Abolire la pena di morte

È IMMORALE LA PENA DI MORTE
NEL CATECHISMO CATTOLICO.

Il Fatto: UN COMUNE DELLA CALABRIA SI APPELLA AL PAPA

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DOC-1049. BIANCO-ADISTA. Senza un "sostanziale cambiamento" del "Catechismo della Chiesa cattolica" sulla pena di morte "appaiono poco credibili e motivate le tante richieste di Sua Santità, come nel caso di Rocco Bernabei, per la sospensione delle esecuzioni già sentenziate". Questo il messaggio di fondo contenuto nel documento sulla pena di morte approvato all'unanimità dal Consiglio comunale di Bianco (Reggio Calabria), il 27 dicembre scorso, e inviato a Giovanni Paolo II. Un'iniziativa destinata a non rimanere isolata visto che già altri Consigli comunali, come, per esempio, quello di Pontedera (Pisa), hanno espresso l'intenzione di adottare questo documento.

"Ispirandosi ai valori espressi dalla Costituzione italiana e dalla Carta dei Diritti fondamentali dell'Unione Europea", il Comune di Bianco, guidato dal sindaco Antonio Scordino, "chiede, con rispetto e deferenza, che Sua Santità elimini dal Catechismo della Chiesa cattolica quella parte relativa alla pena di morte, dell'art. 2266", perché questa, "anche in presenza di un'accertata e grave colpevolezza, costituisce e rimane una barbarie indegna di uno Stato civile e contraria ad una qualsiasi moralità". Di seguito la versione integrale del documento.

 

All'alba del terzo millennio dell'era cristiana e alla chiusura dell'anno del Giubileo - che per i cristiani ricorda e realizza un processo di emancipazione e di liberazione, operato da Dio e definitivamente compiuto con Gesù di Nazareth - il Consiglio comunale di Bianco (RC), ispirandosi ai valori espressi dalla Costituzione italiana e dalla Carta dei Diritti fondamentali dell'U-nione europea, chiede, con rispetto e deferenza, che Sua Santità elimini dal "Catechismo della Chiesa Cattolica" quella parte relativa alla pena di morte, dell'art. 2266. Che recita: "Difendere il bene comune della società esige che si ponga l'aggressore in stato di non nuocere. A questo titolo, l'insegnamento tradizionale della Chiesa ha riconosciuto fondato il diritto e il dovere della legittima autorità pubblica di infliggere pene proporzionate alla gravità del delitto, senza escludere, in casi di estrema gravità, la pena di morte".

Molti cattolici e non cattolici, ignorando tale insegnamento del catechismo su questo specifico argomento, ribadito peraltro dall'enciclica "Evangelium vitae" (n. 56), pensano che esso non possa far parte, come di fatto invece è, dell'attuale dottrina, mai negata né condannata, della Chiesa cattolica.

Riteniamo, con la modestia dovuta a chi si rivolge al papa, che anche a semplici rappresentanti di una piccola comunità come la nostra debbano risultare particolarmente significativi quei principi fondamentali contenuti nella Bibbia, che ribadiscono l'intangibilità della vita umana: essa è sacra e solo Dio ne è il Signore; Egli prende sotto la sua protezione la vita dell'uomo e ne vieta l'uccisione (Gen 9,5 e ss; Es 20,13), anche quella di Caino (Gen 4,11-15); Gesù condanna e supera la legge del taglione ("Avete inteso che fu detto: occhio per occhio e dente per dente, ma io vi dico...", Mt 25,38-39) e si rifiuta di approvare la condanna a morte, legittima secondo la legge mosaica, della donna adultera (Gv 8,1-11). Condanna a morte che, come sostengono molti studiosi del Nuovo Testamento, S. Paolo non avalla nel testo di Rom. 13,4, il quale, infatti, non viene citato dal catechismo a supporto del proprio insegnamento.

Profetico ci è sembrato, inoltre, il passo dove Dio annuncia: "Com'è vero che io vivo... io non godo della morte dell'empio, ma che l'empio desista dalla sua condotta e viva" (Ez 33,11).

Come non condividere quanto sostenuto dal Concilio Vaticano II: "...Tutto ciò che è contro la vista stessa... tutto ciò che viola l'integrità della persona umana; ...tutte queste cose... mentre guastano la civiltà umana ledono grandemente l'amore del creatore" (Gaudium et Spes n. 27).

A noi, tuttavia, non sono ignote le ragioni addotte dai sostenitori della legittimità della pena di morte, ma, francamente, ci sembrano di scarso valore argomentativo e molto poco convincenti, come del resto quelle sostenute dal catechismo, che si fondono sull'esigenza di difendere il bene comune.

Siamo dell'opinione che la pena di morte non raggiunga l'obiettivo di riparare il disordine introdotto dalla colpa, né di difendere l'ordine pubblico e la sicurezza delle persone né, tanto meno, essa può avere un valore medicinale o espiatorio.

Siamo d'accordo, invece, con chi, all'interno della Chiesa, sostiene che "la pena di morte oggi appare il residuo di una cultura superata, contraria alla dignità e ai diritti della persona umana" (G. Concetti, Il quinto comandamento, in "Catechismo della Chiesa cattolica, testo integrale e commento teologico", ed. Piemme, 1993, p. 1056).

La Carta dei Diritti fondamentali dell'Unione europea (art. 2) e la nostra Costituzione (art. 27), orientatesi verso forme e livelli di civiltà e di eticità più elevate, non ammettono la pena di morte. D'altronde, il recente dibattito presso l'Onu, del quale l'Italia è stata protagonista, è una prova di tale orientamento, il quale si è andato ampliando e consolidando, anche perché la pena di morte si è sempre più rivelata inutile e perché lo Stato Moderno ha ben altri strumenti per intervenire contro i criminali più pericolosi per il bene comune. Per non parlare, infine, dell'irreparabilità dell'errore giudiziario.

Riconosciamo, tuttavia, che queste ultime motivazioni riguardano l'inopportunità e l'inutilità della pena di morte, ma non possono costituire il "fondamento" della sua eliminazione; "fondamento" che, come ha perfettamente espresso il Presidente del Parlamento europeo, Nicole Fontaine ("la Repubblica" 16/09/00), va individuato nei principi etici e antropologici sopra indicati e che ha le sue radici in un umanesimo autentico e in una dignitas hominis, laici o religiosi che siano.

Per il Cristianesimo tale "fondamento" è nell'essere dell'uomo a immagine e somiglianza di Dio e nell'es-sersi Dio stesso fatto Uomo. Da questo punto di vista sono proprio le condanne a morte ingiuste, che rendono inaccettabile il principio della legittimità della pena di morte e la fanno apparire uno "scandalo", come nel caso di Socrate. Ma, per ogni uomo onesto e giusto, a costruire "lo" scandalo è la morte di Gesù, sebbene condannato "giustamente", secondo gli accusatori. È da queste considerazioni che emerge, a nostro avviso, l'elemento di maggiore debolezza dell'impostazione e delle motivazioni contenute nel catechismo. Se alla legittima autorità pubblica viene riconosciuto il diritto e il dovere di infliggere la pena di morte "in casi di estrema gravità" o di "assoluta necessità", a chi spetta stabilire quali siano questi casi, se non all'autorità pubblica stessa? E sulla base di quali criteri? Etici, politici, economici, religiosi, culturali, sociali, di sicurezza? Ne consegue che il "fondamento" della legittimità e della liceità della pena di morte, in realtà, prescinde del tutto dal valore non contingente della persona in quanto tale e della sua dignità, e può anche prescindere da un valore e da una definizione consolidati, codificati e condivisi del bene comune. Tale "fondamento" finisce per risiedere, invece, nella semplice discrezionalità dell'autorità pubblica, pure se legittima: questa, e solo questa, può decidere quale situazione sia da ritenere di estrema gravità e quale no.

Nei secoli passati e nel nostro sono stati giudicati di estrema gravità anche, e talora soprattutto, la contestazione e il dissenso di carattere religioso e/o politico, con i provvedimenti e le sanzioni di morte a tutti noi noti. Un domani, quale potrà essere un criterio per stabilire se la gravità di una situazione o di un comportamento, individuali o collettivi, siano "estremi" oppure no?

Noi siamo consapevoli che il problema della gravità del delitto si pone e che dovrebbe essere risolto in relazione ad un sistema di valori presenti in una società, da essa condivisi e dall'autorità pubblica assunti. Tuttavia, con la pena di morte è annullato il principio stesso della proporzionalità tra gravità del delitto e severità della pena, perché viene scardinato il criterio quantitativo del più o meno e viene adottato uno qualitativo, che interviene sulla vita e sulla morte delle persone.

A prescindere dal fatto che anche il criterio quantitativo non può risolvere del tutto la questione del rapporto proporzionale tra delitto e pena (che pena differente si dovrebbe infliggere a chi provoca la morte di una e a chi di dieci persone?), la verità incontestabile è che una volta ammesso il principio della liceità della condanna capitale, diventano discrezionali, e talora arbitrari, la sua regolamentazione normativa e la sua applicazione.

A noi sembra chiaro, come ribadisce Sua Santità nell'Enciclica "Evangelium vitae" (n. 27), che, dentro e fuori la Chiesa, si sta ampliando e consolidando nell'opinione pubblica una coscienza collettiva che avversa tale condanna. In ogni caso, ed anche in presenza di un'accertata e grave colpevolezza, essa costituisce e rimane una barbarie, indegna di uno Stato civile e contraria ad una qualsiasi moralità. Pertanto è indispensabile negare il principio che l'autorità pubblica abbia il potere di decidere della vita e della morte dei cittadini, sia pure attraverso regolari processi.

Se la Chiesa ammette il principio della liceità della pena di morte, nulla potrà più recriminare se questa viene poi comminata ed eseguita. La Chiesa stessa, che da sempre si è ritenuta e si è proposta come "Madre e maestra", "Luce delle genti", non può rimanere immobile su posizioni che ai più appaiono tutt'altro che profetiche e contrastanti con l'essenza stessa del messaggio evangelico.

Il fatto che l'insegnamento tradizionale del magistero ecclesiastico abbia riconosciuto la liceità della pena di morte non costituisce affatto un ostacolo, perché si verifichi in questa materia un sostanziale cambiamento, senza del quale, peraltro, appaiono poco credibili e motivate le tante richieste di Sua Santità, come nel caso di Rocco Bernabei, per la sospensione della esecuzioni già sentenziate o i tanti appelli alla eliminazione della pena capitale dall'ordinamento giuridico degli Stati che ancora la prevedono.

Né tale scelta sarebbe in contrasto con la storia della Chiesa e con il suo modo di rapportarsi con il mondo, dal quale riceve aiuto, anche per capire sempre più a fondo la Verità rivelata (Gaudium et spes, n. 44). Tuttavia non è stato sempre così e non lo è stato sicuramente quando, nel 1765, il Santo Uffizio ha condannato "Dei delitti e delle pene" di Cesare Beccaria, senza sforzarsi di cogliere i segni dei tempi, pure presenti in quella pubblicazione, al di là delle premesse filosofiche non condivise.

Sua Santità, nella Bolla di indizione del Giubileo "Incarnationis mysterium" (n. 11), parla di "purificazione della memoria" e "chiede a tutti un atto di coraggio e di umiltà nel riconoscere le mancanze compiute da quanti hanno portato e portano il nome di Cristiani".

Coraggio e umiltà che la Chiesa ha praticato passando dall'intolleranza e dalla condanna esplicita contro la libertà religiosa e di coscienza, mantenute per più di un millennio, al riconoscimento che essa costituisce un valore e un diritto naturale e inalienabile ("Pacem in terris" di Giovanni XXIII, 1963, e la Dichiarazione "Dignitatis humanae", del Concilio Vaticano II, 1965).

Pertanto, nella consapevolezza che un cambiamento dell'insegnamento tradizionale sulla pena di morte non contrasta con la capacità di rinnovamento dottrinale della Chiesa e che, anzi, esprime più compiutamente la sua funzione profetica e di stimolo per le legislazioni dei vari Stati, ribadiamo la nostra richiesta di modificare l'articolo n. 2266 del catechismo rifiutando il principio della liceità della pena di morte, sia pure comminata dalla legittima autorità pubblica e nei casi di estrema gravita o necessità.

 

 

 

«Il Dialogo - Periodico di Monteforte Irpino» - Direttore Responsabile: Giovanni Sarubbi

Registrazione Tribunale di Avellino n.337 del 5.3.1996