Dialogo cristiano islamico
LA GIOIA DEL RACCONTARSI LA VITA

di p. Ottavio Raimondo, missionario comboniano

La testimonianza di chi vive quotidianamente la gioia dell'incontro


Lascio agli studiosi riflessioni più ragionate. Mi limito a raccontare la bellezza dell’incontro: la gioia del raccontarsi la vita. Presenterò momenti diversi, ognuno con una sua ricchezza: piccoli quadri di quotidianità che  possono arricchire la giornata che ci apprestiamo a celebrare. Alcuni di questi momenti li ho vissuti personalmente, altri me li hanno comunicati persone con le quali sto cercando di fare un cammino di dialogo. Ogni episodio ha le sue ricchezze e i suoi limiti, ma tutti ci dicono che è possibile il dialogo raccontandoci la vita.
 
Ottobre 2009. K. è un giovane fuggito dal Congo, dalla zona confinante con l’Uganda. La sua famiglia è musulmana. Attraverso molte peripezie è arrivato a Pesaro senza documenti, senza permessi. Lo abbiamo accolto dandogli ospitalità a turno nelle case di alcuni giovani. Abbiamo preso contatti con l’ambasciata del Congo e lo abbiamo accompagnato a Roma dove è riuscito ad avere alcuni documenti. In un incontro di preghiera, in inglese, ha cominciato a lodare il Misericordioso che ha messo sulla sua strada un gruppo di giovani cattolici che gli hanno ridato speranza. Ci incontriamo quasi ogni giorno alla ricerca di una soluzione alla sua non facile situazione. Una sera, ormai libero da paure, ci ha raccontato la sua vita e ha concluso: - Anche se dovessi essere respinto e ritornare al mio paese, vi ritornerei per raccontare a tutti come Dio è stato buono con me attraverso di voi.
 
Settembre 2009. Ricevo una bella e-mail che riporto integralmente. Questa mattina ero allo schalet dei giardini Margherita a Bologna a prendere il ginseng con mia sorella per ristorarla dalla lunga camminata e un vecchietto di 80 anni, marocchino, vu cumprà è venuto per venderci qualcosa. Abbiamo cominciato a parlare. È 20 anni che vive in Italia, perciò parla bene l'italiano. Gli ho chiesto se sta facendo anche lui il Ramadan e mi ha risposto di sì: mangerà e berrà solo alla sera e pregherà 5 volte al giorno. Gli ho chiesto di pregare anche in quel momento e lui deposte le borse, ha iniziato una preghiera in arabo con una tal fede che mi ha coinvolto e anch’io mi sono trovata lodando e benedicendo Dio per la preghiera che quell’uomo innalzava, per la visibile dedizione che dimostrava al suo Dio, per la ricchezza delle diversità con le quali Dio ha popolato il creato, per il nostro padre Abramo che ci unisce e per il nome di Gesù e Maria  che anche se con colori diversi portiamo dipinti nei cuori.
Alla fine gli ho chiesto di tradurmi qualcosa di quanto aveva pregato in arabo ed ha accennato a qualche acclamazione fatta ad Allah: Tu sei il misericordioso, Tu sei grande, Tu sei forte ecc. ecc.
Se ne è andato felice sotto gli occhi esterrefatti di mia sorella che, diffidando senza mezze misure degli arabi, ci guardava sbigottita.
 
Settembre 2009. Davanti alla stazione ferroviaria di Pesaro vedo una persona del Nord Africa che saluto cordialmente come se ci conoscessimo da sempre. Gli dico: “Ma tu hai sete. Ti offro una bibita”. La risposta, molto cordiale ma decisa: “Fino a questa sera alle 20.00 non posso prendere nulla”. Gli ho detto che lo ammiravo e che pregavo per lui perché avesse la forza di seguire il Ramadan. “Io sono musulmano ma stimo voi cattolici che una maglia (canottiera) non me l’avete mai negata”. Ci siamo dati una forte stretta di mano e abbiamo pregato insieme perché nel mondo nessuno neghi mai una maglietta a nessuno.
 
Luglio 2009. Mi telefona Bledi comunicandomi che è nata la sua prima figlia. Bledi viene dall’Albania e l’ho conosciuto 3 anni fa quando la ragazza italiana che ora è sua moglie me lo ha presentato. Li ho invitati a una pizza e abbiamo parlato a lungo della famiglia. Ho chiesto loro di fare un cammino abbastanza lungo di due anni prima di sposarsi. Nel frattempo con Bledi abbiamo letto brani del Corano e poi ha chiesto di partecipare ad un corso biblico per conoscere la religione della sua ragazza e della sua famiglia. Un giorno mi dice: - Ho capito qual’è la differenza tra i musulmani e i cristiani: noi musulmani siamo gli uomini della sottomissione, voi cristiani gli uomini della comunione (avevamo da poco letto il capitolo 14 di Giovanni). Quando si è sposato ha voluto che si celebrasse anche la Messa: - Io sto lì e ci staranno anche i miei amici musulmani, perché a me piace stare insieme. Fra non molto celebreremo il battesimo che lui stesso ha chiesto, sempre con la stessa motivazione: a me piace la religione della comunione. La mia risposta non si è fatta attendere: - E a Dio piacciono gli uomini e le donne come te che costruiscono un presente e un futuro di comunione nelle diversità.
 
Maggio 2008. Ero sull’eurostar Roma-Venezia. Un uomo di pelle piuttosto scura apre un pacchetto di biscotti e lo offre ai vicini. Tutti dicono: -No, grazie. Vado controcorrente e dico: - Si, grazie.
Dopo aver accettato il terzo biscotto tra noi era già nato un clima di fiducia. Quell’uomo, un pakistano, tira fuori dal portafoglio un pezzo di giornale ben piegato e mi invita a leggere. Il titolo dell’articolo: “Ambulante al Lido di Venezia trova un anello con un diamante e lo consegna alla polizia”. Per provocarlo gli dico: “Avresti potuto tenertelo così facevi un viaggio in Pakistan per vedere la tua famiglia”. La risposta immediata: “Ma non era mica mio?”. Poco dopo gli chiedo: “Come va con gli italiani?”. La risposta: “Con gli italiani molto bene, meno con l’italiano. Ho degli amici. Uno di loro ha perso il lavoro. Io il lavoro (ambulante) ce l’ho. Quando lo vedo lo invito al bar e gli offro un cappuccino”. Gli altri viaggiatori ci guardano con interesse. Ne approfitto e dico loro: - “E perché non preghiamo insieme con un uomo che non tiene per se un diamante non suo, con un uomo che sa condividere anche il cappuccino?
 
Maggio 2007. Accetto di fare un viaggio con una comitiva toscana per visitare i campi dei rifugiati dei Saharawi nel sud dell’Algeria. Essendo un popolo che è vissuto fino al 1975 in una colonia spagnola sa parlare questa lingua che mi permette di dialogare con loro. Il sabato alcuni della comitiva mi dicono se il giorno dopo non celebro Messa. Rispondo che non ho portato alcun segno particolare ma che ho con me un po’ di vino e un po’ di pane. Poi li invito ad andare dal responsabile del campo a fare la richiesta. La risposta: “Quando siamo stati noi in Europa nessuno ci ha obbligati ad essere cristiani, qui non possiamo obbligarvi ad essere musulmani”. La celebrazione è stata meravigliosa alla presenza di numerosi musulmani, in mezzo alle sabbie del deserto mentre un ragazzo e una ragazza facevano da altare tenendo nelle loro mani un pezzo ci carta con il pane e un bicchiere con il vino.
Il giorno dopo ci ha invitato a pranzo il presidente della repubblica Saharawi che ha voluto che l’ “imam cattolico” sedesse alla sua tavola e quando ci consegnò i distintivi della bandiera non me l’ha consegnato in mano ma l’ha appuntato sulla mia giacca rispondendo alla mia domanda in cui chiedevo il perché: “Abbiamo bisogno di diplomatici e di politici ma prima di tutto abbiamo bisogno di uomini di Dio”.
 
Febbraio 2007. Dopo tre anni vissuti a Bologna, padre Paul sta ripartendo per l’Indonesia dove è nato. È un frate francescano conventuale. Il babbo, un imam, lo aveva inviato alla scuola cattolica perché voleva per suo figlio una scuola di prestigio. A 18 anni, così racconta Paul, domanda a un frate chi era quell’uomo su quel pezzo di legno. Paul sottolinea il rispetto dei frati verso i giovani ai quali mai si erano rivolti con atteggiamenti di proselitismo. E poi continua: “Per me – parole testuali – fu motivo di grande emozione apprendere che quell’uomo aveva perdonato a chi lo aveva inchiodato su quel legno”. Da allora Paul cominciò a desiderare di essere anche lui come quell’uomo di cui ormai conosceva anche il nome: Gesù. Ne parlò con il papà. Fu un cammino lungo ma il papà si dimostrò un grande imam lasciando libero di il figlio di fare la sua propria scelta. “Abbiamo parlato da persone adulte, con rispetto e mi dispiace quando sento dire da chi si accontenta dei luoghi comuni, che noi musulmani siamo fondamentalisti. Mio papà non lo è. Nella mia famiglia (parentela) alcuni siamo musulmani, altri (pochi) cattolici, altri buddhisti, altri protestanti ed è bello perché “così facciamo festa tutto l’anno”. Le feste degli uni sono feste degli altri., le feste di tutti.  
 
 
Sogno che sul sito di www.ildialogo.org vengano raccolte altre testimonianza: È bello raccontarci la vita. Queste sono quelle che io ho vissuto in questi ultimi 3 anni.
Auguri.
Ottavio Raimondo, missionario comboniano
 


Giovedì 15 Ottobre,2009 Ore: 11:52