A CINQUANT’ANNI DALL’INIZIO DEL CONCILIO VATICANO II
RILEGGENDO ERASMO DA ROTTERDAM

LA CHIESA E L’ALLEGORIA DEI SILENI

A cura di Raffaello Saffioti

LA CHIESA E L’ALLEGORIA DEI SILENI

di

ERASMO DA ROTTERDAM

CINQUECENTO ANNI FA

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Passi scelti da

I Sileni di Alcibiade

A cura di Raffaello Saffioti

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INTRODUZIONE

I Sileni di Alcibiade è uno dei saggi raccolti negli Adagia , di Erasmo da Rotterdam, a cura di Silvana Seidel Menchi, Einaudi, 1980.

Il volume che presentiamo al lettore italiano raccoglie i sei proverbi di contenuto politico-religioso che assunsero forma di saggio nell’edizione basileese degli Adagia uscita dai torchi di Froben nel 1515.

Collocate nella breve prospettiva dell’annuale o del quotidiano, queste pagine celeberrime, che sono state finora lette e interpretate in una prospettiva millenaria – cogliendone i rapporti con il patrimonio culturale dell’antichità classica, oppure inserendole nella tradizione cristiana e patristica – acquistano di concretezza senza perdere niente della loro straordinaria vitalità”.

(Silvana Seidel Menchi, “Introduzione” agli Adagia, pp. LXI, LXIV)

I TEMPI DI ERASMO (1466-1536)

Pur essendo blandito, proprio in quegli anni, dai papi Giulio II, il guerriero, e Leone X, il mecenate, egli prende di mira soprattutto la chiesa. Interessante notare che gli Adagia uscirono (1515) proprio mentre si celebrava il Concilio Lateranense V, che avrebbe dovuto affrontare la riforma della chiesa cattolica e invece si perse in questioni improprie, come la crociata contro i Turchi (a cui Erasmo allude), aprendo così la strada alla riforma protestante.

Antica ma attualissima è la domanda a cui Erasmo risponde: perché la chiesa, il cui titolo di presenza nel mondo è la predicazione del Vangelo e cioè del messaggio di pace più radicale, è diventata complice, se non addirittura responsabile di guerre? La causa, anzi la catena delle cause, è questa: la semplicità del Vangelo è rimasta seppellita sotto la filosofia di Aristotele, intimamente classista, e sotto il diritto romano, il cui principio è la difesa della proprietà. Questa deviazione dottrinale è andata di pari passo con la crescita, nella chiesa, delle ricchezze e del potere. Insomma, diremmo noi col nostro linguaggio, il Vangelo è diventato un’ideologia del possesso e del dominio”.

(E. Balducci-L. Grassi, La pace. Realismo di un’utopia, Principato, 1983, p. 31)

La società cristiana, della quale egli si sente membro vivente, è percorsa da tensioni, è lacerata da conflitti, che stimolano il suo spirito critico, sfidano la sua ironia, eccitano il suo sdegno morale. Quell’Italia, alla quale è approdato come patria delle buone lettere, è ridotta a teatro di guerre ostinate.

Sotto lo stimolo delle esperienze romane, il dotto che ormai circola in Italia sotto l’etichetta di ‘autore di proverbi’, portandosi il suo libro in saccoccia, pronto a consultarlo all’occasione, percepisce come un po’ angusta e intellettualistica quella scienza dell’antichità, nella quale ha dato una così notevole prova di sé. Suo campo d’azione, suo compito specifico gli appare ora la teologia, ‘che non si limita a coltivare l’intelletto, ma riguarda anche la pietas della vita’. (…) Erasmo anela a una società di uomini, nella quale questa sua professione di teologo e di critico della società cristiana possa trovare un campo d’azione simpatetico.

Così Erasmo lascia Roma e l’Italia, dove non rimetterà piede mai più. Vi ha portato a compimento la sua prima grande fatica filologica, vi ha espresso se stesso come linguista e umanista. Ma vi ha anche accumulato un patrimonio di esperienze, di meditazioni e di idee sulla guerra, sul potere, sulla Chiesa, sulla figura e la missione del pontefice, che sono rimaste inespresse o sono state espresse in opere destinate ad andare perdute. Solo in parte quelle idee e quelle formulazioni confluiranno in un divertissement, che l’umanista concepisce ed elabora durante il viaggio per l’Inghilterra, per ingannare la noia delle lunghe giornate passate a cavallo: l’ Elogio della pazzia” (Silvana Seidel Menchi, “Introduzione”, cit.).

Alcune opere di Erasmo furono condannate e inserite nell’ “Indice dei libri proibiti”.

Come dice ancora la curatrice del volume, i saggi subirono pesanti interventi della censura dopo il Concilio di Trento e “furono sottratti in modo almeno intenzionalmente definitivo al lettore italiano. Per la prima volta a distanza di quattro secoli, essi gli vengono ora riproposti nella loro integrità”.

Una domanda, per concludere, ripresa dalla copertina del periodico “Koinonia”, n. 7, luglio 2012:

“ “ECCLESIA SEMPER REFORMANDA” ”

SI’, MA COME E DA CHI?”

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DA “I SILENI DI ALCIBIADE”

(I titoletti sono redazionali)

Chi erano i Sileni?

Fra la gente di cultura i Sileni di Alcibiade sono passati in proverbio, se non erro: per lo meno con valore proverbiale compaiono nelle raccolte di proverbi greci. L’espressione potrà essere applicata a una cosa che dall’aspetto e, come si dice, dalla corteccia appaia dozzinale e ridicola, mentre risulta ammirabile a osservarla più addentro e dappresso, ovvero a una persona che dalla veste e dalla faccia dia ben poco a vedere della ricchezza che racchiude nell’animo. In effetti, stando a quel che si tramanda, i Sileni erano una sorta di figurine a intaglio, eseguite in modo da poter essere aperte e spiegate: quando erano chiuse riproducevano l’immagine, comicamente deforme, di un sonatore di flauto, aprendosi rivelavano d’un tratto un’immagine divina. Era una specie d’inganno, uno scherzo che faceva apprezzare di più l’arte dello scultore. Le statuette avevano come soggetto quel ridicolo Sileno, che nella mitologia figura come precettore di Bacco e come buffone degli dei (anche loro hanno i propri buffoni, esattamente come i principi dei nostri tempi). Per questo il giovane Critobulo, nel quinto libro di Ateneo, si prende gioco di Socrate, vecchio e repellente, definendolo “molto più brutto dei Sileni”. D’altra parte nel Simposio di Senofonte c’è un passo che riporta uno scambio di battute fra Socrate e Critobulo: “Come ti vanti! Quasi che tu fossi più bello di me” dice il primo; “Certo che lo sono, per Giove” replica il secondo “altrimenti sarei il più sconcio di tutti i Sileni che si trovano fra i satiri”. E nel Simposio di Platone, Alcibiade, levandosi a fare l’elogio di Socrate, lo paragona appunto a quei Sileni che abbiamo ricordato di sopra: perché a chi lo osservava dappresso Socrate rivelava una sostanza ben diversa dalla sua apparenza esteriore e dal suo aspetto.

Cristo non fu un Sileno?

Cristo non fu forse un meraviglioso Sileno? Se è legittimo parlare di lui in questi termini, non so (ma per conto mio non capisco perché tutti quelli che si fanno un vanto di chiamarsi cristiani, non dovrebbero cercare di adeguarsi, ognuno secondo le proprie forze, al modello di Cristo). Guarda un po’ l’aspetto esteriore del Sileno: stando ai criteri ordinari di valutazione, non si poteva scendere più in basso, esporsi di più al dispregio. I genitori? Gente qualunque e priva di mezzi. La casa? Più che modesta. L’uomo? un diseredato. I discepoli? pochi e senza risorse. Quando li chiamò a sé, non stavano nei palazzi dei grandi, sui pulpiti dei farisei o nelle scuole dei filosofi, ma dietro i banchi dei gabellieri o alle reti dei pescatori. La vita? Esente da ogni piacere, trascorse tra fame, stanchezza, insulti e scherni, fino al suo punto d’approdo, la croce.

Sotto questo aspetto Cristo si presentò allo sguardo di quel cantore profetico, che tratteggiò così la sua figura: “Non v’era in lui forma, né bellezza alcuna; e noi l’abbiamo veduto, e non v’era cosa alcuna ragguardevole, perché lo desiderassimo: egli è stato sprezzato, fino a non esser più tenuto nel numero degli uomini”, e tutto quel che segue nello stesso tono. Ma se avrai la fortuna di veder da vicino questo Sileno, quand’è aperto, (vale a dire, se egli consentirà di rivelarsi all’uomo, schiarendogli gli occhi dell’animo), allora, eterno Iddio, che indicibile tesoro scoprirai! Nella scorza spregevole troverai una rara perla, nella profonda abiezione una vertiginosa altezza, nella povertà estrema una ricchezza grande, nella debolezza totale una forza non credibile, nella più bassa ignominia una gloria eccelsa, nei più aspri travagli la pace assoluta e, infine, nella morte precoce una perenne sorgente d’immortalità. Perché quelli che si fregiano del nome di Cristo, e se ne vantano, hanno così poco in comune con quest’immagine? Ovviamente era in potere di Cristo insediarsi quaggiù come monarca universale e toccare una meta che gli imperatori romani perseguirono invano, avere un corteggio più numeroso di questo o quel Serse, mettere in ombra la ricchezza di questo o quel Creso, ridurre al silenzio tutti quanti i filosofi e spogliarli del vano applauso del mondo. E invece no: un’altra immagine egli volle assumere, lo si è visto, per proporla come modello esclusivo ai suoi discepoli e amici, cioè ai cristiani; un’altra filosofia, lo si è visto, egli elesse e preferì, una filosofia che non ha assolutamente nulla in comune con le dottrine dei filosofi e con le regole del mondo, ma che garantisce , essa sola, quello che tutti cercano, chi per una via chi per un’altra: la felicità.

Gli antichi profeti

In questo senso erano dei Sileni gli antichi profeti. Raminghi e vagabondi, passavano la vita fra le bestie, in luoghi solitari, si nutrivano di umili erbaggi, vestivano pelli di pecora e capra. Ma chi ficcò il suo sguardo dentro a questi Sileni, disse che “di essi non era degno il mondo”. In questo senso fu un Sileno Giovanni Battista: con la sua tunica di peli di cammello, con la sua cintura di pelle, egli mise in ombra le porpore e le gemme dei re; cibandosi di locuste, si lasciò indietro le delicatezze di tutti i principi. C’era chi ben vedeva che tesoro si celasse sotto la ruvida scorza e condensava in un mirabile elogio tutte le sue lodi dicendo. “Fra quelli che son nati di donne, non sorse giammai alcuno maggiore di Giovanni Battista”.

Gli Apostoli

In questo senso, furono dei Sileni gli apostoli: poveri, rozzi, incolti, oscuri, deboli, spregiati, esposti d’ogni lato ad ogni oltraggio, irrisi, osteggiati, maledetti, fatti segno ad un tempo di odio generale e di generale scherno agli occhi, starei per dire, del mondo intero. Ma ecco, aprimi il Sileno. Questi con un motto s’impongono ai demoni, placano con un gesto la furia dei mari, richiamano in vita i morti con una parola: quale tiranno potrà mai pareggiare la loro potenza? Con la sola ombra del corpo restituiscono la salute ai malati, con il semplice tocco della mano comunicano lo spirito divino: quale Creso non sembrerà un pezzente al loro confronto? Direttamente alla sorgente essi attinsero quella divina saggezza, che fa apparire al confronto ogni saggezza umana come pura follia: quale mai Aristotele non risulterà in confronto a loro balordo, ignorante e ciarliero? (sia detto con buona pace di coloro che considerano un’infamia e un sacrilegio intaccare in qualche punto l’autorità di Aristotele: non voglio negare che sia stato un uomo di eccezionale dottrina, ma quale lume, per quanto splendente, non impallidisce in confronto a Cristo?) Allora sì che il regno dei cieli somigliava a un granello di senape: minuscolo e insignificante d’aspetto, in effetti grandissimo, totalmente diverso, l’ho già detto, e diametralmente opposto alla regola del mondo.

In questo senso, fu un Sileno il celebre vescovo Martino, spregiato e deriso. In questo senso furono Sileni i vescovi dell’antichità, sublimi d’umiltà, ricchi nella povertà, incuranti di gloria e perciò gloriosi.

Non c’è vescovo più alieno dall’ufficio episcopale di quelli che, fra i vescovi, vanno per la maggiore. (Torno a pregarti, lettore, di non credere che io voglia screditare qualcuno in particolare: prendo di mira il vizio, non gli uomini. Mi auguro che, di persone centrate dalle mie considerazioni, non ce ne sia nessuna. Ma se ora non ce ne sono – lo voglia Cristo! -, ce ne furono in passato e ce ne saranno forse in futuro). E che dire di quelli che per titolo, abito e cerimonie pretendono di rappresentare la perfezione in fatto di religione? Magari non fosse vero che, anche loro, dalla religione vera sono lontanissimi!

La conoscenza

Lo stesso principio vale nel campo della conoscenza. La verità autentica si tiene sempre profondamente nascosta e non si lascia cogliere facilmente né generalmente. La gente grossa giudica a rovescio: siccome assume sempre, come criterio di valutazione, l’aspetto più immediato, più materialmente tangibile delle cose, di conseguenza ad ogni pié sospinto incespica e cade in errore, si lascia illudere da false immagini del bene e del male, ammira e pregia i Sileni alla rovescia. Sto parlando dei cattivi. I buoni non si sentano offesi. Per la verità, non si dovrebbero sentire offesi neanche i cattivi: una serie di considerazioni sui vizi in generale non reca personalmente oltraggio a nessuno. Ma è gente, alla quale le mie parole si attagliano a puntino: magari ce ne fosse meno!

Ci sono taluni che portano la chierica rasata: tu, giudicandoli dall’insegna, li onori come sacerdoti, ma se ficchi lo sguardo dentro al Sileno li troverai peggiori dei laici. Questa esperienza vale forse anche per qualche vescovo. Se assisti alla sua solenne consacrazione, se guardi il suo addobbo inconsueto, la mitra splendente d’oro e di gemme, il pastorale adorno anch’esso di gemme, insomma tutta la mistica armatura che lo ricopre dalla testa ai piedi, tu lo ritieni fermamente una creatura celeste e sovrumana. Ma prova a capovolgere il Sileno: non troverai (qualche volta) nient’altro che un uomo di guerra, un uomo d’affari, un tiranno addirittura. Allora concluderai che quell’addobbo prestigioso era tutta una farsa. (…) Torno a ricordare che nessuno si deve sentire offeso da quello che dico: di nomi, qui, non se ne fanno. Uno non appartiene a questa genia? Faccia conto che le mie parole non lo riguardino. Un altro riconosce nella mia descrizione il morbo che lo travaglia? Faccia conto d’essere stato ripreso. Il primo si può compiacere di sé; il secondo dovrebbe essermi grato.

La Chiesa è il popolo cristiano

… chi dice “chiesa” intende riferirsi a sacerdoti, vescovi e sommi pontefici. Ma costoro della chiesa non sono altro che i servitori. La chiesa invece è il popolo cristiano: quel popolo che Cristo in persona proclama così venerabile, da meritare che i vescovi lo servano a mensa. I vescovi in tal modo perderanno sì di deferenza, ma per un altro verso aumenteranno di statura. A condizione però che seguano le orme di Cristo non solo per successione d’ufficio, ma anche per vita e costumi: quel Cristo che, pur essendo re e signore universale a pieno titolo, assunse veste di servo, non di signore. Se uno detrae qualche soldarello dalle casse del clero, si vede scagliare addosso tuoni e fulmini: si sente definire “nemico della chiesa” e poco meno che eretico. Non che io voglia mettermi dalla parte del prevaricatore: nessuno mi ha da intendere in questo senso. Ma chi si compiace di coltivare l’odio contro il nemico della chiesa, rifletta un momento: la chiesa può avere nemico più funesto o fatale di un pontefice senza religione? Se appena appena si intaccano le proprietà fondiarie o le rendite del clero, da tutte le parti si leva un grido: “Si opprime la chiesa cristiana!” Quando però si dà fiato alla tromba per chiamare il popolo intero alla guerra, quando la pubblica immoralità del clero conduce migliaia e migliaia di anime in perdizione, allora nessuno si leva a denunciare e lamentare il pericolo che minaccia la chiesa: eppure è proprio allora che essa va in rovina. Si sente dire che la chiesa “gode di onore e prestigio”. Perché? Forse perché si rafforza nel popolo il sentimento religioso, perché i vizi perdon terreno, la moralità si rinsalda, perché fiorisce la scienza delle cose sacre? Oh no!, bensì perché gli altari luccicano d’oro e di gemme, o meglio perché gli altari giacciono nell’abbandono e nell’indifferenza: ché il clero, a forza di proprietà fondiarie e di servitù, di muli e di cavalli, a forza di dispendiose costruzioni di tempi o, meglio, di palazzi, e in genere a forza di vivere in modo ostentato e chiassoso, si è ridotto alla stregua di satrapi orientali.

… Ebbene, che razza di giudizi vi immaginate che circolino fra i nemici della fede cristiana? Nel Vangelo essi trovano scritto che Cristo predica l’incuria delle ricchezze, l’abdicazione ai piaceri e l’indifferenza alla gloria; ma in pratica essi vedono i principi e i capi della chiesa cristiana impegnati nell’accumulazione della ricchezza, cupidi di piaceri, coinvolti nel lusso, in guerre spietate e in quasi tutti gli altri vizi, come e peggio dei pagani. Il lettore avveduto, a questo punto, sa intuire ciò che io, per riguardo del buon nome cristiano, passo sotto silenzio, sa interpretare il mio segreto sospiro. Ti figuri le risate degli avversari? Nel Vangelo essi trovano scritto che Cristo non volle contrassegnare i seguaci con abiti, cerimonie o cibi speciali: egli volle che i suoi si dessero a conoscere per cristiani da un solo segno, il vincolo dell’amore reciproco.

Uno dice o scrive una parola che discorda, per un verso o per l’altro (magari si tratta solo di una divergenza grammaticale), dalle professorali proposizioncelle dei teologi? Ecco che si parla di “eresia”. Da un’altra parte invece si proclama componente fondamentale della felicità umana qualcosa che Cristo in persona dichiara ad ogni pié sospinto immeritevole di considerazione: e questa non sarebbe eresia? Oppure si adotta uno stile di vita che diverge sostanzialmente dai precetti del Vangelo e dagli ordinamenti degli apostoli. Oppure si mette in mano agli apostoli, in partenza per la loro missione evangelica, non già la spada dello spirito (che taglia via tutti gli appetiti terreni e rende superflua ogni altra spada), bensì la spada di ferro per difendersi dalle persecuzioni. Un bel rovesciamento dell’intenzione di Cristo!

A questo punto però mi sembra quasi di sentire levarsi contro di me la tacita obiezione del lettore: “Dove vuoi andare a parare

con queste che m’infilzi insulse ciance?

Vuoi forse dire che il principe ha da essere tale, quali sono gli immaginari governanti della repubblica di Platone? Vuoi forse spogliare i sacerdoti di potere e di dignità, di gloria e di ricchezza, per ridurli alla bisaccia e al bastone degli apostoli?” Dici bene. Io non li spoglio: li doto di più degne ricchezze. Io non li esproprio: li sprono a porsi obiettivi più alti.

Ma dove mi ha portato il filo del discorso? Volevo fare il compilatore di proverbi, ed eccomi diventato predicatore. E’ tutta colpa di Alcibiade, che con i suoi Sileni ci ha coinvolti, allegro e alticcio com’era, in una disquisizione tanto seria. Eppure non è un errore di cui mi pento. Quello che non vale a elucidare il proverbio, varrà a riformare il comportamento; quello che non promuove il sapere, promuoverà la coscienza; quello che non risulta pertinente al mio programma di lavoro, risulterà pertinente, spero, al nostro modo di vivere.

(da I Sileni di Alcibiade, in Adagia, a cura di Silvana Seidel Menchi, Einaudi, Torino, 1980, pp. 61-119, passim)

Palmi, settembre 2012

A cura di Raffaello Saffioti

Centro Gandhi

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Mercoledì 05 Settembre,2012 Ore: 23:28