NEW GLOBAL: IL GURU NELL’ISOLA

di Augusto Cavadi

Ringraziamo Augusto Cavadi per averci messo a disposizione questo suo articolo pubblicato su “Repubblica – Palermo” del 12.7.06 .


Come il movimento del Sessantotto, anche i new-global attuali hanno i loro guru intellettuali. Tra questi Serge Latouche, sostenitore nomade e brillante della teoria della “decrescita”. Come recita il titolo di uno dei suoi ultimi libri tradotti in italiano, l’economista francese è preoccupato del rischio - molto concreto ed immediato – che l’umanità non riesca a “sopravvivere allo sviluppo”. Per quanti della mia generazione hanno individuato nello sviluppo dei Sud del mondo (dal Meridione italiano ai Paesi del Terzo mondo) una mèta politica per cui spendersi, anche a costo di qualche sacrificio personale, la tesi suona abbastanza provocatoria. Né Latouche fa nulla per attenuarne l’impatto choccante: “Lo ‘sviluppo’ è stato ed è l’occidentalizzazione del mondo. Ci sono parole dolci, che rinfrancano il cuore, e parole-veleno, che si infiltrano nel sangue come una droga, pervertono il desiderio ed oscurano il giudizio. ‘Sviluppo’ è una di queste parole tossiche” (pp. 28 – 29).
Ai responsabili della Scuola di formazione etico-politica “G. Falcone” è sembrato che la sfida teorica e pratica fosse meritevole d’essere accolta, soprattutto dal punto di vista ‘meridiano’: non insiste, ormai da anni, Franco Cassano sulla necessità che il Sud smetta di idolatrare i modelli di sviluppo nordici e – senza presunzione, ma neppure complessi di inferiorità - elabori piste alternative? Che cessi di interpretarsi come il luogo “dove ancora non è successo niente e dove si replica male e tardi ciò che celebra le sue prime altrove”? Da qui l’idea di invitare Latouche ad un seminario di quattro giorni ad Erice - dalla sera del 3 al pranzo del 6 agosto (per informazioni e prenotazioni tf. 338.6132301-091.587437) - per provare a discutere con lui in maniera meno frettolosa di quanto consentano i talk-show televisivi o le sintetiche interviste giornalistiche.
Dopo la relazione iniziale dell’ospite francese, la discussione sarà avviata di volta in volta da alcuni esperti (Salvo Vaccaro dell’Università di Palermo, Santo Vicari della “Università etica per la condivisione della conoscenza” di Bruxelles e Umberto Santino del Centro “G. Impastato”) che, pur riconoscendosi negli stessi scenari di sfondo, hanno maturato perplessità, riserve e critiche rispetto alle tesi di Latouche. Non è difficile, infatti, che esse - acute nella diagnosi dei difetti del modello capitalistico imperante, con le buone e con le cattive, su quasi tutto il pianeta – risultino meno convincenti quando si tratta di controproporre delle terapie. E’ vero, infatti, che - “di fronte alla mondializzazione” – bisogna reagire con “una vera e propria decolonizzazione dell’immaginario e una deeconomizzazione degli spiriti, necessarie per cambiare il mondo prima che il cambiamento del mondo ci condanni a vivere nel dolore. Bisogna com! inciare a vedere le cose diversamente perché possano diventare diverse, perché si possano concepire soluzioni veramente originali e innovative ” (p. 95). Ma, in concreto, come attuare una “decrescita conviviale” ed un “localismo” virtuoso che restituisca alla gestione democratica dal basso la cabina di regia della storia? Il professore parigino non è prodigo di indicazioni operative (anche perché le strategie di coinvolgimento dei partiti, dei sindacati, degli stessi governi nazionali e regionali, vanno calibrate secondo il contesto specifico delle aree del pianeta). D’altronde non si può pretendere da un intellettuale che - oltre ad indicare la méta - preconfezioni i mezzi per raggiungerla. Latouche stesso sembra esserne convinto. “Se si è a Roma e si vuole andare a Torino, e si è preso per sbaglio un treno per Napoli, non basta rallentare la locomotiva, frenare o anche fermarsi, bisogna scendere e prendere un treno nella direzione opposta. Per sal! vare il pianeta e assicurare un futuro accettabile ai nostri figli non ci si può limitare a moderare le tendenze attuali, ma bisogna decisamente uscire dallo sviluppo e dall’economicismo” (pp. 84 – 85): tuttavia “l’alternativa allo sviluppo” non può “prendere la forma di un modello unico. Il doposviluppo è necessariamente plurale” (p. 74). Se – grazie alla sinergia delle istituzioni e dell’associazionismo culturale - anche in Sicilia si configurassero, con maggior precisione e consistenza rispetto al passato, delle ipotesi in tale direzione, l’appuntamento ericino avrebbe raggiunto il suo obiettivo primario. La politica è soprattutto previdenza del futuro: al contrario di ciò che constatiamo, l’amministrazione del presente - con la sua routine spesso grigia - dovrebbe costituirne soltanto il risvolto inevitabile.

Augusto Cavadi



Mercoledì, 12 luglio 2006