ARTEFATTI, ARCHEOLOGIA, E FILOLOGIA ....
LA SINDONE DI TORINO E' "LA SINDONE DI GESU' NAZARENO". Per Bruno Barberis, direttore del Centro internazionale di Sindonologia di Torino, č "fantascienza e fantastoria".

L’IPOTESI DI BARBARA FRALE E LE FORTI PERPLESSITA' DI LUCIANO CANFORA E ALTRI STUDIOSI. Sul tema, un articolo di Michele Smargiassi e uno di Lorenzo Fazzini


a cura di Federico La Sala

Ecco l’uomo che firmò la Sindone

di Michele Smargiassi (la Repubblica, 20.11.2009)

Nessun Vangelo, neppure gli apocrifi, parla di lui, lo scriba dell’atto di sepoltura di Gesù. I grandi libri della fede preferiscono i personaggi grandiosi agli sbiaditi comprimari rimasti al di qua del bene e del male. Eppure eccolo riemergere da duemila anni di oblio, così stagliato che par di vederlo. Un funzionario dell’Impero romano, un anziano impiegato ebreo della morgue di Gerusalemme, mano tremolante, parsimonioso, sbrigativo ma accurato. In una Deposizione barocca potremmo immaginarlo un po’ in disparte, intento a stilare i documenti richiesti dalla minuziosa burocrazia imperiale per il rilascio del cadavere di un giustiziato. Non sappiamo il suo nome. Ma quello scritto, che per lui era solo l’incombenza quotidiana di un poco gratificante mestiere, ora lo possediamo. Forse per gli anni passati a inseguirlo, forse per la familiarità coi misteri che deve avere una Ufficiale degli Archivi segreti del Vaticano, Barbara Frale non sembra emozionata nel confermarci quello che potrebbe essere uno dei ritrovamenti più sorprendenti dell’era cristiana: «Sì, penso di essere riuscita a leggere il certificato di sepoltura di Gesù il Nazareno». E quel che pare esservi scritto non solo accredita, ma arricchisce il racconto degli evangelisti.

È stato, per la verità, sotto i nostri occhi per secoli, impresso come una fotocopia sul telo più venerato della storia, la Sindone di Torino; ma per estrarlo di lì occorreva frugare il lino fibra per fibra, con sapere archeologico, storico, paleografico. Ciò che la dottoressa Frale assicura di aver decifrato, e come lo ha fatto, ce lo racconta lei stessa nel volume La sindone di Gesù Nazareno (Il Mulino, 375 pagine, 28 euro), sul quale prevedibilmente si scateneranno le controdeduzioni degli specialisti. Ma questo è il meno: se Frale vede giusto, allora si riapre clamorosamente, proprio alla vigilia della nuova ostensione torinese prevista in primavera, non solo la questione della datazione della Sindone, ma quella ben più scottante della sua autenticità come «la reliquia più splendida della Passione» (Giovanni Paolo II) e non più come semplice «icona veneranda» (cardinal Ballestrero).

La presenza di scritture sulla Sindone è nota da oltre trent’anni. Stringhe di caratteri latini greci e ebraici circondano il volto dell’Uomo, impresse in negativo: macchie chiare visibili solo dove si sovrappongono al colore rossastro che disegna l’immagine più controversa del mondo. Se ne accorse per primo nel 1978 il chimico Piero Ugolotti esaminando alcuni negativi fotografici del Telo, e sentendosi incompetente a decifrarle chiamò in aiuto il classicista Aldo Marastoni. Altri studiosi, francesi e italiani, recuperarono poi nuovi frammenti di vocaboli. L’insieme sembrava promettente: iber poteva essere un moncone di Tiberios, nome dell’imperatore regnante al tempo della Passione; l’apparente neazare suggeriva ovviamente un nazarenos, e quell’innece(m) poteva alludere alle circostanze di una morte. Il senso, però, restava un puzzle insolubile. A che genere di testo appartenevano quelle parole, ma prima ancora: come si stamparono sul lino?

Reperti che presentano ricalchi e impressioni delle scritture con cui vennero casualmente a contatto non sono rari in archeologia: tavolette d’argilla, persino strati di fango ci hanno trasmesso testi il cui supporto originario è andato perduto. Il metallo contenuto nell’inchiostro di un foglio venuto a contatto con la Sindone può aver rilasciato sul telo particelle poi "rivelate" dalla misteriosa reazione chimica che ha impresso l’immagine dei misteri. Ma di che foglio si trattava? Forse l’etichetta, la cedola, di uno dei reliquiari che custodirono la Sindone quando era già oggetto di culto? Ad ogni modo, quando nel 1988 la famosa e clamorosa prova del radiocarbonio stabilì per il Lenzuolo una data di nascita tardomedievale, l’interesse per la questione delle scritte crollò a zero: a chi poteva ormai interessare la presenza di complicati graffiti su una falsa reliquia?

Barbara Frale però è tra quanti non hanno mai creduto a quella datazione scientifica. Per lei, che ne ha tracciato la storia nel suo recente I Templari e la Sindone, il telo di Torino è il bizantino Mandylion di Edessa, trafugato durante il sacco di Costantinopoli del 1204, poi clandestinamente adorato dai monaci guerrieri. Dunque le scritte possono risalire ai primi secoli dell’era cristiana.

Devono, anche? Non mancherà chi accusi la ricercatrice di aver forzato le sue ipotesi per arrivare alla spiegazione più clamorosa. Lei lo mette in conto, e replica: «Non ho voluto dimostrare verità di fede. Io sono cattolica, ma tutti i miei maestri sono stati atei o agnostici, l’unico credente era ebreo. Il mio libro non si esprime sull’origine miracolosa o meno dell’immagine della Sindone. Fin dall ’inizio mi sono imposta, anche per disinnescare l’emozione che avrebbe potuto travolgermi, di lavorare come avrei fatto su qualsiasi reperto archeologico».

Frale procede per deduzione, confronto ed esclusione, come un detective. Impossibile, è la sua prima conclusione, che quelle scritte provengano da un testo scritto da cristiani; infatti, osserva, se oggi è abituale chiamare Gesù "il Nazareno", quell’appellativo diventò pressoché eretico per i fedeli dei primi secoli: troppo legato alla sola dimensione umana, terrena del Salvatore. «Sarebbe stata un ’offesa suprema scrivere Nazareno in un testo destinato al culto. Avremmo dovuto trovare invece Cristo: ma di quella parola sulla Sindone non c’è traccia». Quelle parole straordinariamente salvate dal ricalco, ne deduce, provengono da un documento pre-cristiano. E del tutto "laico". Parlano di Gesù dal punto di vista di chi lo considera solo un uomo. Un documento "gesuano", dunque, non "cristologico".

Ma a che scopo ne parlano? Il confronto con le sepolture coeve, lo studio delle procedure giudiziarie romane e dei regolamenti necrofori giudaici suggerisce alla fine questa ipotesi: un povero corpo crocifisso dopo una condanna poteva essere riconsegnato ai parenti solo dopo un anno di "purificazione" nella fossa comune; per identificarlo, evitando che si perdesse nel caos del sepolcreto di Gerusalemme, i necrofori utilizzavano cartigli incollati con colla di farina all ’esterno del sudario già avvolto attorno al cadavere, a incorniciarne il volto nascosto dalla tela. Corriamo avanti, alla ricostruzione finale proposta da Frale: un funzionario al servizio dell ’amministrazione romana, attingendo ai documenti del processo e nel rispetto delle leggi sulle inumazioni, redige con la mano un po’ tremolante (per l’età?) e con calligrafia un po’ demodé ma ancora in uso nel primo secolo una sorta di "bolla di accompagnamento necroforo", come i cartellini appesi ancor oggi all’alluce dei cadaveri negli obitori; un informale certificato di sepoltura che, visto lo scopo pratico, può essere steso su sparsi scampoli di papiro e vergato in fretta, con errori e incertezze ortografiche.

Frale riprende là dove la decifrazione si era arenata, lancia nuove ipotesi, corregge quelle vecchie, completa le lacune, ricorre ai vocabolari greco, latino ed ebraico e alla fine propone la sua lettura. Eccola: quel testo riferisce di un certo (I)esou(s) Nnazarennos che nell’anno 16 dell’impero di (T)iber(iou), una volta "deposto sul far della sera", (o)psé kia(tho), dopo essere stato condannato "a morte", in nece(m), da un giudice romano "perché trovato", mw ms’, secondo la denuncia di un’autorità che parlava ebraico (il Sinedrio?), colpevole di qualcosa, viene avviato a sepoltura con l’obbligo di essere consegnato ai parenti solo dopo un anno esatto, ossia nel mese di ada(r); c’è infine l’"io sottoscritto", o meglio "io eseguo", pez(o), del nostro umile burocrate.

Tutto torna, il puzzle va miracolosamente a posto. L’anno 16 di Tiberio è l’anno 30 dopo Cristo, il periodo è la primavera, l’ora è la nona, quella del Golgota, le parole superstiti di quella che potrebbe essere una copia del verbale del processo (un testo greco lungo ma illeggibile appare sotto il mento) coincidono con le espressioni che i Vangeli attribuiscono al Sinedrio di Caifa, quell’in necem sarebbe dunque una citazione delle parole della sentenza del romano Pilato; la mescolanza di citazioni in tre lingue non farebbe problema visto l’ambiente poliglotta in cui si muovono gli attori della Passione. Questo complicato puzzle di parole, conclude Frale, è «l’anello mancante» tra dati della storia e racconto del Vangelo. Tutto torna perfettamente.

Magari un po’ troppo, dottoressa? «Io ho incontrato un documento archeologico che parla della condanna e della sepoltura di un uomo di nome Yeshua Nazarani: a lui ho intitolato il mio lavoro. Se quell’uomo fosse anche il Cristo, il Figlio di Dio, non è compito mio stabilirlo»


 

  Sindone firmata: è già polemica

  di Lorenzo Fazzini (Avvenire, 21 Novembre 2009)

«In base ai confronti svolti, oggi sono convinta che le tracce di scrittura identificate sul lino della Sindone possano appartenere ad un testo derivato direttamente o indirettamente dai documenti originati fatti produrre per la sepoltura di Yeshua ben Yosef Nazarani, più noto come Gesù di Nazareth detto il Cristo». È questo il sasso lanciato nello stagno della scienza della Sindone, il celebre (e discusso) sudario di Cristo conservato a Torino, da una storica di recente balzata agli onori delle cronache per i suoi saggi medievalistici. Già il volume I Templari e la sindone di Cristo (Il Mulino), uscito a inizio anno, di Barbara Frale, funzionaria dell’Archivio Segreto Vaticano, aveva diviso gli esperti.

Ora, con La Sindone di Gesù nazareno (Il Mulino, pp. 254, euro 28), la Frale - nata a Viterbo nel 1970 - lancia un’altra ipotesi suggestiva: che sul lino custodito all’ombra della Mole si annidino alcune scritte multilingue vergate da un funzionario addetto alla sepoltura dei condannati a morte nella Gerusalemme del I secolo. Qui Barbara Frale interpreta un’iscrizione compatibile con la tradizione che vede nel sudario il telo che avvolse il corpo di Gesù di Nazareth, che nella primavera prossima verrà di nuovo mostrato in pubblico: a Torino si recherà pellegrino anche Benedetto XVI.

La Frale ha interpretato la seguente scritta: «Gesù Nazareno deposto sul far della sera, a morte, perché trovato» colpevole. Il tutto scritto con termini di tre idiomi: latino, greco ed ebraico. E al profluvio di critiche che si preannunciano, la giovane addetta dell’Archivio vaticano risponde così nelle conclusioni del suo volume, anticipato ieri da Repubblica: «L’ipotesi che le scritte siano state messe da un falsario per avvalorare l’autenticità della Sindone è da scartare: infatti questo truffatore avrebbe dovuto inventare un sistema complicato per lasciare sul telo certe tracce che sarebbero divenute visibili ai posteri solo tanti secoli dopo, con l’invenzione della fotografia; inoltre qualunque falsario avrebbe usato le diciture del titulus crucis, quelle descritte dall’evangelista: non certo quelle strane parole che con i Vangeli non c’entrano proprio nulla».

E la discussione si infiamma. «Sono molto stupito». Monsignor Giuseppe Ghiberti, vicepresidente del Comitato per l’ostensione della Sindone, non nasconde la sua perplessità, sebbene metta le mani avanti: «Prima di tutto bisogna leggere l’opera. Sono stato di fronte alla Sindone ore e ore e mai ho avuto sentore di nulla del genere. E nemmeno l’hanno avuto professori competenti in elaborazione di immagini». Circa il carattere multilinguistico della ricostruzione, Ghiberti afferma: «L’unico precedente che può dare peso a questa ipotesi è il titolo della croce di Gesù, che era in più lingue». Ma alla domanda se ritenga realistica la tesi della studiosa laziale, Ghiberti risponde con un eloquente sospiro. E riprende: «Quando non si conoscono bene gli argomenti altrui, si preferisce sospendere il giudizio. Ma tutto questo non mi convince».

«Non voglio essere ironico né polemico», esordisce Luciano Canfora, docente di Filologia greca e latina all’università di Bari. «Ma secondo me Barbara Frale si è avventurata in qualcosa di molto insidioso». Per lo studioso barese «la ricchezza di particolari nascosti nelle fibre di lino fa pensare a una vera falsificazione». Canfora qualifica come errata l’ipotesi della Frale in base a due elementi: la ricchezza di dettagli e il poliglottismo della scritta decifrata. «Si presenta tutto ciò come una gigantesca novità, ma così non è. La prima, forte perplessità è la presenza di tre lingue nella scritta ritrovata. La Frale spiega tale riscontro con il pluriculturalismo della Gerusalemme del tempo. Ma un conto è l’ambiente culturale di una città - annota Canfora -, altra cosa un documento che racchiude tre lingue. È come se oggi un taxista di origine indiana a Londra, per scrivere una ricevuta, utilizzasse tre idiomi diversi».

Canfora sottolinea un altro particolare per spiegare la sua disapprovazione: «Tutto si basa sull’idea che al collo del condannato vi sia il verbale del giudizio di Caifa su Gesù». L’affermazione che si trattasse di uno scritto fatto da un becchino trova l’antichista pugliese nettamente scettico: «Non è ovvio che esistesse una figura del genere. Non abbiamo ancora una trattazione sistematica sulla figura di funzionari addetti alla sepoltura dei condannati a morte nella Giudea del I secolo: vi sono testimonianze contraddittorie al riguardo».

Canfora stabilisce un parallelo tra il papiro di Artemidoro e la Sindone, o meglio tra la contestata autenticità della seconda e la dimostrata falsità del primo: «I numerosi dettagli, che vogliono avvalorare l’autenticità, indicano invece che questi elementi scritturistici sono aggiunte tardive. Com’è stato constatato dalla polizia scientifica per il papiro di Artemidoro». Canfora riconosce che Barbara Frale non propone una tesi: «Lei dice: io ho trovato questo. Ma ha riscontrato cose tutt’altro che univoche!».

A Canfora replica Franco Cardini, medievalista e docente all’università di Firenze: «Primo: dobbiamo difendere Barbara Frale dai sindonologi che si scagliano con durezza contro quanti sostengono ipotesi troppo forti. La sua non è ancora una tesi ma un’ipotesi, ragionevole e affascinante, basata su indizi. Si tratta di una pista interessante. Ritengo che gli indizi che lei individua siano troppo coerenti per poterli considerare frutto del caso. Si è limitata a riempire dei vuoti di documentazione come solitamente si fa nella ricerca storica. La sua è un’interpretazione con forti basi storiche, niente a che fare con la fantastoria di Dan Brown». Insomma, per lo storico fiorentino siamo davanti a «un lavoro serio, da prendere in considerazione, in cui ci sono osservazioni geniali».

È poi singolare che Cardini giudichi in maniera opposta il particolare del plurilinguismo rinvenuto dalla Frale sul lino di Torino, cosa che Canfora bolla come «artefatto»: «Se si trattasse di un documento di ambiente caratterizzato da un forte monolinguismo, capirei l’obiezione. Ma la Gerusalemme del I secolo era un luogo di straordinario incrocio linguistico: il latino era la lingua ufficiale ma il greco rappresentava il "basic english" del tempo. Poi c’erano il caldeo, l’ebraico, e altre lingue che poggiavano su una grande tradizione grafica». Cardini guarda all’oggi per suffragare la plausibilità dell’interpretazione plurilinguistica della Frale: «I ragazzini arabi dei suk della Gerusalemme attuale, quando scrivono, passano tranquillamente dalla grafia araba a quella latina dell’inglese. Il plurilinguismo della scritta della Sindone non mi sorprende affatto».

Invece Bruno Barberis, direttore del Centro internazionale di Sindonologia di Torino, non concorda con la Frale: «Premetto che devo leggere il libro per un giudizio completo. Comunque, già nell’opera precedente, questa studiosa faceva un accenno a tali ipotesi. Il nodo è che queste scritte sono tutt’altro che confermate. Non è mai stato fatto un rilievo fotografico che dia risposte definitive se sulla Sindone ci siano delle scritte. Del resto in molti vi hanno rinvenuto tantissime parole: sembra più un’enciclopedia che un sudario!». Barberis afferma che è prioritario «stabilire se queste scritte esistono. Che poi si giunga a conclusioni del genere della Frale, mi sembra fantascienza e fantastoria. Sono inoltre estremamente critico su queste ipotesi perché possono essere strumentalizzate dagli avversari della Sindone».


Sul tema, in rete, si cfr.:

SINDONE DI TORINO (Wikipedia)

OXFORD. LUCIANO CANFORA AL CONVEGNO SUL "PAPIRO DI ARTEMIDORO". Una sintesi della sua relazione



Lunedě 23 Novembre,2009 Ore: 18:01