Elogio del dissenso

di p. Alberto Simoni o.p.

relazione di p. Alberto Simoni o.p. in occasione della presentazione del libro di Antonio Thellung "Elogio del dissenso" (ed. la meridiana), tenuta a Roma il 28 maggio scorso


Relazione di Alberto Bruno Simoni o.p.

Voglio dire prima di tutto che il mio incontro con Antonio è nato grazie ad una mia recensione di un suo libro di qualche anno fa: Con la Chiesa oltre la Chiesa, e poi questo incontro è diventato amicizia e vicinanza. Quando mi è stato chiesto di partecipare a questa presentazione naturalmente ho detto di si, anche perché in tutti questi anni ho sempre pensato che fosse necessaria una riflessione critica sul fenomeno del dissenso in generale, quindi c’è da essere grati ad Antonio per aver dato un input per questa riflessione.

Da dove e come nasce questo libro? Di fronte a una delle tragedie che scandiscono la nostra vita c’è la sfida di un amico agnostico ad un credente: «Ma tu? La tua fede non ti indica più la via della speranza?». È così che Antonio raccoglie la provocazione e decide di fare la sua parte per una fede più credibile. In questione,dunque, c’è la fede!

Che questa possa essere la prospettiva di fondo e la chiave di lettura del libro, sembra confermato da una lunga citazione autorevole che Antonio fa a p. 22: «Abbiamo molto da imparare, Siamo troppo interessati a noi stessi, alle questioni strutturali, al celibato, all’ordinazione delle donne, ai concili pastorali, ai diritti  di questi concili e dei sinodi. Lavoriamo sempre sui nostri problemi interni e non ci rendiamo conto che il mondo ha bisogno di risposte... E noi rimaniamo con i nostri problemi. Sono convinto che, se usciamo e incontriamo gli altri e presentiamo loro il Vangelo in modo appropriato, anche i nostri problemi interni saranno relativizzati». Sono parole del card  J. Ratzinger, a cui però si potrebbe chiedere se uscire da se stessi, incontrare gli altri e presentare il Vangelo in maniera appropriata vuol dire assegnare alla Chiesa un ruolo di supplenza socio-etica per l’unificazione del Paese!

Questo è il contesto in cui si colloca il libro di Antonio, il quale si chiede subito: «Sarà possibile rivitalizzare la fede senza scadere nell’integralismo?» (p. 13). Il libro è un viaggio intorno al «dissenso», non in chiave storica e neanche teologica, ma come memoria, testimonianza e proposta, a sfondo prevalentemente ecclesiale. È una esplorazione, in cui il dissenso è il punto di riferimento polisemantico, intorno a cui si sviluppano cerchi concentrici: si parte dalla storia dei primi tempi della Chiesa, per restringersi al periodo conciliare e post-conciliare, e focalizzarsi infine sulle conflittualità presenti oggi. Si potrebbe dire che il discorso di Antonio Thellung è una variazione sul tema della disobbedienza, fino a far intendere che sia una virtù e parlare di  una «educazione al dissenso» (p.169).

Non siamo davanti ad una teorizzazione, ma a qualcosa di vissuto dentro un quadro di relazioni e di situazioni, da cui però si può far emergere l’impianto e prendere spunto per riattivare una dimensione inevitabile della convivenza umana ed ecclesiale, quella appunto del dissenso nelle sue varie accezioni: di divergenza, mancanza di accordo o disapprovazione, pluralismo. In realtà, Antonio presenta tutte queste sfumature, nell’unico intento di trovare uno sbocco ed una via di soluzione,  là dove penserebbe di poter innestare un confronto e un dialogo tra vertici e base. Infatti: «Come può esserci autentica comunione ecclesiale se manca la possibilità di scambiarsi francamente le opinioni?» (p. 15). E’ qui la dinamica interna del libro

Quando sembrava chiusa l’epoca delle scomuniche, siamo costretti a chiederci con Antonio: «In quest’epoca di guerre globali che travalicano ogni confine, ponendo tutti contro tutti, è forse utopia sperare che possa almeno cessare la guerra civile tra cattolici?» (p. 23). E la sua risposta è perentoria: «Da parte mia non potrei mai rinunciare alla speranza, perciò amo sognare una Chiesa dove le pluralità di opinioni possano essere utilizzate, attraverso confronti creativi, come prezioso strumento di verifica, dialogo e incontro, nel nome di Gesù Cristo» (p. 34).

1 - Dissenso in generale

Il cerchio più ampio da cui Thellung prende le mosse è quello della storia del cristianesimo fin dalle origini, secondo una scansione del periodo apostolico; il tempo della Patristica e dei primi concili per la formulazione del Credo; il Medioevo, con un ad Abelardo e dintorni;  per passare poi al conflitto tra Oriente e Occidente e infine alla stagione della Riforma.

Tutto un quadro in cui la pluralità di posizioni nella formulazione ed enunciazione della fede assume terminologie diverse: eresia, scisma... Come per dire che la diversità, la conflittualità, il dissenso in senso generale attraversano tutta la storia della Chiesa e sono in qualche modo fisiologici al cammino della fede nel mondo. Le controversie e lotte teologiche del passato suscitano un po’ di nostalgia: se anche oggi ci fosse un pensiero teologico come «quaestio disputata» e non solo come «lectio» o «lectio divina», la fede della Chiesa non ne guadagnerebbe in respiro e in vitalità?

Sta di fatto che, come si legge alle pp. 54-55: «Siamo ormai nel Novecento, i concetti di ortodossia ed eresia cambiano perché nessuno crede più ‘alla lettera’, e nasce la consapevolezza che le stesse parole siano sovente interpretate in modo differente anche da persone dello stesso ambiente <...> Parlare di eresia appare oggi piuttosto evanescente perché l’ortodossia non è più così certa, e l’autorità religiosa viene contestata e ritenuta non più credibile quando tenta di sostituirsi alle coscienze. Le sue affermazioni vengono messe in evidenza, discusse e strumentalizzate finché riguardano argomenti socio-politici. Quando invece riguardano la morale e le norme di comportamento, l’opinione pubblica tende a considerarle curiosità di nicchia, che interessano solo gli addetti al lavoro. La migliore dimostrazione di quanto  valga il pluralismo sta nel fatto che ormai la fede in Gesù Cristo appare sempre più svincolata da dottrine e dogmi» (pp. 54-55).

È importante notare che nel tempo le denominazioni delle devianze cambiano e sappiamo come ai nostri giorni alla nozione di ortodossia formale, si è preferita quella di ortoprassi come baricentro di una fede vissuta.

2 - Dissenso specifico

E qui veniamo alla seconda zona di analisi, quella che potrebbe andare sotto il nome di rivoluzione copernicana, fine dell’era costantiniana o della cristianità: e cioè il Concilio Vaticano II, su cui Antonio si sofferma in tre capitoletti: «Dal concilio alla restaurazione», «Un centralismo accentuato», «Contestazioni da destra». Il Concilio stesso si pone come la nuova posta in gioco o pomo della discordia: da una parte risolve tensioni  e divergenze teologiche che erano andate maturando nel primo novecento, dall’altra si pone come nuovo «segno di contraddizione.

È innegabile che l’evento conciliare ha prodotto una abbondanza di orientamenti, di interpretazioni, di opinioni, di prese di posizione, di scelte tutte periferiche, che, invece di essere state metabolizzate, sono state motivo di rigetto, o al più di assorbimento e di assimilazione da parte della struttura e del sistema centrale, ma sempre nel segno della omogeneità. Al punto tale che stiamo assistendo al trionfo - anche se in sordina -  del centralismo accentuato e della contestazione da destra.

Ma mentre un «dissenso» innovativo ed evolutivo viene sanzionato proprio in quanto dissenso e basta, a prescindere dal merito; prese di posizione conservatrici, ma di  rottura, sono avallate per presunta conformità alla tradizione. Le parole citate sopra ci dicono che il dissenso si sviluppa riguardo ad argomenti socio-politici, a questioni etiche e di comportamento, mentre rimane in secondo piano  il fatto che ormai la fede in Gesù Cristo appare sempre più svincolata da dottrine e dogmi: c’è qui  una possibile chiave di interpretazione delle ragioni e della natura del dissenso. Nel senso che il Concilio è stato voluto e proclamato con un preciso intento di «aggiornamento» globale, mentre strada facendo ha preso un’altra piega, o meglio c’è stato un ripiegamento involutivo che ha riportato le cose al suo punto di partenza: in sostanza all’ ecclesiocentrismo.

È stato voluto perché «dalla rinnovata, serena e tranquilla adesione a tutto l’insegnamento della Chiesa...  lo spirito cristiano» facesse «un balzo in avanti verso una penetrazione dottrinale e una formazione delle coscienze... secondo le forme del pensiero moderno»;  «essa ritiene di venire incontro ai bisogni di oggi mostrando più ampiamente la validità della sua dottrina, piuttosto che rinnovando condanne». Di qui la volontà di «usare la medicina della misericordia piuttosto che l’arma della severità». È il senso pastorale del Concilio, chiamato ad un ripensamento teologico di tutto il messaggio evangelico e della fede della Chiesa come suo strumento e segno. Un compito epocale che abbiamo creduto di consumare in breve tempo, ma che rimane più che mai aperto.

Per cui siamo tornati sui nostri passi a discutere di questo o quel punto della dottrina fondamentale della Chiesa, prevalentemente a finalità politica o etica, perdendo l’orizzonte comune: tutto si gioca nel dettaglio in maniera esclusiva e con le armi della facile condanna.  Se si va a guardare, il dissenso come categoria storica si sviluppa nell’ambito di scelte socio-politiche o nell’area di problematiche morali, lasciando sullo sfondo l’istanza di una riforma globale della Chiesa, o perché non voluta dai più o perché abbandonata da rinunciatari delusi. Di qui lo scontro su altri piani, attraverso una polarizzazione politica o etica, campi in cui il pluralismo sarebbe d’obbligo.

Il rimpianto Mario Cuminetti osserva: «Si deve dire che nel dissenso italiano più che l’esigenza di una riflessione teologica è centrale la preoccupazione dell’azione, dell’intervento diretto, della militanza. È da un lato una debolezza, ma dall’altro anche una forza. In Italia, per essere concreto, non nasce, come in Germania, una teologia politica o, come in America Latina, una teologia della liberazione, ma tutta l’esperienza della CdB e, per altro verso , dei CpS, come, sotto altri aspetti ancora, di tutta la vasta area critica, è una testimonianza della comprensione della ‘politicità’ della fede» (Il dissenso cattolico in Italia, pp. 28-29).  Un’arma a doppio taglio?

Questa istanza di rinnovamento globale è condivisa da Paolo VI, che all’udienza generale del 15 gennaio del ’69, dice a proposito della contestazione montante: «Non saremo noi a contestare del tutto questa contestazione. Questo bisogno di rinnovamento, che per tante ragioni e in certe forme è legittimo e doveroso. Certo: est modus in rebus, una certa misura si impone. Ma il bisogno è reale.... Che il Concilio abbia avuto ed abbia tuttora come suo fine generale un rinnovamento di tutta la Chiesa e di tutta l’attività umana, anche nella sfera profana, è verità che traspare da ogni documento e dal fatto stesso del Concilio medesimo; ed è appunto opportuna la domanda se noi abbiamo bene riflettuto su questo scopo principale del grande avvenimento. Anch’esso si inscrive nella grande linea del movimento trasformatore moderno, del dinamismo proprio del nostro periodo storico. Anch’esso tende a produrre un rinnovamento. Ma quale rinnovamento?» (p.48).

Noi siamo oggi gli eredi di queste tensioni irrisolte ed è un po’ come se volessimo costruire sulle macerie. A questo periodo di ebollizione si fa riferimento nel nostro libro, quando Antonio scrive: «Trent’anni or sono, nel periodo della fioritura postconciliare, il dissenso era rigoglioso, e infatti la ricerca di rinnovamento si articolava in numerose pubblicazioni di frontiera, mentre nascevano nuove forme di comunità ricche d’inventiva. Ma tutto o quasi è stato scoraggiato o represso, e oggi prevale  un silenzio che maschera atteggiamenti individualistici, i quali sono quanto di più lontano dall’insegnamento di Cristo. C’è stato insomma un itinerario che si potrebbe definire: dal dissenso al silenzio. Oggi molti pensano che non valga più la pena di protestare, perché hanno perso la speranza di ottenere risultati» (p. 169)

3 - Dissentire oggi: come uscire dal silenzio?

È così che il cerchio si restringe e veniamo al «dissentire oggi». Inevitabilmente, per la forza delle cose,  sono in primo piano temi settoriali, quali la pena di morte, la vita coniugale, questioni di coscienza, e sappiamo bene a quali problemi e pronunciamenti ci si riferisce. Ma alla fine tutto si concentra di nuovo su questioni di fondo: ma quale Dio e quale Chiesa nel futuro?

È bene ricordare che contestazione e dissenso erano sintomi di una crisi più profonda: quella della fede (Dio è morto!), quella della Chiesa, della sua autorità e infallibilità; crisi soltanto dissimulata anziché risolta. Non basta infatti ripristinare modelli ed universi religiosi del passato, e  «resta da chiedersi quale volto di Dio mostra questa Chiesa», come si legge  a p. 158. Un «Dio inclusivo», come amava esprimersi Giuseppe Barbaglio, o un «Dio esclusivo»?

Quali che siano le posizioni sui singoli problemi sul tappeto oggi, questa istanza rimane aperta ed è a carico di tutti quelli che se ne fanno carico. Ed ecco l’auspicio del nostro Antonio: «Dalla libertà di esprimersi e dall’accoglienza affettuosa e costruttiva del dissenso possono nascere atteggiamenti nuovi, capaci di far finalmente emergere e riversare su tutti lo spirito di Gesù Cristo, che ha fondato la Chiesa come luogo di incontro e di condivisione fraterna, come struttura permanente di consultazione e confronto, come spazio aperto ove potersi mettere in discussione, contestarsi l’un l’altro, costringersi ad approfondire sempre più il senso della fede e della vita, con affettuoso aiuto reciproco» (pp. 182-183). E più avanti: «La Chiesa può ancora fare la sua parte, ma solo se saprà rinnovarsi. Personalmente sono convinto che un affettuoso dissenso, espresso, accolto, discusso  e confrontato con benevola attenzione, sia l’unica realtà capace di aprirsi al soffio rinnovatore dello Spirito» (p. 191).

Antonio ripropone spesso il modello-famiglia, in una sorta di convivialità delle differenze, in cui trombe e campane suonino all’unisono, dove ci sia la disponibilità di tutti a rimettersi in discussione e trovare il punto di incontro e di accoglienza. Se il dissenso potesse portare a tanto, «felice dissenso!». Ma non sempre - o quasi mai - è così, ed è estremamente difficile che il dissenso venga condiviso. Condannarlo o rinunciarci allora? O continuare a farne l’elogio e a viverlo? Io direi senz’altro di sì, ma la risposta è impegnativa al massimo: perché si tratta di tener fede al proprio carisma, ma di radicarsi al tempo stesso nel terreno del bene comune di cui farsi carico.

Conclusione

Antonio dice di «terminare senza concludere»: in effetti siamo in presenza di un processo storico e da mantenere aperto o disincagliare. Ma come? È quanto mi ha portato a chiedere e pensare la lettura dell’ «Elogio del dissenso». Ed è  quanto mi permetto di proporre alla riflessione comune: una specie di codice o di decalogo del dissenso.

1 - Il dissenso si inscrive nell’assenso della fede comune: c’è il «deposito della fede» (o fides quae) e c’è la fede vissuta della Chiesa (fides qua o sensus fidei). Il dissenso non è relativo ai contenuti della rivelazione, ma interessa le formulazioni o traduzioni pratiche diverse dove è prevista una dialettica del consenso.  Ricordiamo come Paolo fa resistenza a Pietro!

2 - Il dissenso non sarà mai parziale o settoriale su questo o quel punto di dottrina o di prassi (non è eresia), ma si fa carico del tutto e del rinnovamento globale: non solo degli otri o solo del vino, ma del vino e degli otri (del pensiero e della prassi, dello spirito e della lettera, delle strutture e del carisma...).

3 - Il dissenso è un carisma da accogliere e da vivere in ordine al carisma più grande che è la carità.  Rifarsi al principio-carità non vuol dire conformismo, ma prevedere il massimo pluralismo; non vuol dire assolutizzare una qualche forma di chiesa, ma relativizzarle tutte; non vuol dire sentirsi arrivati, ma vivere in piena tensione escatologica.

4 - Il dissenso non è arbitrio o tradimento, ma frutto di fedeltà più profonda e matura: è vocazione, spiritualità, prassi messianica o profetica che coinvolge totalmente spirito, anima e corpo; e se il vangelo non cambia, siamo noi che cambiamo e dobbiamo comprenderlo sempre meglio e diversamente.

5 - In quanto prassi messianica («è stato detto, ma io vi dico!»), il dissenso va vissuto nel massimo della discrezione (il segreto messianico), ma anche della determinazione e della fermezza: con la semplicità dei colombi e con l’avvedutezza dei serpenti, non muro contro muro, ma sana provocazione: se ho detto male dimostramelo, ma se ho detto bene perché mi schiaffeggi?

6 - Il dissenso non è mai una bandiera o un fenomeno di gruppo, così come non lo è la comunione ecclesiale: è solidarietà di coscienze vive ed attive, perché il sabato sia per l’uomo e non l’uomo per il sabato. Il dissenso esclude sia lo schieramento che l’allineamento.

7 - Il dissenso è una scommessa o sfida per cui spendere e spendersi, ricordando che solo chi perde la propria vita la guadagnerà. E questo è quanto mai vitale oggi, quando prevale una volontà di egemonia e di vittoria.

8 - Sul piano istituzionale, il dissenso non deve temere chi può uccidere il corpo, ma ciò che spegne l’anima: pronto a cedere la tunica a chi chiede il mantello, nel caso appunto ci sia disponibilità al confronto e al dialogo.

9 - Quando non c’è nessuna volontà di ascolto e disponibilità al dialogo, è necessario non cadere nella logica di contrapposizione di parte a parte. Uscendo dall’ordine di giurisdizionale e di potere, è sempre possibile muoversi nell’ordine sacramentale della gratuità. Ricordiamo Paolo quanto dice: «Sono ministri di Cristo? Sto per dire una pazzia, io lo sono più di loro» (2Cor 11,22).

10 - Il dissenso ha come prezzo la solitudine istituzionale, che va accettata e vissuta in solidarietà con quanti non rientrano nei quadri ufficiali e negli spazi di visibilità, siano essi gentili, barbari, non credenti, non praticanti, quanti non hanno altro titolo di appartenenza al di fuori della chiamata alla fede e all battesimo. Se il problema vero della chiesa è una nuova soggettività del Popolo di Dio, questa non può essere data che da nuovi soggetti storici. Cosa vuol dire diversamente «Chiesa dei poveri»?

Vorrei dire, in conclusione, che questo tipo di dissenso si incarna per noi in don Lorenzo Milani, dato alla Chiesa perché il suo carisma venga riconosciuto, raccolto e testimoniato anche ai nostri giorni. Anche per questo c’è da essere grati ad Antonio di aver sollevato un velo su una risorsa - quella del dissenso - che rischia di rimanere nascosta come un tabù da evitare.



Domenica, 10 giugno 2007