Recensione
Un miracolo a Baghdad: il libro (e il sogno) di Hamza Piccardo

Riprendiamo questa recensione dal sito http://blog.panorama.it/


Giovedì 17 Aprile 2008 alle 12:47
Nell’Iraq della guerra e del terrorismo, un derviscio italiano riesce a mettere in atto una missione diplomatica eroica: convincere alla pace tutti gli iracheni. A sponsorizzare l’operazione sono Nasrallah e Chavez, Mandela e Al Qaradawi, i Fratelli Musulmani e il Governo turco. Grazie al loro contributo il Paese mediorientale può finalmente dirsi un’isola di concordia nella regione. Un miracolo? Sì. Infatti s’intitola Miracolo a Baghdad (Edizioni Al Hikma http://www.islam-online.it/, Imperia) il libro scritto da Hamza Roberto Piccardo (segretario nazionale dell’UCOII http://www.islam-ucoii.it/) per raccontare il sogno di un accordo interconfessionale e interetnico nel martoriato Iraq.
Il libro è corredato da due scritti di Franco Cardini e di Tariq Ramadan che Panorama.it mette on line per i lettori.


Riportiamo di seguito I TESTI: Una testimonianza, di Franco Cardini - Un racconto, una visione, di Tariq Ramadan


“Una testimonianza”
di Franco Cardini
Venerdì 4 Aprile 2008 alle 12:34
Introduzione di Franco Cardini al libro Miracolo a Baghdad (Edizioni Al Hikma, Imperia), di Hamza Roberto Piccardo

Il sistema del “Pensiero Unico” è molto ben congegnato. Esso si fonda, tra l’altro, su una vasta e ben articolata rete di organi mediatici bipartisan, i dirigenti dei quali sono indefessamente fedeli al principio che chi gestisce le informazioni per un organo di stampa, una rete televisiva o un sito informatico non deve per nulla sentirsi al servizio della verità obiettiva - che peraltro notoriamente non esiste -; e tantomeno del pubblico. Sentirsi tale sarebbe una patetica, ingenua superstizione veterogiornalistica, alla Montanelli.
Il comunicatore e l’opinion maker postmoderni e postdemocratici sono al servizio di chi li ha messi dove sono e di chi li paga, di chi li controlla, di chi decide della loro carriera. Altra caratteristica di questa sezione dell’alquanto orwelliano Ministero dell’Informazione Corretta (MIC) che ci controlla è che le idee altrui, quando non ci convengono e/o non ci piacciono, non vanno affatto né discusse né contestate in alcun modo, specie poi quando si sia ben consci della loro fondatezza: dinanzi ad esse, ci si comporta o ignorandole e abbuiandole quanto prima e meglio si possa, oppure apoditticamente distorcendole, calunniandole demonizzandole. In questo secondo caso, si adotta l’efficace mantra scomunicatorio scandito in tre parole magiche: “anti-americano-antisionista-antisemita”. Il trinomio è sentito come inscindibile, connesso a una stretta logica di tipo trinitario: non si può esser definiti secondo una di queste tre qualità senza accedere automa-ticamente alle altre due. E di solito non c’è bisogno né di prove, né di testimoni. Il MIC ha fatto proprio, parafrasandolo, un alato detto che si dice fosse proprio del Reichsmarschall Goering, il quale usava affermare, a quanto sembra, “Decido io chi è ebreo”. Ebbene, il MIC decide, appunto, che chiunque non sia d’accordo per esempio con la politica del signor Bush è “antiamericano” (dal che si deduca che parecchi milioni di cittadini statunitensi sono tali), e quindi tutto il resto. Il MIC è ottimo allievo dei Mae-stri Inquisitori descritti nel romanzo di Volkoff, Il Montaggio. Peccato soltanto che i modelli totalitari - nazista e bolscevico - or ora rievocati a spiegar la metodologia del MIC ostino con i suoi alti e fermi convincimenti liberal-democratici: ma tant’è.
Hamza Roberto Piccardo è abitualmente oggetto delle attenzioni del MIC: il quale, quando proprio non può ignorarlo, regolarmente lo gratifica del succitato mantra tripartito. E naturalmente, dal momento che la sostanza del mantra è fortemente contagiosa, tutti sono avvertiti: il MIC accomunerà alla scomunica lanciata contro Piccardo chiunque lo avvicini, lo frequenti, accetti di dialogare con lui: e sarà irrilevante se in accordo totale, o parziale, o anche in disaccordo.
Pazienza. Darwish significa in persiano quel che significa Faqir in arabo: cioè “povero”. I dervisci sono dei “poveri di Dio”. Il mio cattolicesimo è troppo radicato nell’insegnamento di Francesco d’Assisi per consentirmi di non lasciarmi attrarre da un discorso sui Poveri di Dio. Ho letto con interesse, un paio d’anni fa, Il Puzzle del Derviscio. Ne ho apprezzato il taglio visionario, rapsodico, quasi da “montaggio” cinematografico; non potrei affermare di sentirmi d’accordo con tutto quel che il messaggio sotteso a quelle pagine esprimeva e da quel che lasciava inten-dere. Ma una cosa mi ha catturato e convinto: il fer-mo, chiaro, alto anelito di giustizia che da esso promanava. E che non riguardava affatto solo le genti arabe, o il mondo musulmano, e nemmeno in linea generale i soli popoli oppressi, quelli la fame e la sete di giustizia dei quali si va drammaticamente traducendo, proprio in questi mesi e sotto i nostri occhi, in una sete vera anche sotto il profilo mate-riale, drammatica, disperata.
La sete dell’acqua, proprio dell’elemento acqueo, di sòr’acqua “utile, umile, pretiosa et casta” come la chiamava Francesco d’Assisi: dell’”oro blu” che i Padroni e i Datori di Lavoro dai quali il MIC fedelmente dipende vorrebbero privatizzare e tra-sformare da “diritto” di tutti in “servizio” che si pa-ga. Quello che da Il Puzzle del Derviscio promana è sogno che coinvolge tutti i mustadaifun del mondo, senza escluderne nessuno.
Ho ritrovato questa tensione, quest’afflato vibran-te, nel Miracolo a Baghdad. Hamza Roberto Piccardo descrive un cammino ruotante e avvolgente di pace e di solidarietà, davvero simile alla danza dei dervisci mewlevi: una marea di pace e di libertà che avanza con un ritmo incalzante e travolgente ma al tempo stesso pacifico, un ritmo che ricorda da vicino le marce ghandiane, con quelle folle serrate dietro i passi del Mahathma che le incitava a raccogliere il lo-ro sale, a tessere i loro abiti, a riprendersi la loro vita.
Il progetto del Derviscio ha un fine e una parola d’ordine: Wa la fitna wa la thaar: “No alla guerra civile, no alla vendetta”. Ma può esistere una guerra tra esseri umani che non sia in realtà una fitna, una guerra fratricida? Le guerre si fanno sempre e comunque tra fratelli, perché tali siamo noi appa-tenenti al genere umano; e, come ebbe ad affermare lucidamente Pio XII, le perdono tutti; con la guerra tutto va distrutto, con la pace tutto può essere guada-gnato e salvato. Ma la pace che non può mai prescin-dere dalla giustizia: e bisogna trovarla dentro di noi e imporla a noi stessi, prima di cercar di proporla e di estenderla agli altri; o - peggio - prima di preten-derla da loro. Come nel noto hadith del Profeta, l’unico vero grande jihad da combattere e da vincere è sempre quello, al-jihadul al-akbar, la lotta interiore contro noi stessi. Chi trionfa su se stesso, non ha più nemici e si scopre libero dal desiderio di annientarli o anche solo di batterli. Solo l’amore è la vera arma invincibile.
E’ un romanzo, o una traccia di romanzo, questa di Piccardo? E, se lo è, si tratta di un romanzo fanta-politico? E, se non lo è, va considerato alla stregua di quella che, nella letteratura mistica medievale, avreb-be potuto essere una visio, un songe? E, in ogni caso, dov’è che l’aspetto “profetico” di questo racconto-visione tocca davvero temi e problemi effettivi, reali, segnala pericoli concreti (primo fra tutti un possibile, e non poi troppo improbabile, futuro riassetto defi-nitorio dei “confini” di quel Vicino Oriente che già, all’indomani della prima guerra mondiale - con quella pace che, com’è stato detto, “era fatta apposta per farla finita una volta per tutte con la pace”-, ne ha già ricevuti alcuni iniqui o sbagliati), formula proposte e diagnosi sotto forma di racconto alternativo?
Questo è uno scritto intenso, pieno di rabbia ep-pure d’amore, che denunzia ma anche esorta: un pa-radosso allarmante e al tempo stesso pieno di spe-ranza, che obbliga a pensare. Piccardo ci mette di-nanzi all’altra faccia della luna, a sentimenti e a prospettive cui non siamo abituati, a possibilità re-mote e ardue a realizzarsi, e che se si realizzassero si rivelerebbero magari irte di pericoli e d’infinite for-me di “eterogenesi dei fini”. Eppure, la sua provo-cazione finisce col raggiungere il segno. A volte, die-tro a certi personaggi “inventati”, “di fantasia”, po-trebbe sembrar di veder balenare qualche profilo noto, familiare. Ma non c’illudiamo: non è l’apologo realistico la chiave giusta per cogliere il senso della proposta che nasce da questo libro. Si volta la pagina, si cambia scena e di nuovo ci sentiamo sospinti in alto mare: il senso dell’apologo ci sfugge, quel che sembrava allusione trasparente si rivela al contrario metafora complessa, allegoria elaborata, Atalanta fugiens. Eppure, in fondo, non c’è modo di sbagliarsi. Le indicazioni qui contenute, nascoste sotto il velame del racconto fantastico, approdano a un assunto chia-ro a intendersi da parte di chi ha orecchie appunto per intendere. Personalmente ritengo che il lavoro di Piccardo contenga anche un’allusione velata ma ben presente a una stessa auspicabile positiva evoluzione dei rapporti del mondo arabo e musulmano con Israele. E’ recente l’iniziativa di pace proposta dall’Arabia Saudita: pieno ed esplicito riconoscimen-to dello stato d’Israele in cambio della liberazione dei “Territori occupati” e quindi del definitivo avvìo di uno stato indipendente palestinese. Nell’opinione pubblica israeliana, accanto a indubbi elementi che fanno pensare alla difficoltà nell’accoglimento d’una proposta del genere, esistono anche segnali non solo di distensione, ma anche e soprattutto d’una diffusa e ben comprensibile stanchezza per un ormai troppo lungo e intollerabile stato d’insicurezza e di violenza. Non è il popolo d’Israele che preme per il mante-nimento dell’occupazione dei Territori: sono semmai - com’è stato richiamato anche dal libro di John Mearsheimer e di Stephen Walt - le lobbies ame-ricane, che non solo tutte e soltanto sostenute da ebrei della diaspora bensì anche da fondamentalisti cristiani che nello stato d’Israele vedono l’adempiersi delle profezie apocalittiche. L’abbandono di queste forme di fanatismo sarà un segno, se e quando si verificherà, dell’auspicabile vittoria da una parte e dall’altra degli uomini di buona volontà, degli autentici costruttori di pace. Insomma, lettore, de nobis fabula narratur. Questo libro è una sfida che va raccolta.

“Un racconto, una visione”
, di Tariq Ramadan
Giovedì 3 Aprile 2008 alle 12:42
Il testo integrale dell’introduzione di Tariq Ramadan al libro di Hamza Roberto Piccardo “Miracolo a Baghdad” (Edizioni Al Hikma, Imperia)
Questo testo è un’opera della fantasia solcata da nomi, fatti e perfino situazioni che hanno un legame con la realtà. In fondo è un’opera emblematica della personalità del mio amico e fratello Hamza Piccardo. Un raffinato senso del reale, un’intuizione e un coraggio politico ben noti e, al contempo, un amore dell’immaginario, della poesia, dell’arte. Una perso-na di cuore e di ragione, di fede e fantasia.
Nelle pagine che seguono, Hamza Piccardo mescola in maniera intelligente e spesso sottile le ri-flessioni sul reale e le proiezioni di quel che si riferisce ad un’altra Storia, a una speranza, a un mi-racolo…in questi tempi desolati e oscuri in cui l’or-rore si è abbattuto e quotidianamente si abbatte su tanti popoli, dalla Palestina alla Cecenia, all’Afghanistan, all’Iraq…sperare in un miracolo, nell’uscita dalle tenebre, un miracolo a Baghdad.
L’autore di questo testo, articolato in corte sequen-ze, fa entrare il lettore nell’universo della psicologia collettiva musulmana, del suo modo di parlare, di comunicare, di reagire. Gli episodi sono talvolta fondati su fatti, con personaggi che hanno un’in-fluenza reale sulle questioni in gioco, tal altra sono finzioni che veicolano analisi e prese di posizione politiche e un particolare senso della fede, della resi-stenza e della dignità umana. In conclusione l’in-contro tra lo shaykh ash shuyukh (il sapiente dei sa-pienti musulmani) con Mandela, chiude il percorso e l’iniziazione del Derviscio verso la pace. La pace in Iraq è una ricerca come l’iniziazione mistica (sufi) è una ricerca della pace.
Tutti questi episodi suggeriscono all’intelligenza e al cuore il senso della complessità del mondo: tutto è collegato. Da Roma al Cairo, da Istanbul a Baghad passando per Falluja, Beirut o Gaza… gli universi s’incontrano, si riflettono l’uno nell’altro, si contrap-pongono ma la speranza è unica come è comune la resistenza. La comunità spirituale musulmana è una (al umma al wahida) mentre le circostanze e le resistenze sono molteplici e vanno al di là delle sue frontiere. In questa novella della realtà fantastica, vediamo comparire, senza una vera forzatura, le figure de vecchio Castro o del bollente Chavez de-ciso a resistere alla politica disastrosa degli Stati Uniti. Nell’universo fantastico di Hamza Piccardo le voci si fan echi.
Questo romanzo breve gli si confà, davvero proviene dal suo spirito vivace e dal suo cuore aperto e intenerito. La rivolta che si leva contro le ingiu-stizie non ha altra ragion d’essere che per mezzo e per il fine dell’amore… di Dio, della giustizia e della pace.
I dibattiti della gente, le mene politiche, le picco-lezze, le vicende di ego, di potere e di denaro di-struggono gli esseri umani e la vita. La loro comples-sità, che esigerebbe un approccio umile, tende invece a far perdere la semplicità e a perdersi. Leggendo questo romanzo breve, ho spesso sorriso della tea-tralizzazione, degli accadimenti raccontati, talvolta veri, tal altra romanzati, tal altra ancora scientemente dissimulati per le esigenze del racconto e della speranza da proteggere.
Hamza Piccardo ha questo spirito fervido, libero quanto impegnato. E’ per me un onore scrivere que-ste poche righe di prefazione alla storia di un “Miracolo a Baghdad”. Mio fratello e mio amico da molti anni, con cui condivido nel reale la stessa esi-genza di amore e la stessa speranza di pace. Le pagine che seguono estrinsecano un vissuto, una sensibilità, anche dei dolori, delle esperienze penose e, sempre, lo sforzo (il jihad) di ricominciare ogni volta, di non fermarsi, di non tradire, di proteggere la fede, di amare, di resistere e di agire per il bene di tutte le creature.
In fondo è questo il senso del miracolo, il senso di queste pagine e di questa messa in scena. Il lettore musulmano capirà, quello che non lo è toccherà con mano un altro modo di vedere, di sentire… di pre-gare. L’universale non è nell’uniformità ma nell’ar-monia della diversità. Proprio così, l’universale è armonia. E’ un canto unico in una pluralità di note, la sinfonia della diversità che accomuna la voce dello shaykh musulmano a quella di Mandela, le molteplici resistenze per la stessa giustizia e la stessa speranza di pace. Il miracolo a Baghdad è anche la pace del cuore, la pace in Palestina, in Tibet, in tutto il mondo. Una pace che sottende la condizione della giustizia e l’imperativo del perdono. Un miracolo… in definitiva.
Che la Luce accompagni mio fratello, il mio amico, il mio compagno, che Essa lo ami e lo protegga… lui e tutti quelli che ama. Sono io, in fondo, e con molta umiltà che ti ringrazio. Dal fondo del mio cuore, e questo… è un altro miracolo della fede.



Venerdì, 18 aprile 2008