Vita delle chiese
Conversazione con il Padre Adolfo Nicolás,

Superiore Generale della Compagnia di Gesù


di Rivista Popoli

Riprendiamo questa intervista dalla rivista POPOLI - Mensile internazionale di cultura e informazione missionaria della Compagnia di Gesù (http://www.popoli.info/). Il testo originale dell’articolo si trova al seguente link: http://www.popoli.info/anno2008/03/0803nicolasIT.htm

Questa intervista - registrata il 10 febbraio - è in assoluto la prima rilasciata dal nuovo Padre generale. Si tratta di una conversazione che padre Adolfo Nicolás ha avuto con tre gesuiti dell’Équipe di comunicazione della 35ª Congregazione generale: Tom Rochford, Pierre Bélanger e Dani Villanueva. È stata messa a disposizione anzitutto delle comunità dei gesuiti di tutto il mondo e degli organi di informazione legati alla Compagnia di Gesù. Una versione ridotta (in italiano) viene pubblicata sul numero di aprile di Popoli. Alla traduzione in italiano ha lavorato un gruppo di gesuiti a cui va il nostro ringraziamento: Nicola Bordogna, Eraldo Cacchione, Sergio Cavicchia, Fausto Gianfreda, Gabriele Gionti, Nicola Gobbi, Sergio Sala, Angelo Schettini, Alessandro Viano.
Di seguito il testo dell’intervista


Speciale


Conversazione con il Padre Adolfo Nicolás,
Superiore Generale della Compagnia di Gesù
(domenica 10 febbraio 2008)

Padre Generale, grazie per averci concesso questo incontro.
Prima di rilasciare qualsiasi intervista alla stampa, desidero rivolgermi in forma più personale a tutti i gesuiti sparsi per il mondo, e agli amici e amiche della grande famiglia ignaziana. Mentre parlo con voi tre mi immagino davanti all’universale Compagnia e a coloro che lavorano con noi. Magari con questa conversazione posso avvicinarmi un po’ di più a tutti e a tutte.


Ci racconti qualcosa della sua storia, che possa far comprendere chi è lei, e innanzitutto la sua vocazione.
Penso che la mia infanzia abbia molto a che vedere con la persona che attualmente sono. Sono nato in Spagna nell’aprile del 1936. Fu immediatamente prima della Guerra Civile. Nei tre anni precedenti nel paese ci furono molti disordini e agitazioni. C’erano minacce e omicidi ovunque. Non appena io nacqui, persone della città vicina minacciarono di uccidere mio padre, perché era un leader del suo paese e aveva assunto una posizione molto forte in difesa del Cattolicesimo contro la città vicina dove la popolazione si era schierata con i comunisti. Fortunatamente suo fratello stava lavorando in quella città e venne a conoscenza del complotto. Allora informò mio padre dicendo: "questa notte verranno a prenderti". Così mio padre dovette fuggire e il solo luogo dove poter rifugiarsi fu l’esercito. Fu così che cominciammo a spostarci.
Quindi, la mia infanzia fu caratterizzata dal "movimento": da un villaggio ad un altro quando mio padre era nel Nord, dove nacque mio fratello più giovane (a Santander), poi a Barcellona, dove vissi dall’età di 4 anni fino ai 13. E’ lì che sono cresciuto. Nella mia vita posso ritrovare l’influenza di Barcellona, ma anche quella del mio continuo peregrinare. Una statistica interessante per comprendere la mia persona: dall’inizio dell’età scolare fino alla fine delle scuole superiori ho frequentato 7 scuole diverse. Per un bambino questa è un’esperienza dolorosa. Appena si trovano degli amici, si deve lasciarli, e quando hai trovato nuovi amici di nuovo devi lasciarli...
Più tardi, però, ho visto come in realtà questa sia stata una benedizione: quando andai in Giappone, a partire dalla scuola di lingua ogni 6 mesi avevamo una differente comunità. Io, però, ero abituato dal tempo della mia infanzia a vivere con nuove persone, ad intessere nuovi contatti, perciò questo mi ha aiutato molto per la mia vita missionaria. Ho dovuto viaggiare parecchio nel Sud-Est Asiatico. Ho incontrato paesi, luoghi e comunità differenti, e la mia passata esperienza ha certamente reso tutto ciò più facile. Pertanto, la sofferenza della mia infanzia si è trasformata in una benedizione per il mio futuro.
Un altro aspetto interessante: il fatto di essere nato in una famiglia di lavoratori, in un villaggio, mi ha dato una grande capacità di ammirare la semplicità, anche se non l’ho sempre vissuta nel modo migliore. Relazioni semplici, una vita semplice, persone non molto sofisticate: tutto questo mi piace. Sebbene in un secondo momento sia vissuto in città come Barcellona o Madrid, questa semplicità del villaggio e anche i cieli "aperti" della Castiglia, i suoi vasti orizzonti, sono stati importanti per me.
Mio fratello maggiore ha scritto un poema sulla Castiglia: "Castiglia, dove le strade salgono, tutte verso l’alto". In Castiglia è fiorita la mistica; ciò potrebbe trovare la sua origine nei cieli "aperti", nei vasti orizzonti. Voglio citare un aneddoto in proposito: in Giappone fui molto sorpreso di una copertina che fu stampata quando scrissi un libro sulla vita religiosa intitolato "Orizzonti di speranza". Per me l’orizzonte era quello della mia infanzia, ampio, dove puoi vedere lontano. In Giappone, però, divenne abbastanza stretto: l’orizzonte è là, appena davanti ai tuoi occhi. Perché questo è quello che vedono in Giappone, non c’è spazio: lì non puoi vedere vasti orizzonti. Allora compresi la differenza di prospettive.
Aggiungerei anche che la Castiglia non ha solo vasti orizzonti, ma anche quello che io chiamerei "un parlare aperto". E dunque, non mi piace nascondere le cose; non mi piacciono le "mezze parole". Preferisco un linguaggio diretto. Il Giappone mi ha "ingentilito", mi ha insegnato a non essere troppo brusco, ma io sono trasparente: non mi piace nascondere le questioni o girarci intorno.


Lei ha citato il carattere cattolico della sua famiglia: è una cosa che ha contribuito a renderla quello che lei è?
Sì, certamente; ci sono due interessanti aspetti da citare. Il cattolicesimo dei miei genitori può essere definito quello di un "villaggio cattolico", un villaggio castigliano dove il cattolicesimo è forte, costante, tradizionale. Ma il fatto che dovemmo spostarci, rese i miei genitori e specialmente mia madre particolarmente flessibile. Così ella imparò a trovare un modo per aggiustare le differenti situazioni a tal punto che alla fine della sua vita era una sorta di "consulente". Non ha mia studiato oltre la scuola elementare, ma era praticamente la "consulente" di tutti i vicini. Loro venivano per chiedere consigli, e lei era davvero elastica e aperta nel trattare con le persone.
Se avesse chiesto a lei o a mio padre che cosa pensavano, le loro risposte sarebbero state molto in linea con il pensiero tradizionale della Chiesa Cattolica. Se la gente, però, andava da loro con dei problemi, erano abili ad aprire nuove strade, non solo a dare risposte. Conoscevano le risposte teoriche, le risposte ortodosse, ma avevano questo senso di adattamento. Penso che mi abbiano influenzato, specialmente quando ti muovi in altre culture e comprendi che la gente vive esperienze che sono totalmente diverse da quelle che tu hai vissuto. Allora ti trovi più pronto ad ascoltare e a cogliere non solo le parole ma anche la musica, la musica dell’esperienza degli altri. Così, tutto ciò certamente ha avuto un’influenza su di me. Molto spesso quando reagisco alle situazioni e chiedo a me stesso perché reagisco in tal modo, io ritorno a questi elementi della mia storia che ho appena citato.
Potrei aggiungere qualcosa riguardo all’influenza dei miei fratelli. Siamo quattro fratelli maschi e molto attaccati l’uno all’altro anche se siamo molto diversi. Il primo di noi è un intellettuale, un filosofo negli USA. Il secondo fa l’impiegato in una banca, dunque un uomo coi piedi per terra, un uomo di buon senso, retto, molto buono e onesto. Poi ci sono io, il terzo, mentre l’ultimo è un anticonformista con molte idee ed immaginazione; fa lo psicologo, l’insegnante e altre cose.
Quel contesto di fraternità anche ha avuto molta influenza su di me. Il maggiore dei miei fratelli, quello più intellettuale, è stato spesso di aiuto concreto, dandomi indicazioni quando, ad esempio, cominciai ad insegnare teologia. Mi aprì all’ermeneutica simbolica, al linguaggio dei simboli, a Paul Ricoeur, ecc. Fu certamente di grande aiuto perché cominciai ad insegnare escatologia -e come puoi insegnare escatologia se non in modo simbolico?
In altre tappe della mia vita i miei fratelli mi hanno mantenuto coi piedi per terra. Il secondo dei miei fratelli e i suoi figli conoscono la vita reale, lavorano sodo e qualche volta hanno attraversato tempi difficili in Spagna. Questo ancora adesso è molto significativo per me; per esempio, io sono molto restio a parlare troppo spiritualmente della vita religiosa. Dal momento che i discorsi spirituali potrebbero nascondere una mancanza di realismo. No, no... Quando parliamo di povertà, o del nostro modo di vita, la mia famiglia mi riporta giù, sulla terra, e mi dice: "cosa intendi dire concretamente?".
Dunque, non posso semplicemente spiritualizzare una cosa che ha a che fare innanzitutto col corpo, con la realtà concreta. Sono molto grato per questo tipo di background che viene dalla mia famiglia: mi riporta alla realtà; qualche volta posso "volare" per 5 minuti, ma poi devo rimettere i piedi per terra, altrimenti mi sento a disagio.


Tutto questo l’ha portata alla Compagnia di Gesù. Come è avvenuta la sua chiamata alla Compagnia di Gesù e alla vita missionaria?
Una cosa di cui sono convinto sempre più è che storia e realtà sono più forti delle idee. E la storia ci forza a cambiare, aprirci, crescere. Nel mio caso, in termini cristiani si direbbe che le cose sono avvenute provvidenzialmente. A Barcellona, dove sono cresciuto, non conoscevo affatto i gesuiti. Poi mio fratello più grande entrò nella Compagnia. Andò in India e si ammalò mentre studiava filosofia e uscì.
Dunque per me quello fu il punto di contatto per conoscere i gesuiti. In effetti io stavo pensando di diventare un Fratello, dal momento che andavo a scuola dai Fratelli Lassalliani e mi piaceva l’educazione, mi piaceva ciò che facevano con noi, la loro disponibilità e così via. Ma poi mio fratello entrò in contatto coi gesuiti, e questo mi distrasse dai Fratelli! E poiché i gesuiti si occupavano anche di educazione ed io avevo un’inclinazione per essa, li contattai. Quando i miei genitori si trasferirono a Madrid io potei andare a scuola dai gesuiti laggiù. La mia attenzione si focalizzò sui gesuiti. Così alla fine della scuola superiore, durante un ritiro, decisi che entrare nell’ordine dei gesuiti avrebbe potuto essere la strada migliore per la mia vita.
Riguardo al Giappone, poi: ancora Provvidenza e storia! Non mi sono mai offerto volontario per il Giappone e non sapevo molto di quel Paese. Ma quando ero in juniorato, l’allora padre Generale Janssens scrisse una lettera - in ogni caso, penso che fu una buona idea e forse potrei scriverne una anche io sulla stessa linea, ora che sono Generale... -insomma, il Generale scrisse una lettera all’intera Compagnia chiedendo volontari per molti luoghi. Scrisse: "abbiamo richieste di persone che diano una mano in varie parti del mondo, dunque coloro fra voi che sentono la chiamata, per favore si facciano avanti".
Dunque, pensai, loro hanno bisogno di aiuto ed io sono un gesuita. Diedi per scontato che essere un gesuita fosse una vocazione universale, non ero un gesuita soltanto per la Spagna ma uno che poteva andare ovunque. Così mi presentai volontario, dicendo: "voi avete bisogno di gente, io sono gente, dunque se posso essere di aiuto da qualche parte, ci andrò". Scrissi ciò all’inizio degli studi filosofici e dopo un mese il Provinciale mi chiamò e... non era molto contento, perché aveva altri piani: mi aveva già destinato a studiare filosofia per due anni e poi a studiare matematica per insegnare a Madrid, in una scuola tecnica, così mi disse: "tu hai scritto al padre Generale, offrendoti per le missioni. Ma puoi ancora dire di no". Io risposi: "mi sono offerto volontario, dunque andrò". Allora mi chiese: "che ne dici del Giappone?" E io: "OK, va bene!"
Fu una sfida, perché dopo che lasciai la sua stanza pensai: "Giappone... ciò significa che devo continuare a studiare per il resto della mia vita!". L’immagine che avevo del Giappone era quella di una cultura elevata, una lingua difficile, e via dicendo. Ora penso che avevo ragione: ho dovuto studiare tutta la vita! Così, tutto cambiò; finii la filosofia e orientai il resto della mia formazione verso il Giappone.
Penso che non avvenne per caso; fu una di quelle cose che accadono storicamente ma, a posteriori, posso dire che forse fu la scelta migliore. Se avessi dovuto scegliere il territorio dove avrei potuto essere missionario, avrei scelto l’America Latina, l’Africa, o altri luoghi dove avevo visto bisogni più visibili; ma dopo averci riflettuto, fu la scelta migliore perché fin dall’inizio sentii che il Giappone ed io eravamo fatti l’uno per l’altro. Mi sentivo veramente a casa coi giapponesi e col modo di essere giapponese. Io non sono quel tipo di spagnolo spontaneo ed esplosivo. Io sono piuttosto una persona calma. E in Giappone questo modo di essere va bene, ed io mi sono sentito sempre a mio agio.


A lei non piace parlare di spiritualità in quanto tale ma preferisce parlare concretamente di come aiutare le persone a capire meglio chi sono; potrebbe indicarci qualche brano della Sacra Scrittura o del Vangelo che ha avuto ed ha un significato speciale per lei?
Posso dire che quando leggo la Bibbia sono sempre molto colpito da testi che toccano tre tematiche o dimensioni.
Innanzitutto, il SERVIZIO: ad esempio, quando il servitore alla fine della giornata non si aspetta che il padrone venga e lo ricompensi ma dice soltanto: "ho fatto quanto dovevo fare; sono un servitore inutile!" L’idea è che non bisogna lamentarsi se si conduce una vita di servizio. È normale nella nostra vocazione. Per questo tutte le parabole che toccano il tema del servizio, la chiamata al servizio, la semplicità del servizio, mi hanno sempre colpito.
Senza giudicare nessuno, non mi piace sentire religiosi, gesuiti e non, parlare della vita religiosa in termini di croce, un peso che si deve portare. Penso che la maggior parte delle volte parlare così non abbia senso perché chi è sposato incontra moltissimi problemi e difficoltà, e le persone che lottano per vivere portano croci pesanti! Ho visto persone che lottano tutta la vita, ad esempio gli emigranti; perciò drammatizzare le difficoltà della vita religiosa non ha molto senso. Credo quindi nel servizio e penso alla mia vocazione come una vocazione al servizio; mi piace servire e penso sia costitutivo della nostra spiritualità. Se riusciamo a rallegrarci di essere soltanto servitori, allora saremo sempre felici. C’è chi complica la vita: nel campo del servizio non esiste competizione per chi desidera veramente donarsi!
Per questi motivi sono sempre colpito dalla Scrittura che parla del servizio.
La seconda area: i testi che parlano della VITA NELLO SPIRITO. Penso che l’Asia mi abbia aiutato molto a scoprire questa dimensione. L’insistenza, caratteristica della spiritualità asiatica, sia indù sia buddista, sulla pace che viene da dentro, che è traboccante, che ti circonda... Tutto ciò risuona in me come immagine dello Spirito. Attenzione, non come quando qualcuno ti sussurra nell’orecchio o cose simili, ma come un segno dello Spirito di Dio che riempie, ispira, sostiene. Mi piacciono tutti i canti in cui lo Spirito è chiamato consolatore, sollievo, riposo; penso realmente allo Spirito come ispiratore, per me, per noi tutti.
La terza dimensione, quella in cui penso si possa identificare l’influenza ignaziana -sebbene sia presente anche nel mondo buddista con cui ho vissuto per così tanti anni -è rappresentata dai testi sacri sull’ABBANDONO. Questi sono stati per me fonte di ispirazione fin dal noviziato: "Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà", oppure "Che giova all’uomo guadagnare il mondo intero, se poi si perde?" e questo genere di passaggi. In essi ho trovato una totale sintonia col buddismo. E posso aggiungere che si tratta di un altro punto in cui mio fratello mi ha aiutato perché lui stesso ha insegnato queste cose.
Il fulcro della spiritualità buddista è l’essere distaccati dai risultati dei propri sforzi. E questo è molto significativo, qualcosa di molto utile da capire. Non è un semplice distacco dalle cose: io mi sento legato, mi piacciono le persone, mi piace lavorare e tante altre cose. Ma significa essere distaccati da qualunque cosa possa succedere. Sembra avvicinarsi al famoso detto di S. Ignazio: "Fa’ tutto come se dipendesse da te sapendo che dipende da Dio, e poi riposati!" (ne esistono diverse versioni!). Questo detto riguarda l’abbandono: tu fai del tuo meglio e sei solo un servitore, perciò lascia che i frutti vengano al tempo debito, lascia lavorare Dio.
Per questo, ogni volta che leggo versetti evangelici sull’abbandono c’è qualcosa che si muove in me... Probabilmente è lo Spirito. Forse perché mi lascio pervadere facilmente!


L’aspetto maggiormente citato del suo curriculum quando è stato eletto è il fatto di aver vissuto così tanto tempo in Asia. Può dirci se si sente più asiatico o europeo?
Questa è una domanda che io stesso mi sono posto qualche volta, e che anche la gente mi pone. Penso che la risposta più sincera sia: "non sono né asiatico né europeo". In Asia sono convinto di non essere un asiatico e non potrò mai pretendere di esserlo. Essere qualcosa significa immergervisi profondamente: io sono consapevole di essere un europeo in Asia, ma in Europa sono consapevole di NON essere un europeo. Non solo perché sono emigrato e sono rimasto fuori per così tanto tempo, o perché non sono stato un attento osservatore di come le cose procedevano in Europa, ma anche perché ritengo di esser cambiato.
Un paio di settimane fa ho detto alla stampa -e questa è una cosa veramente sincera -che penso di essere un uomo "in divenire". Quindi, chi sono? Sono in cambiamento, spero di continuare a crescere e sento di essere sempre in fase di apprendimento. In Giappone imparo dal Giappone, in Corea imparo dalla Corea, nelle Filippine dalle Filippine e così via. Sento di avere una libera identità, sento d’essere un uomo libero.
Ho visto altri in Asia, altri Europei per esempio, avere difficoltà con la propria identità. Questo per me non è mai stato un problema. Perché non mi importa essere spagnolo, francese, o giapponese. Io sono quello che sono e, se ti piaccio, saremo amici; se non ti aggrado... cèrcati altri! La mia identità è la mia comunicazione con la gente, con le situazioni. Per cui mi sento perfettamente a mio agio nel tornare a Roma, così come lo ero stando nelle Filippine o in Giappone. Io so che non sarò mai romano: per quanto tempo tu possa stare in un posto, ci sono intimità che tu non raggiungerai mai. Per questo, mi sento a mio agio proprio nell’essere nell’onda, nel processo. E spero di continuare ad imparare e a crescere.


Una delle caratteristiche che noi abbiamo sentito sulla sua persona è che lei è felice, gioioso, sciolto nelle relazioni, che lei dà un senso di serenità. Ci si ritrova? Ci sono stati momenti nella sua vita in cui non le è stato facile essere così sereno?
Sì, ci sono stati momenti difficili, certamente; momenti personali e momenti istituzionali. Ma fondamentalmente penso che ciò che mi ha aiutato molto sia stato il tornare ai tre punti della Scrittura testé menzionati. È fondamentale, per esempio, che si viva il distacco. Un paio di volte sono andato in crisi a causa della sensazione di non essere accettato o di non essere compreso nel modo giusto. Poi ho capito che queste erano grandi occasioni per diventare più libero. In quei momenti, ho compreso che il mio vero scopo nella vita non era piacere agli altri; io non devo piacere a nessuno: quindi, posso essere libero.
Così quando qualcosa va bene, non c’è problema, è facile. Ma quando qualcosa va storto, allora c’è sofferenza, sfida, difficoltà; ma proprio allora tu comprendi che ciò è un’opportunità per diventare un po’ più libero.
Questo guadagnare più libertà è sempre una benedizione. Ti senti in una posizione in cui non hai nulla da perdere. Domenica scorsa, durante gli ultimi voti di due gesuiti qui in Curia, io dissi che la Compagnia di Gesù si regge su pochi punti fondamentali. Come quando divenni Generale: fui condotto nelle camerette di Sant’Ignazio e mi fu rammentato il terzo grado di umiltà e così via... Io penso che queste sono cose meravigliose, che sono al centro di ciò che siamo. Lì trovi totale serenità. Chi può portarti via la tua gioia quando essa non dipende dal successo o da ciò che la gente pensa di te? Ma questa libertà la guadagni attraverso le difficoltà, non puoi ottenerla con facilità. Ma devo onestamente ammettere allo stesso tempo che personalmente non ho mai incontrato difficoltà straordinarie; non posso vantare azioni eroiche.


PARTE SECONDA: I Gesuiti In Asia


La seconda parte della conversazione è centrata sulla sua esperienza di gesuita in Asia. Lei è stato professore di teologia: qual è stato il suo ambito d’interesse in teologia? Come è cresciuto questo suo interesse negli anni della sua permanenza in Asia?
Di nuovo, la storia ha determinato un certo numero di cose. Nel mio caso iniziai dalla fine, dovetti insegnare escatologia e questo fu il mio inizio. Poi passai ad insegnare Rivelazione e trovai che era estremamente eccitante, perché nella Rivelazione si trovano tutte le questioni fondamentali ed i problemi riguardanti la ricezione della Rivelazione divina. Vale a dire, non solo la questione di come si comprenda la Rivelazione, ma anche del come si faccia esperienza della Rivelazione. Ciò conduce fondamentalmente all’esperienza religiosa e alla spiritualità della teologia. Trovai tutto questo estremamente eccitante e ricco di sfide in termini di un’apertura a nuove profondità di senso. Ciò necessita un tipo di approccio multi-disciplinare; quindi occorre entrare in un pensiero interdisciplinare. Occorre avere conoscenze di linguistica, psicologia e sociologia dell’esperienza religiosa. Ciò apre nuove aree di ricerca, che io trovo ricche di sfide. Per cui ho vissuto con entusiasmo quegli anni d’insegnamento.
Poi sentii che forse in Asia ciò che era necessario, prima di una teologia sistematica speculativa, sarebbe stata una teologia pastorale. Proprio per mettersi in sintonia con il modo in cui la gente locale fa esperienza della fede. E come la gente fa esperienza della comunità e dell’incontro con Dio, della preghiera e cosi via. E mi trovai molto interessato alla teologia pastorale.
Di nuovo la storia giocò il suo ruolo: fui mandato nelle Filippine, al Pastoral Institute. E con mia sorpresa scoprii che lì non insegnavano i sacramenti. E mi dissi: la maggior parte degli studenti passa l’80% della propria esistenza nella vita sacramentale, preti e catechisti e così via; perciò, poiché avevo lavorato in precedenza sull’ermeneutica simbolica, cominciai a insegnare i sacramenti. Trovai la cosa molto stimolante, sia per me che per gli studenti, perché scoprii che i sacramenti erano stati ridotti, a causa di fattori storici, a rituali. Mentre in realtà i sacramenti sono la spiritualità della vita cristiana.
In alcuni momenti fondamentali nella vita della comunità o della persona, ci sono forti, robuste mediazioni della Chiesa -i sacramenti -che esprimono ciò che Dio sta facendo con quella persona in quel momento particolare. Dunque, c’è un grande arricchimento quando si integrano vita e sacramenti. I sacramenti sono connessi ad ogni aspetto della vita umana: il singolo e la società, le relazioni umane, la speranza, le fatiche delle persone, perfino il gioco; tutti i sacramenti avvolgono l’intero spettro della realtà umana. Questa è stata una sorgente di ispirazione per me e un settore di insegnamento molto stimolante . Infatti, quest’anno avrei dovuto insegnare un corso di sacramenti al Pastoral Institute.
Penso che la teologia pastorale e una buona teologia sacramentale uniscano vita e fede, e siano molto importanti in particolare per le chiese in situazione di minoranza. La Cristologia e l’Ecclesiologia seguono come completamento. Quando il provinciale mi chiese di studiare teologia, io cercai di "rimostrare" (nella tradizione ignaziana, ciò significa portare argomenti contro la proposta del superiore); gli dissi: "penso di essere più interessato al lavoro pastorale che alla teologia"; ma egli fu abbastanza intelligente da rispondermi: "esatto, abbiamo bisogno di professori di teologia che siano interessati al lavoro pastorale!". Così non potei scappare; ero stato incastrato!


Per il fatto di aver vissuto in Giappone e nelle Filippine, il suo interesse per il dialogo interreligioso è cresciuto. Potrebbe raccontarci come scoprì questo campo?
Bene, nel mio caso diciamo che contatti quotidiani sono stati molto più importanti e molto più influenti dei contatti formali. Io non sono stato molto attivo negli incontri accademici formali con diversi gruppi buddisti, ma ho sempre vissuto con non-cristiani e lavorato e cooperato con loro. E vedo qui una sfida a cui forse noi gesuiti non abbiamo risposto sufficientemente. Quando ero provinciale, ho cercato di farlo capire alle nostre comunità nelle scuole. Per esempio, nella scuola solo il 20% degli insegnanti è cattolico -come pure pochissimi studenti - e così la mia domanda era: come vi ponete verso gli insegnanti non-cattolici? Non in termini di proselitismo
o cercando di conquistarli, ma in termini di dialogo in profondità. Per quale causa vivono, e qual’è la fonte della loro ispirazione nella vita? Questo tipo di dialogo mancava, e questo è ciò a cui sono maggiormente interessato: il dialogo con le persone che incontro.
Se penso agli incontri significativi che ho avuto a livello più ufficiale, quello che mi diede più ispirazione fu uno nelle Filippine. Fui invitato ad andare a Marawi, nel Mindanao, une delle isole meridionali delle Filippine. Appena arrivi in città, c’è un cartello che recita: "Città Islamica di Marawi". Ma in quel momento c’era un vescovo, il Vescovo Tudtud, che era una persona molto aperta al dialogo e molto in contatto con la comunità musulmana. Così organizzò un incontro di studiosi musulmani con cattolici e protestanti. Sul versante musulmano c’era un professore che veniva dall’Egitto, un altro dall’Indonesia, e poi altri dalle Filippine; da parte cattolica c’era un sacerdote irlandese professore di teologia e il sottoscritto, più alcuni protestanti. L’incontro fu molto significativo perché cercavamo le radici antropologiche della nostra fede e notammo molte similitudini. Finché non si arriva alla Santa Trinità, ci sono molte convergenze. E trovai molto interessante il fatto che la più grande difficoltà nel dialogo non veniva dai musulmani, ma dai nostri fratelli, gli altri cristiani, che credevano che avvicinarsi ai musulmani fosse una cosa pericolosa da farsi. Trovai il professore egiziano e quello indonesiano molto vicini a me, nel sentire religioso, nel pensiero, e così via.


Ci può dire qualcosa in merito alla sua esperienza con gli immigrati? Quando terminò il suo mandato come Provinciale del Giappone, lei decise di fare qualcosa di diverso da quanto aveva fatto fino ad allora, di entrare nello spirito della dimensione sociale della nostra vocazione di gesuiti.
Mi sono sempre preoccupato in qualche modo dell’impegno sociale. Durante il mio secondo anno come provinciale del Giappone, si dovevano effettuare alcuni lavori di ristrutturazione della nostra residenza ed ebbi occasione di lasciare il centro di Tokyo. Andai a vivere con il direttore del nostro Social Centre di Tokyo. Viveva in una piccola casa in una delle periferie degradate di Tokyo, dove abitavano la maggior parte degli immigrati. Lui viveva da solo quindi andai a vivere con lui. Feci il pendolare per quattro anni e la trovai un’ottima esperienza.
La domenica, quando ero libero, aiutavo in parrocchia. Iniziai quindi ad interessarmi ed entrare in contatto con questi immigrati e con le difficoltà che incontravano. Pensavo che noi gesuiti avremmo dovuto aprire un centro per prenderci cura di loro. E mentre ci stavo pensando il mio mandato come provinciale giunse alla fine e la diocesi di Tokyo aprì un centro pastorale dove mi chiesero una collaborazione. Allora dissi al mio successore, il nuovo provinciale, "tu devi decidere del mio futuro, ma la diocesi mi sta chiedendo una mano nel centro per gli immigrati. Personalmente mi interessa molto; credo che noi dovremmo fare qualcosa, ma visto che la diocesi sta aprendo un centro, perché mai dovremmo aprirne un altro anche noi?".
Il Provinciale fu d’accordo e laggiù passai quattro anni di grande gioia. Il mio primo amore era la pastorale, ed era quanto stavo facendo con queste persone. Sì, quegli anni furono meravigliosi, aiutando le persone in diversi modi, ma anche contribuendo all’organizzazione del centro e pianificando il suo sviluppo pastorale.


In modo più ampio, quella fu anche un’opportunità per entrare in diretto contatto con questo aspetto dell’essere gesuita che è stato sviluppato dal padre Arrupe in avanti.
Mi resi conto che padre Arrupe ebbe un’intuizione straordinaria: che in questi settori noi possiamo imparare molto e diventare dei religiosi migliori perché la gente con cui entriamo in contatto ci dona un assaggio di realtà. Qualsiasi cosa affermiamo
o proclamiamo deve essere verificata con la realtà e queste persone sono la realtà vivente: persone con una fede, di qualunque si tratti: alcune volte è una fede popolare, non molto istruita, altre volte è una fede profonda, altre ancora una fede più sofisticata, visto che incontriamo persone di ogni tipo. Ma questa è la prova della realtà per noi, per la nostra spiritualità, e in alcuni casi anche per la nostra fede.
Si può talora vedere che anche senza alcuna formazione teologica, senza alcuna educazione, alcune persone possiedono una relazione profonda con Dio. Ciò è davvero sorprendente, e io mi trovo a dire a me stesso: "magari avessi questa familiarità, questa facilità nella mia relazione con Dio!". Ecco una cosa che la comunità cattolica giapponese trova sempre molto stimolante: per un giapponese che proviene dalla tradizione buddista o dal confucianesimo, al momento di entrare in uno spazio sacro si diventa formali, si cerca di essere puliti, puri ecc... quindi vi si entra con una certa serietà. Ecco perché la Chiesa Giapponese ha un aspetto così serio.
Invece, vedi tutti questi filippini venire in chiesa: entrano nell’edificio come se fosse un prolungamento delle loro case. Si sentono davvero come a casa propria; parlano tra loro e sono felici davanti a Dio. Cantano e danzano; i bambini piccoli ballano e corrono intorno! Questo per molti giapponesi è uno shock; ma poi cominciano a riflettere e vedono che queste persone, che affrontano molte difficoltà, trovano in chiesa un momento di gioia, un momento di speranza. Ciò è veramente un’occasione che fa loro aprire gli occhi. E credo che non lo sia solo per i giapponesi, ma per tutti noi. Dove troviamo le nostre gioie? Talvolta abbiamo gioie molto costose, mentre queste persone trovano gioie molto semplici e possono realmente ricevere nuova energia. Quindi, abbiamo dinnanzi qualcosa che costituisce sempre una prova di realtà, molto utile per il nostro spirito di preghiera, per renderla più reale, più concreta, più coi piedi per terra.


Ha avuto negli anni possibilità di contatto con gruppi di gesuiti di diverse età, con gesuiti delle generazioni più giovani?
Sono sempre stato in compagnia di giovani gesuiti, perché insegnavo teologia ai nostri scolastici. Mi trovo molto a mio agio con i giovani; non solo a mio agio, ma mi rallegro anche della vitalità e delle idee, dell’immaginazione, di tutta la creatività che si riscontra nei giovani. Quando lavoravo con i migranti, alcuni giovani erano molto interessati e venivano regolarmente a farci visita; alcuni scolastici chiesero anche di vivere nella nostra casa, e ciò fu una cosa molto buona. Per loro fu un’occasione per conoscere l’ambiente e per qualcuno anche per aprire gli occhi. Ricordo uno scolastico giapponese: si era immerso in un mondo che non conosceva per nulla. In quel quartiere popolare, tutti si conoscevano. Al momento della verifica finale disse: "la cosa che mi ha sorpreso di più è che per le strade la gente mi guardava!". Perché era una persona estranea... così, i giapponesi erano sorpresi di trovare in Giappone un ambiente differente dal solito. E questo fu molto utile.
In seguito, negli ultimi tre anni, come moderatore della conferenza dei provinciali, a Manila, il mio ufficio si trovava vicino allo scolasticato, cosicché avevo molto spesso a che fare con gli scolastici e mangiavo da loro ogni settimana. Venivano spesso per consultarmi e parlare.
Quindi sì, sono stato molto vicino ai giovani.


Che ruolo pensa abbia agito il suo incarico di moderatore della conferenza dei provinciali dell’Asia Orientale e Oceania, a fronte delle nuove responsabilità da Superiore Generale?
Una cosa che ho imparato è che se hai dei buoni provinciali, il lavoro procede molto bene! Penso di essere stato benedetto, laggiù: non ho trovato molto difficile l’incarico perché l’attuale gruppo di provinciali e superiori maggiori è eccellente. Pronti a lavorare insieme, aperti, uniti da profonda solidarietà gli uni verso gli altri, disposti ad aiutarsi a vicenda. Ogni qualvolta avevamo un problema, bastava solo che li informassi. Una volta scrissi una lettera chiedendo aiuto per una Regione che si trovava in ristrettezze economiche. In meno di due settimane ricevetti tutto il denaro necessario. Erano volenterosi nell’aiutarsi.
In Timor ci servì una somma piuttosto notevole per l’acquisto di un terreno. Immediatamente, due Province si offrirono di aiutarci: non come prestito, ma come dono. Lo stesso si verificò in Vietnam (che sta iniziando a funzionare come Provincia): immediatamente, tre Province offrirono il loro aiuto. Quando lavori con persone come queste, il tuo compito è molto facile. Credo che questa sia una sfida per me anche qui: parte del mio incarico consiste nell’assicurare, per quanto possibile, che ci siano le persone giuste come provinciali o superiori maggiori, perché è questo che fa la differenza.
Un’altra cosa che ho trovato davvero utile e spero possa applicarsi all’intera Compagnia è il desiderio (nella nostra Assistenza) di maggiore trasparenza tra le Province. Per consuetudine, le Province hanno intorno a sé delle mura molto alte, ciascuna è un’unità indipendente. Quelli che sono al di fuori, non conoscono nulla della Provincia vicina. Ora vogliamo rendere questi muri porosi e trasparenti. Per esempio, condividere i bilanci di tutte le Province di una certa regione, così tutte le Province sanno dove vengono spesi i soldi... cosa che rende tutti più vulnerabili! Penso che questo tipo di condivisione porterà ad un’apertura che può aiutare la Compagnia a divenire più universale. In un mondo globalizzato, l’informazione è un punto chiave. Pertanto, quanto più ci si conosce, tanto più possiamo cooperare, discernere insieme ed aiutarci a vicenda.


PARTE TERZA - Il Nuovo Padre Generale


Questo ci porta a trattare il tema della sua nuova vita come Superiore Generale della Compagnia di Gesù. La domanda in merito alla sua età è sorta appena lei è stato eletto. Quali sono i vantaggi e gli svantaggi, secondo lei, di assumere la responsabilità di guidare la Compagnia di Gesù in questo momento della sua vita?
Durante le murmurationes, quando gli elettori si parlavano a vicenda alla ricerca della persona che sarebbe stata la migliore come nostro nuovo Generale, io mi sentii veramente preoccupato quando, il terzo giorno, molte persone cominciarono a chiedermi della mia salute! Mai in nessuna comunità i gesuiti si erano mostrati così preoccupati della mia salute. Quando vidi così tante persone chiedermi della mia salute cominciai a preoccuparmi per quello che poteva succedere. Certamente, la domanda aveva a che fare con l’età: essi ne erano preoccupati.
Ora, quali sono i vantaggi e gli svantaggi? Gli svantaggi sono chiari: con l’età diminuiscono le forze. Per esempio, se ora io mi sento ancora bene nel compiere viaggi, non so quanti ne sarò capace di affrontare nei prossimi anni. Se viaggi lunghi per visitare tutte le case saranno possibili, questo io non lo so. Le mie abilità immaginative e creative, probabilmente, non sono così immediate come negli uomini più giovani di me. Questi sono ovviamente gli svantaggi.
Ma ci sono dei vantaggi. Primo, con l’età si ha più esperienza, si è più realisti, meno sognatori, e si capisce un po’ di più cosa ci si può aspettare e cosa non ci si può aspettare. Io continuerò ad attendermi molte cose dai gesuiti, ma alla mia età si è più consapevoli delle debolezze umane. Si sa di non poter domandare troppo, di non potersi aspettare troppo in modo da non rimanere troppo spesso dispiaciuti. Questo è un vantaggio.
Ancora, si conosce un po’ di più come vanno le cose: non è una questione di domandare, ma di facilitare la comunicazione e lasciare che le persone siano più consapevoli. Tutto nasce dalla consapevolezza: senza consapevolezza non andiamo da nessuna parte. Prendiamo tutto quello che sta accadendo intorno alla questione ecologica; senza consapevolezza niente è possibile. Fare le cose solo per dovere, perché siamo cristiani, o perché siamo religiosi, non ci fa andare molto lontano. Ma se diventiamo veramente consapevoli delle nuove dimensioni del nostro mondo, ci possiamo coinvolgere. Ma si vedrà: dipenderà anche da come la mia salute evolverà. La Congregazione si è assunta dei rischi con me!


Qual è la sua immagine del primo Generale della Compagnia di Gesù, che cosa particolarmente apprezza di Sant’Ignazio?
Quello che di lui ho sempre ammirato e trovato molto affascinante è la sua profondità. Questo è ciò che spero anche per la Compagnia. In qualsiasi settore siamo impegnati, teologico o pastorale, personale o amministrativo, penso che noi abbiamo una vocazione per la profondità. Sant’Ignazio è andato veramente in profondità nel suo discernimento, in profondità nella sua personalità, nella sua spiritualità, nell’aiutare la gente sapendo quando l’aiuto è un vero aiuto e quando non lo è. E allo stesso tempo la sua visione era veramente ampia. Profonda e ampia! Profondità ed ampiezza sono collegate tra loro, più in profondità si va, più liberi si diventa rispetto ai propri limiti e più si è capaci di vedere in modo ampio.
Queste qualità le trovo veramente stimolanti ed affascinanti. Inoltre vorrei aggiungere un’altra qualità di Sant’Ignazio: il coraggio di iniziare. Quindi ammiro veramente tanto Sant’Ignazio. So che aveva dei limiti e che probabilmente fece degli errori nel suo modo di procedere, nelle piccole cose... ma non c’è modo di essere più profondi di come lo è stato lui. Questo punto per noi è ancora una sfida.


Come uomo che ha lasciato la Spagna ed è andato in Asia, quanto profondamente lei è stato influenzato da San Francesco Saverio?
Certamente sono stato influenzato da San Francesco Saverio, ma la mia relazione con lui non è stata così costante. Quando ero giovane, indubbiamente Francesco Saverio era l’eroe, il modello: il suo entusiasmo, il suo ardore, la sua disponibilità ad andare in qualsiasi parte del mondo, i suoi sogni. Ricordo che, quando ero giovane, mi piaceva molto un dramma di José María Pemán dal titolo: "il divino impaziente".
Ma poi, stando in Giappone, ho constatato che Saverio non è un santo popolare dappertutto. E ha commesso gravi errori in India. Così, chi è consapevole di questi errori ha la tendenza a svalutarlo, come modello per le missioni, specialmente in Asia e, forse, ancor più in Giappone, dove la gente è molto sensibile al dialogo, al rispetto della coscienza.
Quindi, ho cominciato a considerare San Francesco Saverio con occhi critici. Ma poi penso che San Francesco Saverio mi ha mostrato la sua grandezza quando vedo come si è trasformato in Giappone. In India era ancora legato alla sua teologia e ad una particolare scuola. Ma quando è arrivato in Giappone, ha incontrato la gente: questa è una cosa che considero estremamente importante. Quando ha incontrato la gente, ha constatato il suo errore. Dal quel momento ha cominciato ad ascoltare, a rispettare e ad ammirare... Come missionario è cambiato, e ha intrapreso uno stile che dopo è stato seguito da Matteo Ricci e altri. Ma Francesco Saverio fu la persona che iniziò il cambiamento e penso che in questo cambiamento abbia mostrato una grandezza che continua ad ispirarmi. Così, non è tanto l’uomo pieno di entusiasmo, ma l’uomo che ha l’abilità di cambiare e di modificare le proprie presupposizioni. Bisogna imparare!
In Giappone, per esempio, stavamo preparando un congresso su San Francesco Saverio ed avemmo un incontro con i vescovi del Sud, dove Saverio aveva vissuto. Il vescovo di Fukuoka non era particolarmente contento. Diceva: "non so se dovremmo prendere parte alla celebrazione dal momento che Saverio passò soltanto da Fukuoka e l’unica cosa che fece fu litigare con il monaco buddista!"
In realtà quel litigio è estremamente interessante. Saverio infatti andò dal monaco per rimproverarlo del fatto che non stesse dando il buon esempio ai suoi fedeli buddisti. Quindi non si era recato da lui per convincerlo a diventare cristiano ma semplicemente per dirgli: "guarda, il tuo compito è di aiutare le persone e tu non le stai aiutando, perché la tua vita non è buona, mentre dovresti aiutare la gente a diventare migliore." Abbiamo sotto gli occhi una grande intuizione di come Dio lavori nelle persone -anche in un monaco buddista - per esempio nell’aiutare i suoi discepoli buddisti a diventare dei credenti migliori.


Alla luce della sua esperienza in Asia le vengono in mente modi concreti per avvicinare Oriente e Occidente all’interno della Compagnia di Gesù? E’ questo uno dei suoi compiti o progetti?
Beh, non la metterei così, dicendo che "il mio compito è di avvicinare Est e Ovest". Tuttavia, penso che ciò che maggiormente ci trasforma sotto ogni profilo siano gli INCONTRI. Incontri persone con una certa profondità, persone diverse tra loro; quindi incominci a cambiare. Dunque, la mia speranza è di poter aiutare - e ciò a partire dai gesuiti presenti alla Congregazione Generale - ad incontrare ciascuno, e ad incontrare ciascuno senza barriere, senza pregiudizi; a conoscerlo sul serio. Allora sarà possibile apprezzare quello che gli altri hanno da offrire.
Questo sarebbe il modo migliore in cui Est e Ovest potrebbero incontrarsi. Gli atti accademici possono servire a fare delle sintesi, a trovare le parole: ma sono gli incontri personali che fanno la differenza, in tutto: nell’apostolato sociale, negli incontri interculturali, nella spiritualità.


Mentre attende che la Congregazione Generale indichi le priorità della Compagnia di Gesù, lei in qualità nuovo Superiore Generale sta già programmando per l’immediato futuro delle visite in particolari aree geografiche?
Qualcuno potrebbe dire di me: "l’ignoranza di questa persona è enciclopedica!". Ebbene, penso che ci sono talmente tante cose che non conosco della Compagnia e del mondo. Se lei mi chiede quale luogo vorrei visitare per primo, penso immediatamente all’AFRICA. Non sono mai stato in Africa. Non è solo una regione del mondo, è un mondo a sé. Perciò penso che dovrei sapere di più sull’Africa e intendo visitarla non appena se ne presenterà l’opportunità.
Quindi viene l’America Latina. Ci sono stato solo per brevi visite, ma sono andato solo a Lima, Bogotà, Città del Messico, Buenos Aires. E con questo non si può dire di conoscere l’America Latina. Dunque, anche l’America Latina è in lista.
E poi c’è l’Europa dell’est. Queste sono le tre parti del mondo che conosco di meno.
Dopodiché, naturalmente, dovrei visitare un po’ meglio l’India. Ci sono stato tre volte, ma l’India è immensa. E mi permetta di aggiungere che, forse per via degli anni passati lontano, dovrei conoscere un po’ meglio la Spagna!
Dovunque mi giri c’è molto da imparare. E ora non posso più dire: "ho un’idea generale", devo approfondire la realtà delle cose. Quantomeno per evitare di fare grossi errori dovuti all’ignoranza.
Più di questo, sul mio futuro come Generale, ancora non so. Mi sento assai limitato per questo lavoro, ignorante su molte cose, e sento che il mio primo compito è di imparare, di imparare molto di più. Il che va bene: tale fu la prima esperienza che feci quando fui mandato al Pastoral Institute. Mi trovavo in Giappone e all’improvviso venni inviato a Manila, al Pastoral Institute, per di più come direttore, a servizio dell’Asia.
Allora mi sentii molto inadeguato, ma subito realizzai che proprio questo era il mio punto di forza. In virtù del fatto che non conoscevo, potevo ascoltare. Quando ci si trova a lungo in un posto, si può arrivare a conoscere troppo e quindi smettere di ascoltare. Una volta che si conoscono le parole, e dal momento che le parole sono le stesse, si pensa già di conoscere le cose... Invece si deve capire che la musica è diversa: le parole sono le stesse ma la musica è differente, e ascoltare la musica è importante quanto ascoltare le parole.


Potrebbe essere una buona conclusione. C’è ancora qualcosa che vorrebbe dire, all’inizio del suo incarico come Generale dei Gesuiti?
Penso di aver detto praticamente tutto quello che volevo dire. Volendo aggiungere qualcosa, direi che per ogni cosa -che sia la spiritualità o l’apostolato sociale, o qualsiasi cosa - non ci sono scorciatoie. C’è sempre una lunga strada da percorrere: i veri cambiamenti e le vere intuizioni avvengono attraverso un lungo processo il cui primo passo è sempre il contatto. Il contatto con le persone, il contatto con le situazioni.
Padre Arrupe insisteva molto sull’inserimento, sul contatto con la gente. Anche presso la Curia generalizia i membri della squadra del Generale avevano queste "ore Arrupe", un certo numero di ore da passare fuori a conoscere la gente anziché restare dentro le mura della Curia. Credo che sia essenziale. Senza incontrare la gente possiamo diventare dei grandi teorici, possiamo spendere molto tempo ed energia in discussioni teoriche, ed è proprio in questi contesti che molto spesso ci troviamo a combattere l’uno contro l’altro, vero?
Eppure, la realtà non sta lì; la realtà è là dove la gente lotta per vivere, per costruirsi una vita, per salvare l’amore e approfondire l’amore, per creare e mantenere una famiglia, le relazioni. Dunque, ecco ciò che mi piacerebbe tenere in mente nel futuro corso delle mie responsabilità. La teoria va bene per fare sintesi dell’esperienza, ma se non c’è l’esperienza, allora la teoria è molto debole.


Grazie, Padre Nicolás


© FCSF - Popoli



Venerdì, 14 marzo 2008