Novità in libreria
L’IMMORTALITÀ DELL’ANIMA,

di Elia Benamozegh, pagg. 226, euro 16,00


Edizioni La parola, Roma. Riportiamo l’introduzione di Marco Morselli


In questo libro prezioso, vero nutrimento per il ricercatore spirituale, il grande cabbalista maghrebino-livornese Elia Benamozegh (1823-1900) ci mostra il testo biblico come un magnifico tappeto di cui ordinariamente riusciamo a scorgere solo il rovescio, fitto intreccio di storie, ingiunzioni, insegnamenti, profezie: solo mettendo in risonanza i versetti intravediamo il disegno compiuto, l’immagine perfetta e intera, l’armonia umano-divina della Scrittura. L’autore ci accompagna con sapienza ed entusiasmo lungo i percorsi interni, intimi quasi, della Parola rivelata di Dio in un pellegrinaggio trasformante, esplorazione e iniziazione insieme.


Di seguito a bozza della copertina e l’introduzione del libro di Marco Morselli.



Introduzione

«Rivivranno i tuoi morti, i Miei caduti risorgeranno, si risveglieranno ed esulteranno coloro che giacciono nella polvere, perché rugiada di luci è la tua rugiada e la terra farà cadere le ombre» (Is 26,19).

«Rabbì Yaakov soleva dire: “Questo mondo somiglia a un vestibolo davanti al mondo che viene. Preparati nel vestibolo, affinché tu possa entrare nella sala del banchetto”» Pirqé Avot 4,21.

1. Nella Prefazione al volume Teologia dogmatica e apologetica,1Elia Benamozegh (Livorno 1823-1900) spiega che il libro costituisce la prima parte di un Corso di Teologia preparato per le sue lezioni al «Collegio Rabbinico» di Livorno. Il volume avrebbe dovuto essere completato da altre due parti riguardanti gli Attributi divini e la Provvidenza, i volumi successivi avrebbero trattato la Rivelazione, la Tradizione, l’Immortalità dell’anima nella Bibbia, la Messiologia (o, come dirà altrove,2 il Messianismo) la Resurrezione e la Palingenesi. Al tutto sarebbe poi stata premessa una Introduzione.

Il testo che qui presentiamo, precedentemente pubblicato in tre diversi articoli e che appare qui per la prima volta in volume, fa dunque parte di un Corso di Teologia progettato in otto volumi, scritti in parte in italiano e in parte in francese, e in larga misura ancora inedito. Una volta delineato l’ebraismo qual è in se stesso, Benamozegh annunciava nel 1877 il progetto di «formulare il rapporto che, uscendo fuori di sé, lo congiunge al Mondo umano; e questo sarà fatto in altro libro a cui non manca che la redazione e che s’intitolerà Israele ed Umanità, nel quale, se troppo non presumo, stanno chiuse a parer mio le future sorti religiose del genere umano» (pp. IX-X). Come è noto, Israël et l’humanité potrà essere pubblicato solo nel 1914, postumo.

L’immortalità dell’anima nella Bibbia testimonia dunque un’importante fase intermedia dell’attività di Benamozegh, che si situa tra L’origine des dogmes et de la morale du Christianisme e la Storia degli esseni da un lato, e Israël et l’humanité dall’altro. Agli scritti in italiano e in francese vanno inoltre aggiunte le tredici opere in ebraico (tra editi ed inediti) che Benamozegh cita nell’Autobiografia del 1889, tra cui Em la-Miqra. Commento filologico, filosofico, critico al Pentateuco (5 voll., presso l’Autore, Livorno 1862).

2. Nella Cristianità è quasi un luogo comune esegetico la convinzione che nella Bibbia ebraica non sia espressa alcuna speranza di sopravvivenza individuale dopo la morte, se non in alcuni testi tardivi di età ellenistica. Il che renderebbe alquanto sorprendente l’importanza che la resurrezione dei corpi, la quale presuppone l’immortalità dell’anima, ha assunto nell’ebraismo e nel cristianesimo.

Elia Benamozegh intende dimostrare la spiritualità e l’immortalità dell’anima valendosi della luce che proviene dalla fede e dalla ragione. E per quanto riguarda la Bibbia, egli trova affermato quel principo (yikkar, che Benamozegh traduce con “dogma”) sin dai primi versetti.

«Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza»: così in genere siamo abituati a tradurre Gn 1,26. Se però facciamo più attenzione al testo, ci accorgiamo che tra selem, immagine, e demut, somiglianza, non c’è una waw di congiunzione, ma una kaf. Rashi interpreta «secondo la nostra somiglianza», ossia «con il potere di comprendere e di discernere».3 Nel Gan Eden l’albero della conoscenza circonda come una siepe l’albero della vita, il che vuol dire che occorre passare attraverso il primo per raggiungere il secondo. Dal fatto che D. ha creato Adam4 intellettualmente simile a Sé deriva che conoscere e contemplare D. è per l’essere umano non soltanto possibile, ma anzi costituisce propriamente lo scopo della sua esistenza. Non siamo lontani dall’amor Dei intellectualis.5

Potremmo anche tradurre «perché è a nostra somiglianza». Dunque noi veniamo fatti a immagine di D. perché gli assomigliamo. In che cosa gli assomigliamo? Per esempio in questo, che nonostante le nostre nascite e le nostre morti siamo immortali.

Morte in ebraico si dice mawet, vita invece non si può dire, perché hayyim è una parola che ha solo il plurale. La vita al singolare è un’astrazione, la vita è sempre collegata ad altre vite, in primo luogo a quella dei nostri Genitori. La nostra vita non è uniforme, ma è formata da periodi molto diversi tra loro: infanzia, adolescenza, maturità, vecchiaia. L’esperienza ci porta a credere che la vita si concluda con la morte, ma nella Torah è la morte a concludersi con la vita: «Adonai fa morire e fa vivere, fa scendere nello Sheol e fa risalire» (1Sam 2,6). Hayyim, le vite: la vita in questo mondo e la vita nel mondo a venire.

«Io faccio morire e faccio vivere, io ferisco e risano» (Dt 32,39). Come osserva Saadyah Gaon, «Io ferisco e Io risano» chiarisce che «come il guarito è lo stesso che è stato ferito, così colui che è fatto vivere è quello stesso che è stato fatto nascere».

3. Nella lingua ebraica alla parola “anima” corrispondono non meno di otto termini: nefesh, ruah, neshamah, kavod, hod, sod, hayyah, ye-hidah. Nefesh corrisponde al mondo dell’azione, è l’anima più legata al corpo, ruah è più legata al mondo della formazione, neshamah al mondo della creazione, hayyah alle Sefirot del mondo dell’emanazione e yehidah è il punto di contatto con l’essenza della Divinità.6

Poiché l’anima ha la stessa essenza interiore delle Sefirot,7 essa manifesta nella vita reale la stessa struttura delle dieci Sefirot: Hokhmah è l’intuizione, Binah la ragione, Hesed, Gevurah e Tiferet rappresentano i sentimenti fondamentali: amore, odio e la loro sintesi. Abbiamo poi Nesah, la volontà di agire, Hod, lo sforzo di raggiungere l’oggetto desiderato, la tenacia nel superare gli ostacoli, Yesod, la forza di unire, di creare relazioni. Malkhut è il passaggio dell’anima all’esistenza esterna, alla sua attività di pensiero e di azione.8

Kavod significa onore, ma è anche uno dei nomi della Shekhinah; hod significa maestà, splendore, ma è anche il nome dell’ottava Sefirah; sod vuol dire segreto; yehidah significa l’unica.

Non anticipiamo al lettore la scoperta della sorprendentemente ricca messe di versetti che Benamozegh raccoglie a sostegno della sua tesi circa la presenza della dottrina dell’immortalità dell’anima nei diversi libri della Bibbia. È però opportuno ricordare che per Benamozegh la Torah scritta è strettamente congiunta alla Torah orale: la Torah orale precede, accompagna e segue la Torah scritta; Scrittura e Tradizione sono inseparabili. È la Torah scritta, in quanto letta alla luce della Torah orale, che per Benamozegh è in grado di confrontarsi anche con la critica biblica.

«Morire moriremo, e come le acque versate a terra non si possono raccogliere, così Elokim non toglie l’anima, ma pensa pensieri perché non sia allontanato da lui colui che è stato allontanato» (2Sam 14,14). Benamozegh interpreta così questo versetto: la morte fa delle nostre anime acque che scorrono verso un luogo, e questo luogo è D. stesso. Poiché D. è giusto e misericordioso, punisce coloro che compiono il male (altrimenti non sarebbe giusto), ma non respinge definitivamente nessuno. La Qabbalah vede in questo versetto un’allusione al gilgul, ossia alla trasmigrazione delle anime (reincarnazione o metempsicosi).

Oltre al gilgul, la Qabbalah conosce anche la dottrina dell’ibbur (fecondazione), ossia l’aggiunta di un’altra anima, per un periodo di tempo determinato, che consente a una persona di compiere un’opera particolarmente importante.

4. Noi siamo afar e ruah, polvere e spirito, siamo un sogno del mattino, siamo come erba che al mattino fiorisce e a sera viene falciata (Sal 90,5-6). Però al mattino dopo saremo saziati con la Sua grazia (Sal 90,14) e ci verranno rivelati la Sua opera e il Suo splendore (Sal 90,16).

Anche nel mondo greco-romano la morte e l’iniziazione ai misteri erano considerati avvenimenti simili. Ora, secondo Benamozegh «tutte le circostanze che, secondo gli antichi, accompagnavano la celebrazione dei misteri si ritrovano ai piedi del Sinai: la preparazione, le abluzioni, le tenebre, il terremoto, i tuoni e i lampi e, per terminare il quadro, la morte e la resurrezione degli iniziati, perché, secondo i Rabbini, il terrore paralizzò ad Israele tutte le facoltà, che gli furono ridate attraverso una rugiada celeste che li richiamò alla vita».

Morte e rivelazione, le tenebre si trasformano in luce, perché «una candela di Adonai è l’anima dell’uomo» (Prv 20,27) e «la tua anima è legata con i legami della vita ad Adonai Elokim» (1Sam 25,29).

Marco Morselli Pesah 5768



Mercoledì, 03 settembre 2008