Cultura
L’idea di “Greenopoli”

di Giovanni De Feo

«Al giorno d’oggi si sente dire da ogni parte che la nostra vita è amara ed infelice, perché mal organizzata, dobbiamo trasformare le strutture sociali e la nostra vita diverrà felice. Non credete assolutamente a ciò, cari fratelli!» [1].
Tempo fa, leggevo queste parole scritte da Tolstoj nel 1907, quand’era ormai ottantenne.
«E come ci dovremmo comportare per vivere meglio?». Provai a replicare al barbuto interlocutore.
«Per costruire una vita migliore, devono innanzitutto divenire migliori i singoli individui» [2]. Questa fu la risposta del vegliardo russo.
«È na parola!». Fu il mio laconico commento.
«E come si fa a rendere migliori i singoli individui?». Iniziai ad assillarmi con questa domanda.
Pensa e ripensa, finché non fui improvvisamente colto dall’idea folgorante: «Il gioco!».
«E certo. Non è forse vero che si impara giocando?». Non avevo più dubbi. E così iniziò un’altra fase di assillante tormento per il mio povero cervello: «A quale gioco giocare?».
«Qual è uno dei giochi più giocati dai bambini di tutto il mondo?».
Non avevo dubbi: «Il Monopoli!».
Regole del gioco: «Lo scopo del gioco è di trarre profitto, affittando, comprando e vendendo le proprietà che si trovano lungo il percorso della plancia di gioco, sino a diventare il giocatore più ricco e, possibilmente, il Monopolista» [3].
Conclusione del gioco: «Quando il penultimo giocatore fallisce, l’ultimo rimasto in gioco vince la partita» [4].
«Vediamo se ho capito bene: vince quello che alla fine riesce a impadronirsi di tutti i beni e i soldi circolanti. Il più ricco, insomma!».
«Ma questo è il gioco della vita: il ricco acchiappa tutto, il povero fallisce; il ricco vince, il povero perde».
«Ci vuole un’idea nuova. Non è più possibile che continuiamo a formare la coscienza dei nostri figli sulla base dei dettami di un’ideologia edonistica del consumo, il “più repressivo totalitarismo che si sia mai visto”, come ebbe a definirla Pasolini» [5].
«Ce l’ho: il gioco nuovo si chiamerà “Greenopoli”, come sinonimo di “Città Verde” e, quindi, di “Città della Speranza” ed il suo motto sarà “Vivere meglio insieme agli altri!”».
È così che è venuta fuori l’idea di Greenopoli, quasi per gioco.
Tutti i giochi hanno delle regole e la prima regola di ogni gioco è che bisogna rispettarne le regole. Il gioco, quindi, è una cosa seria. Come la vita. Ma la vita non è un gioco? E allora perché non si rispettano le più elementari regole di convivenza e solidarietà?
La parola d’ordine di Greenopoli è «condivisione».
Greenopoli si può giocare ovunque. La sua plancia di gioco, quindi, può essere il tavolo di un bar, l’angolo di una piazza, un’aula scolastica, e così via.
L’obiettivo del gioco è quello di condividere con gli altri giocatori le proprie conoscenze per crearne di nuove ed originali. Gli strumenti del gioco sono il dialogo, il ragionamento e la democrazia deliberativa.
Facciamo un esempio. Supponiamo di essere a scuola all’inizio di una lezione in cui bisogna introdurre un nuovo argomento. L’insegnate in questi casi, di solito, comincia a spiegare e a trasmettere una serie di nuove informazioni agli allievi. In questo modo si ha una “semplice” trasmissione delle conoscenze dall’insegnante agli allievi, con un flusso che al massimo diventa bidirezionale se gli allievi pongono qualche quesito.
La prassi consolidata, tuttavia, prevede un lungo programma da svolgere e una serie di estenuanti interrogazioni da fare che non lasciano quasi mai tempo a sufficienza per favorire una qualche discussione in aula. L’idea di Greenopoli, invece, si basa sul concetto che non è possibile prescindere da una preliminare condivisione delle conoscenze. Prima di provare a spiegare (o imparare) un nuovo argomento, quindi, bisogna appurare lo stato di partenza delle proprie conoscenze e a quali nuove conoscenze si può pervenire mettendo insieme ed elaborando la conoscenza dei singoli e dell’intero gruppo, come pure il ragionamento dei singoli ed il ragionamento del collettivo. In questo modo si ha un flusso circolare di informazioni e gli allievi hanno tutto il tempo di maturare nuove conoscenze e, cosa più importante, di elaborare un proprio metodo di apprendimento e di analisi critica della realtà che li circonda. Il ruolo del formatore, quindi, muta per assumere le funzioni di “moderatore” che, prima fa discutere e ragionare gli allievi, e poi, ad opportuni intervalli, interviene per sostenere e rilanciare la discussione e/o introdurre nuovi concetti. Nell’ambito formativo, infatti, «è ampiamente condiviso che le conoscenze vadano costruite, non imposte: non è possibile inculcare concetti, ma lavorare sulle pre-conoscenze del soggetto per far si che le nuove conoscenze siano interiorizzate» [6].
Facciamo un altro esempio. Vi è mai capitato di partecipare ad un convegno? L’uditore in questi casi, normalmente, tende a preferire un posto ben appartato in modo da poter schiacciare un pisolino in santa pace se, come spesso accade, l’incontro dovesse diventare piuttosto noioso. E ci credo. Cosa succede di regola nella maggior parte dei convegni? Si comincia con circa un’ora di ritardo. Gli ospiti importanti non vengono mai, si fanno sostituire da qualcuno o arrivano con grave ed ingiustificato ritardo. Non manca mai un qualche relatore che si limita a leggere in maniera assolutamente atonica un intervento scritto. A farla ormai da padrone è il famigerato Power Point che consente al relatore superimpegnato di arrivare sempre all’ultimo secondo per arrampicarsi sugli specchi di una presentazione preparatagli quasi sempre da qualcun altro: una bella immagine, qualche effetto speciale ed è fatta! E invece non è fatto un bel niente perché l’uditorio si è annoiato e non ha capito niente, oppure, quando va bene, ha perlomeno sorriso a qualche battuta di intrattenimento!
La cosa peggiore, poi, è che sulla carta tutti gli incontri prevedono una discussione finale o, meglio ancora, un question time, il “tempo delle domande”. Nove volte su dieci, invece, capita sempre che “non c’è tempo”, oppure non volendo correre rischi, a causa della delicatezza degli argomenti trattati, si preferisce rimandare a successivi appuntamenti per ulteriori approfondimenti. Molto spesso, quindi, le persone accorse desiderose di attingere alla cultura degli “esperti” finiscono per non capire quasi niente e tornare sconsolate a casa con un bel pugno di mosche. L’idea di Greenopoli, invece, è quella di “rivoluzionare” il modo di condurre gli incontri, laddove, si intende, risulti possibile e conveniente: si deve invertire l’ordine che, da prassi, prevede prima le relazioni e poi la discussione. Fissato, quindi, il tema dell’incontro, pubblicizzato a tempo debito, all’inizio della sessione o ancora prima (via mail ad esempio), si deve dare la possibilità agli intervenuti di prenotarsi per porre domande e sottoporre le questioni di interesse agli esperti coinvolti. In questo modo gli studiosi potranno discutere e ragionare insieme ai presenti per dipanare la matassa e trovare soluzioni intelligenti ai problemi posti.
Di esempi ne potremmo fare molti altri ma lasciamo al Lettore il piacere di divertirsi a inventarne di nuovi. Se li vuole condividere con noi ne saremo onorati.

Giovanni De Feo
(g.defeo@unisa.it)



[1] L. TOLSTOI, Amatevi gli uni gli altri (Appello ad un circolo giovanile), Traduzione a cura degli Amici di Tolstoi, 1907, p. 3.
[2] Ivi, p. 4.
[3] PARKER BROTHERS, Monopoli. Regolamento, trad. It., Editrice Giochi S.p.A., Milano, http://www.editricegiochi.it.
[4] Ibid.
[5] P.P. PASOLINI, Scritti corsari, Garzanti Libri, Milano 2001, p. 53.
[6] D. LEONI, Il valore educativo che viene dal passato, «.eco» l’educazione sostenibile, n. 3 – marzo 2007 (nuova serie) – anno XIX/139, Editore Istituto per l’Ambiente e l’educazione Scholé Futuro Onlus, Torino 2007, p. 19.



Sabato, 01 settembre 2007