta a non andare oltre l’orlo dello show (dove si parla di politici mafiosi o di Lampedusa), perché lì il politico rischia tutto: di divenire grande veramente, o di rovinarsi. Sull’orlo dello show comincia il mondo come lo viviamo, ignorato dai salotti. Al massimo questi ultimi meditano su come spartire le future televisioni, dimenticando lo scandalo del doppio monopolio, privato e pubblico, esercitato da Berlusconi. Ai salotti fa venire l’orticaria anche quest’ultima verità: così scomoda, così ossessivamente ripetuta dai moralisti, così poco simpatica e poco rock.



Venerdì, 04 novembre 2005