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www.ildialogo.org Ricordo di Giulio Regeni,a cura di Miriam Garavaglia

Ricordo di Giulio Regeni

a cura di Miriam Garavaglia

Ricevo da mittenti diversi, raggruppati per comodità d'inoltro, e riporto di seguito. (M.G.)
Da «Operai Contro», numero 37, 6 febbraio 2016. 
Giulio Regeni era uno studioso scomodo, da tenere sott’occhio, da sorvegliare, e perfino punire, visto come sono andate le cose. Era scomodo, dava fastidio, perché si occupava di quei soggetti di cui nessuno vuole più parlare: i lavoratori.
Sono decenni che, a livello globale, si producono tonnellate di libri e articoli per convincerci che i lavoratori non esistono più, che il lavoro è morto, perché ora siamo tutti “collaboratori” felici dei padroni…pardon, dei “datori di lavoro”. Scrivere dei lavoratori oggi, dei loro diritti, del loro sfruttamento e delle loro lotte e scioperi significa, prima di tutto, essere emarginati dal cosiddetto “mondo accademico” (salvo rare eccezioni, ovviamente) che preferisce, nella migliore delle ipotesi, disquisire di aria fritta, piuttosto che contribuire alla comprensione o alla trasformazione della realtà.
Ma in questo mondo, piombato nella più grave crisi economica e politica della sua storia, scrivere dei lavoratori significa anche attirare l’attenzione delle polizie e dai servizi segreti di mezzo mondo. In Egitto più che altrove. Perché in nessun altro paese del mondo si sono registrate mobilitazioni operaie così imponenti e vaste come nell’Egitto degli ultimi anni, prima, durante e dopo la sollevazione del 2011, fino a quando non è scesa la notte con il colpo di stato del generale al-Sisi, “amico personale” di Matteo Renzi.
Checché ne dicano i fan della “rivoluzione Facebook”, quel che è successo in Nord Africa e in Medio Oriente, nel 2011, è stata una gigantesca mobilitazione sociale e operaia per chiedere giustizia sociale, eguaglianza, dignità. Non si chiedeva cioè soltanto un cambio di governo per far funzionare meglio il capitalismo (come ci hanno spiegato da questa parte del mondo), si chiedeva molto di più, si voleva una società e un mondo migliore, più giusto, a misura di lavoratore.
Per avere una conferma di ciò basterebbe osservare quel che è accaduto in Tunisia qualche giorno fa, dove migliaia di giovani, poveri, lavoratori e disoccupati sono tornati a far tremare le strade e le piazze tunisine, chiedendo giustizia sociale. Per capire questa banale verità, che viene sistematicamente occultata dai media e dai politici, basterebbe leggere gli scritti di Giulio Regeni, in cui si racconta di questa vitalità, di questa voglia di lotta mai sopita dei lavoratori e delle lavoratrici egiziani, dittatura o non dittatura, al-Sisi o non al-Sisi.
Giulio è morto per questo, perché era un vero ricercatore, uno di quelli che vogliono andare a fondo alle cose, che non si accontentano di argomenti facili per assicurarsi una carriera sprint, uno di quelli che vogliono essere protagonisti, con i loro studi, della trasformazione radicale della società. Giulio voleva rappresentare coloro che vogliono nasconderci, a tutti i costi: i lavoratori. Pensateci un attimo: come è possibile che ogni volta che in tv si parla dei paesi arabi non ci mostrano mai i volti delle persone comuni nel contesto della loro vita quotidiana? Com’è possibile che non riusciamo mai a leggere articoli sui lavoratori e sulle lavoratrici in Egitto, in Tunisia, in Siria? Eppure sono milioni. Eppure sono la maggioranza. Come qui da noi.
Chi ha battuto le strade del Cairo, chi ha visto all’opera gli apparati di sicurezza egiziani, chi ricorda i teppisti organizzati e mandati in piazza o nelle fabbriche a picchiare manifestanti o scioperanti, chi ha amici egiziani che sono scomparsi o finiti in galera, in Egitto così come in Tunisia o in Yemen, magari dopo aver subito processi farsa, non ha difficoltà a comprendere quel che è accaduto a Giulio.
Noi sappiamo chi sono i mandanti del suo assassinio. E sappiamo che hanno amici molto influenti qui da noi.        Ciao, Giulio!
CIRCOLO DI INIZIATIVA PROLETARIA    GIANCARLO LANDONIO
VIA STOPPANI,15 -21052 BUSTO ARSIZIO –VA-  (Quart.Sant’Anna dietro la piazza principale)
a poca strada dall'uscita autostrada A8.  e-mail: circ.pro.g.landonio@tiscali.it 
Archivio giornali diffusi in prov. di Varese anno 2013. 
 La guerra civile in Egitto

... Ma la spaccatura più profonda è quella che si è determinata tra la nuova cricca e i lavoratori. Questi ultimi si aspettavano pane lavoro aumento salariale il riconoscimento dei sindacati indipendenti e si sono trovati con l’aumento della disoccupazione, l’aumento dei prezzi, senza bombole e coi poliziotti tra i piedi a ogni sciopero. I lavoratori sono temuti dall’esercito e dagli islamisti più di ogni altra cosa. Gli operai hanno sfidato la legge di emergenza, facendo fronte a torture e a ricatti a familiari presi in ostaggio, nella lotta per l’aumento del salario minimo. Nel 2012 ci sono stati 3.800 scioperi; 450 al mese tra luglio e dicembre dopo la vittoria di Morsi. Nel primo trimestre del 2013 gli scioperi sono saliti a 700 al mese. Una metà riguarda la difesa di diritti operai; l’altra la protesta contro l’aumento dei prezzi la mancanza di benzina e di elettricità (4). Quindi il processo di islamizzazione istituzionale (qui non possiamo occuparci delle obbligazioni islamiche chiamate «sokuk» che sono una truffa né del libero scambio nel Sinai) hanno reso incandescenti la rabbia popolare e le tensioni sociali che si sono tradotte in manifestazioni e scontri...
 (4) L’obbiettivo principale dei lavoratori è quello degli aumenti salariali. Molte proteste si riferiscono alla corruzione dei capi. I lavoratori rimproverano al governo di non avere presentato una legge per i sindacati indipendenti e per non avere portato il salario minimo a 1.200 ghinee (pari a 150 €). Quanto ai metodi agli scioperi e alle manifestazioni con blocchi stradali, si alternano il blocco dei mezzi pubblici e le occupazioni.
Link per leggere tutto l'articolo da pag. 3 a pag. 6:

LA RIVOLUZIONE COMUNISTA Luglio-Agosto 2013 (PDF)

--Edizione a cura di---- RIVOLUZIONE COMUNISTA  SEDE CENTRALE: P.za Morselli 3 - 20154 Milano  e-mail: rivoluzionec@libero.it
digilander.libero.it
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Regeni, il senso di Renzi per Abd Al Sisi: chiama “grande statista” il ‘Pinochet delle Piramidi’ che reprime dissenso nel sangue
di  - 6 febbraio 2016  IL FATTO QUOTIDIANO 
Nessuno dei leader europei tranne l'ex sindaco di Firenze - che è stato il primo leader occidentale a incontrare il capo di governo egiziano - si è spinto fino a dirgli quel che mai fu detto al dittatore cileno: “La tua guerra è la nostra guerra”. Il motivo: in Egitto, dove una nuova legge stabilisce che è grave reato smentire la versione prodotta dalle istituzioni, l'Eni ha interessi enormi e la benevolenza del Cairo è necessaria per qualsiasi iniziativa militare in Libia, altra cruciale piazza petrolifera
Qual è la differenza tra Augusto Pinochet, golpista cileno, e Abd al-Sisi, golpista egiziano? Nessuna differenza, risponderà chi non conosce Il Principe di Machiavellinella versione in uso a Palazzo Chigi. L’ignaro si lascerà impressionare dalle similitudini tra i percorsi compiuti dai due generali. Tanto Pinochet quanto al-Sisi sono nel vertice militare quando il governo che li ha nominati sprofonda in una grave crisi di consenso. Entrambi pugnalano quel governo con un colpo di stato. Entrambi s’intestano il potere e massacrano oppositori. Entrambi massacrerebbero di più se non fossero frenati, il cileno dalla Chiesa, l’egiziano da Obama. Così Pinochet si ferma a quota 3 mila uccisi; al-Sisi probabilmente l’ha raggiunto. Parte alto, almeno 1.150 morti in un giorno, 14 agosto 2013. “Il più grave massacro di dimostranti nella storia dei crimini contro l’umanità”, dice Sarah Leah Whitson, di Human Right Watch, ascoltata lo scorso novembre dal Congresso Usa.
Dai giorni della strage il regime ha continuato a reprimere nel sangue le manifestazioni e ha arrestato 41 mila egiziani, tra Fratelli musulmani e militanti di partiti laici. Uno studio legale cairota ha documentato, finché ha potuto occuparsene, 465 casi di tortura, 129 dei quali hanno condotto alla morte del torturato. Lo stupro delle donne arrestate, o di mogli o figlie di arrestati, è diventato un metodo per intimidire ed estorcere confessioni.
La stampa non può scriverlo, una nuova legge stabilisce che è grave reato smentire la versione prodotta dalle centrali della repressione. Ma allora perché – si domanderà a questo punto l’ignaro – Matteo Renzi si vanta (con la platea di Cl) di essere stato il primo capo di governo occidentale ad aver incontrato il Pinochet egiziano? Perché lo definisce “un grande statista” e invita a riconoscergli “il merito di aver ricostruito il Mediterraneo”, frase priva di senso ma ammirativa nella sua sonorità?
“La tua guerra à la nostra guerra, e la tua stabilità è la nostra stabilità”, gli disse l’anno scorso, come ricorda impietosamente un saggio recentissimo, The Egyptians. Non sarà stato quel saltellare festoso intorno allo sterminatore lo spettacolo più basso mai offerto all’estero da un nostro premier, perfino più triste del Berlusconi acciambellato come un cagnolino nel salotto di casa Bush? Quando poi constata che i salamelecchi di Renzi non hanno provocato il minimo sussulto nei partiti e nei media maggiori, l’ignaro comincia a sospettare che quelle smancerie corrispondano ai costumi di una classe dirigente cui l’odore del petrolio abbatte il senso del pudore.
L’Eni ha interessi enormi in Egitto e la benevolenza del Cairo è necessaria per qualsiasi iniziativa militare in Libia, altra cruciale piazza petrolifera. Eppure neanche questo è sufficiente a spiegare gli slanci di Renzi, così intensi e reiterati da risultare sinceri. Quando il premier dice ad alla tv Al Jazeera che “in questo momento l’Egitto può essere salvato solo dalla leadership di al-Sisi (…), sono orgoglioso della nostra amicizia e lo aiuterò a proseguire nella direzione della pace”, non recita. È davvero convinto che l’amico del Cairo applichi, con metodi inevitabilmente duri, quella famosa teoria di Nicolò Machiavelli oggi conosciuta come la dottrina del male minore.
Qui è cruciale sapere che Renzi si ispira al Machiavelli, come ci ricordano i giornali. Dunque diamo per scontato che il premier abbia letto Il Principe e ricordi il capitolo 17, dove sono i paragrafi che fondano la dottrina del male minore, spesso spiegata nei termini del fine che giustifica i mezzi. E così paiono interpretarla tanto Renzi quanto il nostro giornalismo. Ma per Machiavelli un governo incalzato da una suprema emergenza può ricorrere alla ‘crudeltà’, solo a patto che quel male porti a un bene maggiore; e comunque rappresenti la deroga, non il sistema. Il male praticato da al-Sisi non soddisfa né l’una né l’altra condizione. È il sistema, non la deroga. E non funziona. 
Non riesce a fermare gli attentati nel Sinai. Smantella legalità, accresce corruzione. E potenzia il terrorismo. Nelle carceri e nei centri di tortura gli jihadisti incalzano i detenuti politici: ora sapete dove conducono non-violenza e democrazia in questa regione; e sapete anche quanto gliene importi alle democrazie europee dei diritti umani, li hanno scordati appena al-Sisi ha aperto i forzieri; convincetevi, l’unica soluzione è la guerra santa.
Nessuno dei leader europei tranne Renzi si è spinto fino a dire ad al-Sisi quel che mai fu detto a Pinochet, neppure dall’amica Thatcher: “La tua guerra è la nostra guerra”. Nel caso non improbabile che la casta militare liquidi al-Sisi e s’accordi con i protagonisti della tenace ‘primavera araba’, il machiavellismo alla Checco Zalone ci costerà molto più del disonore che oggi ci attira quella terribile ammissione di complicità.        da Il Fatto Quotidiano del 5 febbraio 2016
Un Paese nella violenza
L'analisi. È legittimo spostare l'attenzione dal caso al contesto all'Egitto del Generale Sisi
di ROBERTO TOSCANO   LA REPUBBLICA      05 febbraio 2016
NO, non è stato un incidente stradale a stroncare, al Cairo, la giovane vita di Giulio Regeni. Lo sosteneva fino a poche ore fa la versione ufficiale della polizia, ben presto confutata dalla magistratura locale e dagli atroci particolari di quello che è un barbaro delitto.

Giulio è morto a seguito di ferite da arma da taglio, bruciature, contusioni e il suo corpo è stato buttato in un fossato. Sarebbe azzardato tentare una ricostruzione di quello che può essere avvenuto, ma va detto subito che le modalità del crimine permettono di escludere che si tratti di un episodio di criminalità comune, come una rapina trasformatasi in omicidio. Da quella ferocia traspare invece l'odio, la volontà - che può essere solo politica - di punire una trasgressione o una intromissione in spazi proibiti. Giulio conosceva bene l'Egitto, lo amava, aveva molti amici, uno dei quali avrebbe dovuto incontrare su Piazza Tahrir, il luogo emblematico della protesta del 2011.

Vogliamo saperne di più: lo chiede una famiglia devastata dal dolore, ma lo chiede anche un Paese che si occupa, e si preoccupa, della sorte dei propri cittadini ovunque essi si trovino. Ci vorrà tempo, e speriamo che le contraddizioni immediatamente emerse fra le versioni delle autorità egiziane non siano il presagio di un insabbiamento, di una confusione in cui l'inefficienza burocratica potrebbe intrecciarsi con la volontà di non arrivare a una risposta. Ma già è possibile fare qualche riflessione.

In Egitto la violenza contro gli stranieri è drammaticamente nota, dagli attacchi con bombe e kalashnikov a gruppi di turisti al recente attentato che ha portato all'esplosione in volo di un aereo russo in partenza da Sharm el-Sheikh. Azioni il cui scopo è quello di chiudere un flusso di visitatori da tutto il mondo che per l'Egitto riveste un'importanza vitale. Sono stati certamente dei terroristi a mettere non molto tempo fa la bomba al consolato italiano al Cairo, ma i terroristi non se la prendono con uno straniero isolato, a meno che non si tratti di rapirlo e chiedere un riscatto.

Ripetute denunce di Ong per i diritti umani sia egiziane che internazionali permettono di formulare un'ipotesi più credibile. Vi si parla di numerosi episodi di sequestro, da parte di forze di sicurezza, di persone che vengono torturate per poi essere in alcuni casi rinviate a giudizio, di solito con l'accusa di terrorismo, mentre in altri casi le detenzioni rimangono clandestine e gli arrestati rimangono a lungo nella condizione di "desaparecidos" o vengono ritrovati morti.

L'Italia ha legittimamente chiesto di potere affiancare gli investigatori egiziani per dare risposte credibili a questi angosciosi interrogativi, ma in attesa di chiarimenti che purtroppo potrebbero tardare, è legittimo spostare la nostra attenzione dal caso al contesto in cui questa atroce morte si è verificata: l'Egitto del presidente Sisi. Dopo la delusione delle speranze suscitate dalla Primavera Araba, che proprio in Egitto aveva prodotto gli effetti politici più significativi, con la caduta di Hosni Mubarak, il timore del caos - un caos in cui trova spazio e alimento l'offensiva del jihadismo radicale - ha portato un po' tutti, americani ed europei (compresi noi italiani) a decidere che tutto sommato era meglio tornare a un passato antidemocratico e repressivo capace di garantire, con l'avvento di un regime stabile, la nostra sicurezza e i nostri interessi economici. Lo chiamiamo realismo, ma lo è davvero?

In Egitto si reprimono nello stesso tempo i sostenitori dei Fratelli Musulmani e i giovani liberali che cercano di preservare spazi di libertà e di pluralismo. Ci si deve però chiedere quanto a lungo sarà sostenibile un potere che non è nemmeno una riedizione dell'autoritarismo di Mubarak, spesso mediato da forme di consenso e inclusione, ma è ormai un regime di militarismo puro. Stabilità regionale, sicurezza e interessi economici sono certamente fattori da tenere presenti nel quadro della nostra politica internazionale, ma si dovrebbe evitare di definire le nostre politiche sulla base del breve termine e della rimozione di un ragionamento serio sulle prospettive anche a medio termine. È giusto essere realisti e incoraggiare, in Medio Oriente e Nord Africa, governi che sono ancora largamente autoritari, ma che non sono costretti, per mantenersi, a puntare su una feroce e indiscriminata repressione - governi che dovremmo cercare di accompagnare in un percorso graduale che dovrebbe tendere a rendere stabilità e democrazia finalmente compatibili. Governi, per intenderci, come quelli di Marocco e Giordania.

Dopo il colpo di Stato del Generale Sisi, all'inizio salutato da molti che constatavano l'inettitudine del governo dei Fratelli Musulmani e ne temevano le intenzioni, l'Egitto si è invece incamminato senza mediazioni su una strada radicalmente diversa in cui la violenza tende sempre più a costituire l'unico terreno della politica creando un contesto in cui aumenta il rischio per tutti - egiziani e stranieri - di diventare vittime.
 
06POLITICAITALIAFonte: il manifestoAutore: Norma Rangeri
Il dolore e gli avvoltoi
Tutto il manifesto in questo momento è accanto alla famiglia di Giulio Regeni, per condividere con i genitori il dolore di chi ha perso un figlio nel modo più crudele e violento. Un ragazzo che li rendeva orgogliosi perché studiava e univa l’impegno civile al suo lavoro di ricercatore. Una giovane persona curiosa del mondo, attenta ai problemi sociali di un paese dove il dissenso non solo non viene tollerato ma è selvaggiamente represso con il carcere, le sparizioni, le uccisioni.
Della sua profonda passione e della forte partecipazione alle vicende di quel paese è del resto piena testimonianza l’articolo che ieri abbiamo pubblicato sul nostro sito, e poi sul giornale. E’ il racconto, preciso e appassionato, di un’assemblea sindacale. Giulio spiega la difficoltà dei lavoratori del settore pubblico, la mancanza di democrazia nell’organizzazione del sindacato egiziano, e la fatica di opporsi al programma di privatizzazioni iniziato ai tempi di Mubarak in un paese ormai martoriato dalla repressione feroce di un regime sanguinario. Nel suo reportage si approfondisce l’analisi sociale e se ne ricava il giudizio politico, con la consapevolezza che tutto, libertà, lavoro e diritti, viene oggi giustificato, in quel paese, dalla guerra al terrorismo. E forse, leggendolo, la polemica nata attorno all’affrettata diffida scritta a nome della famiglia, potrà stemperarsi e trovare nella concitazione di quelle ore terribili, la sua unica, comprensibile spiegazione.
Ma nulla, purtroppo, può sfamare gli avvoltoi che hanno infierito in queste ore su Giulio Regeni. Quegli avvoltoi che vivono nella Rete e che lo hanno arruolato nei servizi segreti italiani coprendo la sua vita di fango, come a giustificare la sua morte. Purtroppo a questi bassifondi dell’informazione siamo abituati perché, come abbiamo scritto, siamo un giornale di frontiera che ha già vissuto sulle sue povere ma robuste spalle altri drammi e tragedie, sempre e solo legate all’impegno politico e giornalistico, al dovere di testimoniare. E così è stato anche nella terribile vicenda di questo ragazzo che aveva appena iniziato a scrivere per noi perché considerava «un piacere poter pubblicare sul manifesto», considerandolo «il giornale di riferimento in Italia», come scriveva nelle mail.
Oggi il suo corpo viene restituito al nostro paese. E mentre cominciano a emergere particolari sulle torture subite, il dittatore egiziano si mostra cortese e comprensivo verso il governo italiano messo nel grave imbarazzo di ritrovarsi il cadavere di un giovane italiano mentre discute di affari con il nostro ministro dello Sviluppo economico. L’incidente va archiviato, magari con la punizione esemplare di qualche poliziotto (si parla di due arresti). Uno di quelli indicati da Mona Seif, nota attivista dei diritti umani, autrice di un appello agli stranieri di non recarsi in questo momento nel suo paese dove «qualsiasi poliziotto di qualsiasi grado si sente in diritto di detenere e magari torturare chiunque cammini per strada».
Il caso Regeni va dunque risolto il più rapidamente possibile, così da riprendere presto le normali, anzi, le privilegiate, relazioni tra l’Egitto e l’Italia. Un punto fermo della nostra politica internazionale, una corsia preferenziale sullo scacchiere mediorientale, specialmente in vista di probabili, ravvicinati interventi militari in Libia, con il dittatore Al-Sisi schierato dalla parte giusta. Si chiama real-politik.
, giornalista e scrittore    05 febbraio 2016 14:58   INTERNAZIONALE
I ragazzi muoiono. Giulio Regeni aveva 28 anni ed era al Cairo a fare una ricerca di dottorato sull’economia egiziana. In realtà – credo sia evidente a tutti – era uno che faceva coraggiosamente anche il giornalista free lance e cercava di riportare un minimo di verità e di luce su un paese governato dal regime militare oppressivo guidato dal generale Al Sisi. Era un giornalista senza protezione, il Manifesto che pubblicava i suoi pezzi era purtroppo una testata debole per garantirgliene una. 
Soprattutto se si tiene conto che negli ultimi due anni in Egitto sono state uccise – stando ad Amnesty international – 1.400 persone ritenute oppositori del regime, e che nel paese sono all’ordine del giorno arresti di giornalisti indipendenti. L’impunità dei militari non si ferma neanche di fronte all’autorevolezza di un network come Al Jazeera: ad agosto due suoi giornalisti, Mohamed Fahmy e Baher Mohamed, accusati di aver “diffuso notizie false”, erano stati condannati a tre anni (poi sono stati graziati) per aver dato attraverso le loro inchieste copertura mediatica alle attività dei Fratelli musulmani. 
È un fatto innegabile l’indulgenza che Matteo Renzi ha mostrato nei confronti dell’autoritarismo di Al Sisi
Dall’altra parte però la morte di Giulio Regeni non parla soltanto del metodo intimidatorio del potere di Al Sisi, ma anche della debolezza che spesso il governo italiano mostra in queste situazioni. Possiamo sperare che stavolta sia diverso, ma è un fatto innegabile l’indulgenza che Matteo Renzi ha mostrato più volte nei confronti dell’autoritarismo di Al Sisi, a partire dall’imbarazzantissima intervista di luglio ad Al Jazeera quando lo definì “a great leader”, derubricando la questione degli attacchi seriali ai giornalisti a una sorta di inevitabile danno collaterale del nuovo potere egiziano. 
Ma l’aspetto ancora più triste della morte di Giulio Regeni – che ha tutti i tratti di un omicidio per agguato e morte per tortura per il quale Renzi chiede semplicemente “chiarezza” – è che non è e non sarà un caso isolato. 
Succede anche in un paese come l’Italia, così preso dalle piccole beghe nazionali e devastato dall’antipolitica, che ci siano ragazzi e ragazze, uomini e donne che partono per documentare la violenza di regimi oppressivi e aiutare le popolazioni coinvolte. È accaduto a Giovanni Lo Porto, il cooperante ucciso in Pakistan da un attacco con i droni statunitensi, per il quale il governo italiano non è riuscito ad avere informazioni e scuse adeguate dal presidente Obama e ad allestire un decente momento di commemorazione nell’aula di Montecitorio. 
È accaduto ad Andrea Rocchelli, fotoreporter ucciso in Ucraina nel maggio del 2014, che non ha meritato nemmeno una dichiarazione di condoglianze da parte di Renzi, e per cui – come ha ricordato recentemente Lucia Sgueglia – è stata aperta un’inchiesta di cui non importa a nessuno e che sta cadendo nel vuoto. 
In tutto questo colpisce ascoltare ogni volta il presidente del consiglio parlare della sua vocazione politica come quella di un ragazzo che ha scelto di impegnarsi perché si trovava nel mezzo di quella grande fase di pacifismo internazionale degli anni novanta, negli anni della mobilitazione contro la violenza delle guerre nell’ex Jugoslavia e dei massacri in Ruanda. Di quella vocazione evidentemente non è rimasto molto. 
, giornalista e ricercatrice     05 febbraio 2016 13:14  INTERNAZIONALE
Le ultime notizie certe sul dottorando italiano Giulio Regeni risalgono al 25 gennaio scorso, mentre prendeva la metropolitana per raggiungere un amico in centro, al Cairo. Il 3 febbraio, il suo corpo seminudo è stato ritrovato sul ciglio di una strada del quartiere di Giza, nella periferia del Cairo. 
Le dichiarazioni ufficiali sono state contraddittorie. Il magistrato Ahmed Nagi, che guida le indagini della procura del Cairo, ha dichiarato che il corpo era chiaramente stato torturato, con “bruciature di sigarette, tagli e contusioni”. Il generale Khaled Shalabi, alto ufficiale della polizia giudiziaria, ha sostenuto che Regeni fosse morto in un incidente di macchina. Il portavoce del ministro dell’interno ha rifiutato di commentare. Accompagnati dall’ambasciatore italiano, Maurizio Massari, i genitori hanno riconosciuto il corpo del figlio all’obitorio di Zeinhome. 
Il 25 gennaio, quinto anniversario della rivoluzione di piazza Tahrir, è stato segnato da un’ondata di arresti e violenze compiute dalla polizia senza precedenti. I rapporti del quotidiano Al Masry al Youm sono circonstanziati: sono state arrestate più di 150 persone, tra cui almeno 78 nel quartiere di Giza con l’accusa di appartenere ai Fratelli musulmani. Per settimane, la tensione è stata tale da impedire qualsiasi manifestazione nel paese, eccetto la festa ufficiale di ringraziamento alla polizia. 
In Egitto la repressione contro giornalisti, ricercatori e scrittori
sta diventando un’inquisizione
Nelle ultime settimane la stampa, seppure imbavagliata da quando è al potere il generale Abdel Fattah al Sisi, sta denunciando centinaia di sparizioni di giovani egiziani. È una novità del regime militare di Al Sisi: come è successo a Giulio Regeni, i desaparecidos non sono registrati in nessuna centrale di polizia e riappaiono – se riappaiono – dopo settimane con segni di tortura e “profondamente cambiati”, come hanno raccontato i familiari delle vittime al New York Times. 
Secondo il gruppo indipendente Horreya al Gaddaan (Libertà per i bravi) oltre 163 giovani egiziani sono spariti tra aprile e giugno del 2015, e solo 64 di loro sono tornati a casa, per ora. Quelli che ci sono riusciti raccontano di centri di detenzione segreti e di torture, spiega Khaled Abdel Hamid, portavoce del gruppo. 
I ricercatori universitari sono nel mirino dell’autorità insieme ai giornalisti: la settimana scorsa, l’ambasciata egiziana a Berlino è stata accusata di segnalare alle autorità del Cairo le attività dei ricercatori in Germania dopo che uno di loro, Atef Botros, è stato fermato all’aeroporto del Cairo, interrogato e obbligato a tornare a Berlino. Il ricercatore e giornalista Ismail Alexandrani è stato arrestato appena atterrato dalla capitale tedesca a Hurghada, città sul mar Rosso dove aveva intenzione di assistere a una conferenza sul Sinai. Il giornalista Walid al Shiek, arrestato anche lui, ha accusato l’ambasciata egiziana in Germania di inviare rapporti ai servizi di sicurezza. Giulio Regeni lavorava su un tema molto sensibile per le autorità egiziane: sindacati e diritto del lavoro. 
Per le organizzazioni dei diritti umani, la situazione in Egitto è senza precedenti e per molti la “situazione è peggiore di quella dell’era Mubarak”. Al difensore dei diritti umani Gamel Eid, avvocato per l’Arabic network for human rights information, è stato vietato di viaggiare ed egli ha commentato denunciando “un regime di polizia”. Il commentatore politico Ibrahim Issa ha dichiarato a Qahira Tv che, in Egitto, “la repressione contro intellettuali, ricercatori, scrittori e anche caricaturisti sta diventando inquisizione pura e semplice”. 
Il generale Al Sisi ha decretato l’anno 2016 l’anno della gioventù. 



Domenica 07 Febbraio,2016 Ore: 15:05
 
 
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