Davanti alla prima generazione incredula

di don Armando Matteo

Tratto da "L’annuncio cristiano ai giovani nel tempo della postmodernità" (la Rivista del clero italiano, 2-2009)


La Chiesa e i giovani
 
Che quello dell’ evangelizzazione dei giovani al tempo della post-modernità sia un tema aperto lo testimoniano molti fattori. Pochi anni fa, un'autorevole e sapiente voce laica aveva attirato l'attenzione della pubblica opinione sul caso.
 
“In Italia e anche in altri paesi folle devote riempiono ogni tanto con fervore le piazze e grandi occasioni rituali destano il momentaneo interesse della gente e dei media, ma le chiese si svuotano ogni giorno di più, sacramenti come il battesimo e il matrimonio religioso cadono sempre più in disuso e soprattutto sparisce la cultura cristiana e cattolica, la conoscenza dei fondamenti della religione e perfino dei più classici passi e personaggi evangelici, come si può constatare frequentando gli studenti universitari. Si tratta di una mutilazione per tutti, credenti e non credenti, perché quella cultura cristiana è una delle grandi drammatiche sintassi che permettono di leggere, ordinare e rappresentare il mondo, di dirne il senso e i valori, di orientarsi nel feroce e insidioso garbuglio del vivere” (C.Magris, Corriere della sera, 12.6.2004).
 
Ed è proprio così: i giovani si stanno disaffezionando alla pratica di fede. Le percentuali di coloro che frequentano corsi di catechesi post-cresimali sono scoraggianti, la disinvoltura con cui le nuove generazioni disertano l'assemblea eucaristica domenicale solleva più di una domanda circa l’effettiva interiorizzazione dell’annuncio di fede, le grandi associazioni cattoliche di antica data e i nuovi movimenti sembrano aver perso più di un colpo sul terreno della loro attrattiva sulle fasce dei giovani.
Ora la diminuzione di interesse, da parte dei giovani, per il mondo della fede solleva una prima seria domanda: quale spazio di attenzione e di investimento ecclesiali attira oggi la questione dell’annuncio del Vangelo alle nuove generazioni?
A prima vista, quella posta sembra una domanda piuttosto semplice, che potrebbe trovare un' altrettanto semplice risposta. Eppure non è così. Come nel caso della (non-) relazione tra società contemporanea e giovani, la qualità dell'attenzione di cui oggi può oggettivamente disporre l’evangelizzazione dei giovani nell’ambito ecclesiale è tema che tocca in profondità l'immagine che la Chiesa intende offrire di sé. Per questo richiede coraggio, sprezzatura, franchezza di spirito, autentico senso della responsabilità che l'annuncio del Vangelo comporta.
Su questa linea ci vengono incontro, profondamente illuminanti, alcune parole del cardinale Walter Kasper che vorremmo orientassero tutta la presente riflessione, in quanto le sintetizzano in maniera lucidissima:
 
“Giovanni XXIIII nel suo celebre discorso di apertura del concilio Vaticano II ha parlato del futuro con un ottimismo che oggi ci sembra quasi ingenuo ed ha promesso alla Chiesa una nuova pentecoste. Dopo questa fase, relativamente breve, di fioritura, la Chiesa ha tuttavia ripreso ad aver paura del suo proprio coraggio. Si ha ora di nuovo paura del rischio, che libertà e futuro comportano, e ci si è votati in larga parte ad un'opera di conservazione e ci restaurazione Tuttavia se la Chiesa diventa l'asilo di quanti cercano riposo e riparo nel passato, non deve meravigliarsi se i giovani le voltano le spalle, e cercano il futuro presso ideologie e utopie di salvezza, che promettono di riempire il vuoto che la paura della Chiesa ha lasciato libero” (Introduzione alla fede, pp.187-88).
 
Parole certamente dure, nette, anche spiazzami, ma non per questo meno vere.
La questione relativa all'annuncio del Vangelo ai giovani di questo tempo richiede, infatti, senz'altro coraggio. Innanzitutto è necessario il coraggio di riconoscere che tra Chiesa e giovani oggi esiste una sorta di ordinaria incomprensione, di parallelismo di cammini, che produce, da una parte, chiese sempre più vuote e dall'altra esistenze senza più chiesa.
Ci vuole coraggio per guardare in volto la generazione giovane che abbiamo davanti prima dì iniziare a parlare di e a questa generazione. Ci vuole coraggio per distinguere ciò che è vivo e ciò che è morto nell'odierna prassi pastorale e nella relativa teologia pastorale che la giustifica.
Ci vuole coraggio nel riconoscere accanto alle attuali forme di attenzione da parte delle Conferenze episcopali al mondo giovanile, fortemente incentrate sui grandi incontri delle Giornate Mondiali della Gioventù, sui pellegrinaggi ai Grandi Santuari, e, nel caso italiano, sull'Agora dei giovani italiani - tutte esperienze extraparrocchiali - un qualche immobilismo della vita ordinaria delle parrocchie, dove potrebbe maturare e crescere un'autentica coscienza credente, giovane o meno giovane che sia.
Solo sulla base di questo coraggio può nascere qualcosa come il rischio di una nuova scommessa su e per un annuncio del Vangelo ai giovani del nostro tempo (pp. 121-122).
 
 
Un mondo senza Dio
 
L’assenza di Dio nella vita dei giovani si deve alla profonda rivoluzione culturale che ha investito l'Occidente negli ultimi cento anni. In questo lasso dì tempo, la coscienza comune iniziato a decifrare l’enigma dell'umano facendo lentamente a meno della grammatica offerta dalla tradizione, ampiamente gravitante nell'orbita del cristianesimo. E quest'ultimo è stato trascinato nel processo di obsolescenza toccato al tradizionale sapere sull'umano. La cosa sia detta qui senza alcun tipo di giudizio sulla convenienza o meno di tale operazione. È qualcosa che ci è accaduto, e che ora dobbiamo comprendere, per poter valutare correttamente. Non si lotta mai contro la storia.
Dalla fine dell'Ottocento si è iniziato a imporre innanzitutto il rinnegamento del tradizionale modello platonico di dare un ordine alle cose del mondo, con la fondamentale distinzione ontologica e assiologica tra finito e infinito e con l'ulteriore indicazione della consistenza e destino eterni dell'anima umana: i maestri sono qui Darwin, Freud, Nietzsche, il tempo della seconda industrializzazione, i quali hanno convinto l'Occidente a guardare con occhi diversi il finito, la sua durezza e la sua amabilità, la sua consistenza e anche la sua potenzialità.
I primi decenni del secolo successivo registrano l'avvento di un nuovo canone di esercizio della razionalità: meno preoccupato dell'oggettivo e più interessato a tessere trame di relazione tra la realtà ed il polo affettivo-emozionale del soggetto umano, meno segnato dall'azione di distinzione e più incline alla coniazione, meno ossessionato dal criterio della verità e più disponibile alla pratica della traduzione.
È emersa qui la forza dei pensieri e delle opere di Picasso, Joyce, Guardini, Kafka, Schoenberg, Husserl, Buber, i quali hanno sconvolto l'episteme aristotelica, la forma del metodo cartesiano, l'impostazione kantiana dei confini del sapere.
Il secolo Ventesimo passerà alla storia come il secolo della tecnoscienza: lo sganciamento della ricerca tecnica dalla immediata risposta ai problemi concreti dell’esistenza umana e la sua totale dedizione al perfezionamento dei propri prodotti, a prescindere dalle funzioni pratiche che questi ultimi potranno in seguito assolvere, rappresentano l'atto di nascita del mondo attuale. La cosa ha avuto grandissimo successo per gli immediati benefici, anche al di là delle concrete speranze e proiezioni dei singoli: è aumentata la mobilità, la capacità di comunicate, è migliorata la pratica sanitaria, l’economia si è trasformata in finanza. E, oltre una certa soglia, la quantità si trasforma in qualità: la vita umana non viene dalla tecnica, semplicemente abilita a fare più cose e a farle contemporaneamente. Viene più profondamente avviata a un diverso modello di percezione e valutazione dell'agire stesso. Si impone l'imperativo categorico dell'autoperfezionamento: si deve sperimentare ciò che è tecnicamente sperimentabile. La vita è possibilità, è esperimento: is now!
In tal modo diventa insignificante il modello agostiniano dell'etica del sacrificio, al suo posto subentra l'etica della promozione, della possibilità, dell'autosuperamento. Il '68 nelle sue forme bizzarre e anarchiche celebra proprio tutto questo: il suo felice slogan del 'vietato vietare' getta lunghe ombre su ogni aspetto del sapere tradizionale dell'umano e sulle forme istituzionali attraverso le quali esso si trasmetteva. Così anche il cristianesimo, almeno nella sua forma classica, ampiamente debitrice a motivi platonici, aristotelici, del diritto romano, dell'impostazione teologica di Agostino c dì Tommaso, finisce nel cono dell’irrealtà, di ciò che Danièle Hervieu-Léger chiama processo di ‘esculturazione’: opacizzazione della capacità del Vangelo di contribuire all'umanizzazione dell'esistenza e del mondo con il venir meno del sostegno offerto dalla cultura diffusa alla sua assimilazione.
Qui origina comprensibilmente una certa avversione nei confronti del tempo che ci tocca vivere, ripetutamente qualificato con l'epiteto di relativismo, nichilismo, consumismo ecc., senza a volte rendersi conto che nessuno di noi, neanche gli ecclesiastici, saprebbero più vivere in un mondo senza igiene, senza internet, senza i cellulari, senza gli aerei, senza quel tocco di eleganza che vogliamo che ci contraddistingua, senza il benessere medio su larga scala, senza la possibilità di offrire sempre e comunque un'altra versione delle proprie parole. E mai come in questo caso un certo modo di vivere dipende anche da un certo modo di pensare la vita. Si tratta, a mio avviso, piuttosto di capire e valutare i costi e la sostenibilità che lo standard di vita attuale comporta, se cioè il postmoderno stare al mondo senza Dio sia in grado di rendere ragione delle speranze che accende in tutti noi.
Ma torniamo per un momento ai giovani. Le nuove generazioni sono nate da genitori fortemente investiti dall'avvento della sensibilità postmoderna e quindi dal suo lento ma non per questo meno inesorabile divenir “estranea” al cristianesimo: hanno respirato una cultura che estrometteva tutti i punti d'aggancio sui quali la teologia cristiana aveva puntato per dire la bontà di Dio per una vita pienamente umana. Si pensi al concetto di eternità, di una verità, di sacrificio, di una prospettiva storica, di salvezza, di rinuncia, di limite, di legge e di ordinamento giuridico naturali. Hanno imparato a cavarsela senza Dio e così hanno insegnato a fare ai loro figli. Hanno disimparato a credere e a pregare e così non hanno potuto trasmetterlo ai loro figli. Hanno forse ancora mantenuto un legame affettivo (re-ligio) ai riti ecclesiali, ma privo di ogni consistenza di fede. Nasce in tal modo la prima generazione incredula della storia dell'Occidente.
Di essa si tratta ora di prendersi cura, nella ferialità preziosa delle parrocchie e delle attività delle associazioni e dei movimenti, con il coraggio di formulare un'ulteriore domanda: come può la comunità credente interessarsi dei giovani in modo da rendersi interessante per gli stessi giovani? (pp. 126-128).
 
 
*Armando Matteo
Nato a Catanzaro (1970), ha studiato filosofia e teologia ed ora insegna presso l’Istituto Teologico Calabro e presso la Pontificia Università Urbaniana a Roma. È Assistente ecclesiastico nazionale della FUCI. Ha pubblicato il saggio Della fede dei laici. Il cristianesimo di fronte alla mentalità postmoderna (2001), il racconto L’imperdonabile (2005) e le due opere a cui fa riferimento il programma dell’incontro: Presenza infranta – il disagio post-moderno del cristianesimo (Cittadella editrice, 2008) e Come forestieri – Perché il cristianesimo è divenuto estraneo agli uomini e alle donne del nostro tempo (Rubbettino, 2008).
 

Articolo tratto da:
FORUM (101) Koinonia
http://www.koinonia-online.it
Convento S.Domenico - Piazza S.Domenico, 1 - Pistoia - Tel. 0573/22046



Martedì 14 Aprile,2009 Ore: 14:24