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www.ildialogo.org «DON ANDREA È MORTO. IN MARCIA COL GALLO CHE CANTA CON NOI»,di Paolo Farinella

Ricordi
«DON ANDREA È MORTO. IN MARCIA COL GALLO CHE CANTA CON NOI»

di Paolo Farinella

Memoriale di don Andrea Gallo a 20 giorni dalla morte
Parole in libertà di Matteo Viviano e Paolo Farinella, prete
Chiesa di San Torpete – Genova – lunedì 10-06-2013, ore 17,45

Testo dell’intervento di Paolo Farinella, prete

Genova 10-06-2013 –Non voglio fare un ricordo da santino di don Gallo perché in queste commemorazioni, c’è sempre il rischio di scadere nel retorico e nella falsità. Dei morti bisogna parlare sempre bene: questa è la logica del mondo che si nutre di esteriorità e convenevoli convenzionali. Se facessimo questo il primo a darci un calcio ben assestato nel sedere sarebbe proprio don Gallo che non ha mai sopportato né lo sopporta da morto, i salamelecchi e i servilismi. In un tempo di servi e venduti, anche a costo zero, è necessario mantenere la dignità e il rispetto della verità.

Don Gallo fu un prete puttaniere nel vero senso della parola perché visse sul marciapiede che condivise con puttane, travestiti e con chiunque lo occupasse. Non chiese mai l’indirizzo o il codice fiscale, si accostava, stava, dimorava, conversava, ascoltava. Quello che Luca dice di Gesù si può e si deve dire di don Gallo: «Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: “Costui accoglie i peccatori e mangia con loro”» (Lc 15,1-2). La strada era il suo monastero, il marciapiede la sua Chiesa, le persone la sua liturgia, la dignità dei figli e figlie di Dio la sua religione. Fu tollerato cioè sopportato dai farisei del tempio perché prendeva sul serio il Vangelo, alla lettera come Francesco di Assisi «sine glossa», senza fare finta.

La persona è il suo messaggio, il suo agire, la sua coerenza e l’impronta che lascia, senza nemmeno sapere di lasciare qualcosa. La persona vive e non si preoccupa di altro che di essere se stessa: chi gli sta accanto prende quello che gli serve, come da una fontana pubblica. Solo la morte dirà chi è stata perché si muore come si vive. La folla ininterrotta che ha varcato la chiesa di San Benedetto dal 22 al 24 maggio sera, e che ha affollato Genova nel giorno del funerale, non era lì per compiere un atto dovuto e nemmeno per rendere testimonianza a un uomo stimato e apprezzato. Era lì perché «doveva» esserci per necessità esistenziale. In quella bara, in quel corpo maciullato dalla malattia c’era un pezzo di ciascuno dei presenti, c’era un brano di racconto della vita di ciascuno perché don Gallo non fu un esempio, ma una presenza, anzi quella che la tradizione giudaica chiama «Shekinàh-Dimora»: egli fu abitato perché non esistette per sé, esistette solo per gli altri. Fu prete perché fu pane spezzato e frantumato, briciola dopo briciola. Fu prete a perdere, senza condizioni. Chiunque arrivava poteva staccare un pezzo di Gallo e mangiarselo e poi andare via.

In nessuno come in Don Andrea ho visto sperimentato quanto ho scritto in un libro alcuni anni fa: l’altro come misura della propria identità; ognuno di noi scopre se stesso solo se è capace di conoscere e di riconoscere gli altri come diversi da sé perché solo la presenza dell’alterità mi permette di prendere coscienza della mia identità che si definisce a partire dalla differenza/diversità. Venti anni di becero leghismo e di berlusconismo assassino hanno drogato e ucciso la coscienza di una nazione, complice il clericalismo che per meno di un piatto di lenticchie ha fornicato con politiche di risulta, con escrementi di egoismo liberista, trasformando anche la «religione» in supporto osceno di ordine pubblico contro la dignità dell’altro, specialemnte se povero e immigrato (Il Crocifisso tra potere e gloria. Dio e la civiltà occidentale). Don Gallo ha lottato contro un clero pavido e peccaminoso che ha fatto alleanza, come sempre, con il potente di turno, pur di portare a casa qualche briciola di privilegio, anche a costo di tradire il Cristo Crocifisso nei «cristi crocifissi» della Storia, paga solo che il simbolo della croce senza Cristo fosse appesa alle pareti di scuole ed edifici pubblici. Il Gallo visse e lottò contro quetso ateismo di Stato che nel passaggio dal secondo al terzo millennio s’incarnò nel Vaticano e nella Cei, alleati di Berlusconi e della Lega di Bossi/Maroni: l’indecenza eretta a sistema d’interessi reciproci.

Il risultato lo si vide nei funerali di don Gallo: il cardinale Angelo Bagnasco, senz apiù collirio per gli occhi limpidi del puro vangelo, non ha saputo o potuto rendersi conto dell’evento che stava accadendo a Genova perché entrò nella chiesa del Carmine per una porta secondaria e non camminò per le strade della città, privandosi della gioia di vedere il suo popolo attorno ad un suo prete che celebrava la sua morte come incontro di vita. Chiuso nel suo liturgismo e nella sua formalità vanesia, ingessato nei paramenti liturgici, non seppe cogliere il segno dei tempi che sabato 25 maggio 2013 fu don Gallo, come lo fu in tutta la sua vita. Un’occasione perduta. Per lui e per il presbiterio. La sera, alla veglia nessun prete di Genova c’era, tranne me e don Pierino Cattaneo, parroco di San Francesco di Pegli: i preti presenti erano tutti di fuori Genova, come anche ai funerali, due terzi dei preti erano di altre città, amici e confratelli di vita. Segno evidente che per il presbiterio locale, don Andrea era «extracomunitario», fuori del coro.

La vera definizione di Dio, si trova nel libro dell’esodo, quando Mosè fa l’esperienza del roveto ardente e Dio gli si rivela. Le parole con cui il Dio sconosciuto si manifesta, in ebraico sono: «’èhyèh ‘ashèr ’èhyèh» che tradotto secondo le regole della linguistica testuale deve rendersi così: «Io sarò chi sono stato» e non «Io sono colui che sono» (Es 3,14), espressione estranea alla cultura e al pensiero ebraico. Per la Bibbia, il futuro è dietro di noi e la storia è criterio di lettura per anticipare il futuro. Don Gallo è stato sempre quello che sarebbe diventato e ancora oggi sarà in avvenire quello che è stato, perché per lui ci fu solo perfetta coerenza tra Vangelo e vita. Pochi, però, sanno chi fu e cosa scelse, ma più ancora perché e come scelse quello che fu. Alcune pennellate, forse ci aiuteranno a capire meglio l’uomo, il prete, il Gallo.

Andrea nacque a Genova il 18 luglio 1928.

Nel 1944, ad appena sedici anni, studente dell’Istituto tecnico nautico, seguì il fratello Dino che comandava una formazione partigiana e prese il nome di battaglia di «Nan» nomignolo affettuoso che significa «nanerottolo/piccolino» e partecipò attivamente alla lotta di liberazione che avrebbe segnato in modo indelebile la sua vita per sempre.

Nel 1948 entrò nell’Istituto di Don Bosco nel noviziato di Varazze, poi a Roma per gli studi liceali e al PAS (Pontificia Università Salesiana) per quelli filosofici.

Nel 1953 parte per San Paolo in Brasile dove porta a termine gli studi teologici primari.

Nel 1954 la tensione in Brasile salì al massimo e il governo di Getúlio Vargas lo costrinse a ritornare in Italia, a Ivrea per continuare gli studi. Il 1 luglio 1959 è ordinato prete a Sampierdarena (la data è importante, come dirò più sotto).

Nel 1960 fu inviato come cappellano alla nave-scuola Garaventa, all’epoca, rinomato riformatorio per minori. Cercò di rivoluzionarne i metodi educativi, trasformando la repressione in relazioni attente alla persona, alla luce anche della pedagogia di don Lorenzo Milani, che cominciava a diffondersi in Italia (Esperienze Pastorali è del 1957) e che era basata sulla fiducia e sulla libertà, in una parola sulla dignità del bambino e del ragazzo, soggetto di diritti e non delinquente da raddrizzare. Era logico che, nel contesto di quei tempi, suscitasse l’interesse dei ragazzi che con lui potevano uscire e andare anche al cinema e nello stesso tempo accresceva la preoccupazione dei tutori dell’ordine poliziesco sia al Provveditorato che in Curia.

Nel 1963 fu rimosso dall’incarico senza spiegazioni e siccome non era un tipo che si accontentava di tisane e camomille, nel 1964 lascia i Salesiani che per don Andrea si erano imborghesiti fino al punto da non potere più vivere il carisma dei poveri: gli utenti dei Salesiani erano ormai solo coloro che potevano pagare la retta, cioè i ricchi e i borghesi di Castelletto.

Chiese al cardinale Giuseppe Siri di diventare prete diocesano a Genova. Siri lo accolse e lo mise subito alla prova, forse per saggiarne l’autenticità, mandandolo all’isola di Capraia come cappellano del carcere[1]. Dopo circa due mesi, fu richiamato sulla terra ferma e mandato come vice parroco alla chiesa del Carmine, alla Nunziata, dove restò fino al 1970.

Io lo conobbi qui, nel 1970, alla manifestazione pubblica sul piazzale del Carmine indetta da parte dei simpatizzanti e dal Movimento dei Camillini a difesa di don Gallo che era stato accusato da un gruppo di parrocchiani baciapile che lo denunciarono alla curia, minacciando lo sciopero della Messa domenicale. La Curia, sventurata, rispose. All’epoca io studiavo a Verona, al seminario per l’America Latina; trovandomi a Genova partecipai alla manifestazione più come curioso che come protagonista. In quell’anno abitavo in Oregina e il parroco padre Agostino Zerbinati mi informò dei fatti e così decisi di partecipare.

Pochi ricordano il fatto, ma è utile rivisitarlo perché fu la classica goccia che generò la deflagrazione che dura ancora oggi:

Nel 1970 nel quartiere del Carmine fu scoperta una fumeria di hashish con grande risalto sulla stampa e proteste da parte dei cittadini che chiedevano interventi esemplari, ecc. ecc. Don Gallo nell’omelia della domenica successiva parlò a tutto campo delle droghe che uccidevano il quartiere, la Chiesa e la società e davanti alle quali nessuno batteva ciglio: la droga del linguaggio – secondo la visione di Lorenzo Milani, per cui un ragazzo poteva essere definito «inadatto agli studi» se povero, mentre era «promettente» se figlio di papà; parlò della droga dei bombardamenti a tappeto contro popolazioni inermi che vengono definite «azioni a difesa della libertà», parlo della droga di una religione che assolve chi ruba e uccide, ma nega i sacramenti a chi pensa e critica. Disse che se uno era devoto del Sacro cuore di Gesù era buon cristiano, mentre se si richiamava al Cristo misericordioso che accoglie peccatori e prostitute è un cattivo maestro e un cristiano da evitare. Mise in rilievo le contraddizioni che nessuno voleva vedere e per avere detto la verità, come capita sempre ai profeti, fu accusato di essere comunista e vi fu una sollevazione dei borghesi di Castelletto e del Carmine che chiesero il suo allontanamento. Una sintesi si trova nel settimanale Sette Giorni del 12 luglio 1970 in un articolo dal titolo «Per non disturbare la quiete»

Questo episodio fu determinante per capire da dove veniva, dove sarebbe andato e dove è arrivato don Andrea per il quale il conflitto era il pane quotidiano, non come contestazione fine a se stessa, ma come motore di dialogo e di controversia per fare emergere la verità delle cose. Il conflitto è un atto di riconoscimento dei conflittuali e don Andrea ha sempre tentato di convincere e di fare ragionare. In questo fu salesiano fino al midollo e lo fu per sempre.

Era la prima volta che a Genova aveva luogo una manifestazione di massa di natura ecclesiale che contestava l’autoritarismo del cardinale Siri e della curia ad appena cinque anni dalla chiusura del concilio Vaticano II. Siri pensava che la sua diocesi fosse immune dall’eresia del concilio che egli identificava ancora con «il modernismo», di cui fu ossessionato per tutta la vita e che sognava, da sveglio e anche di notte. Quella manifestazione fu uno spartiacque, un evento nazionale e segno che la Chiesa genovese, come quella italiana stava cambiando e anche rapidamente.

Avevo 21 anni e non ero prete. Provenivo da Verona, dove ebbi una scuola di vita di cui porto ancora oggi le stigmate a fuoco sulla carne dell’anima mia come i doni più grandi ricevuti da Dio. Devo a Verona e ai preti di allora (Pavanello, Agazzi, Bolzon, Bergamini, ecc.) se oggi sono prete anticlericale, orgoglioso di esserlo fin nel midollo del mio cuore. Se fossi rimasto nel seminario di Genova, sicuramente me ne sarei andato via perché il modello di prete che mi veniva proposto era un fallimento: incartato su se stesso con la prospettiva di un campanile, una canonica con l’albero di fico e non fare nulla. Verona fu una fucina, un laboratorio, un esperimento, un entusiasmo, un progetto, un’esplosione di vitalità universale e di desiderio cattolico.

Nel 1967, seminarista, quindi formalmente ancora laico, dopo un colloquio con don Mario Agazzi, in casa dei suoi genitori a Pegli, andai da Siri e gli dissi che volevo andare a Verona. Siri rispose: «Se fossi tuo padre non ti lascerei andare». Io gli replicai: «Poiché lei non mio padre, per grazia di Dio e per mia fortuna, io me ne vado». Mi lasciò andare, forse tirando un respiro di sollievo. Partii nel mese di ottobre per il Seminario «N. S. di Guadalupe» di San Massimo, a km 12 da Verona, dove respirai la Chiesa universale. Qui, con gli altri studenti di teologia occupai il cantiere di una chiesa, costata un miliardo, contestando sia la costruzione sia l’organizzazione degli studi. La chiesa fu terminata, ma in compenso ottenemmo la riforma dello studentato, riforma che poi si estese a tutta Italia, sull’onda lunga del concilio.

In quegli anni abitavo in Oregina e non conoscevo don Gallo né ebbi rapporti con lui, ma lo osservavo da vicino. Egli solidarizzò anche con la parrocchia di Oregina di padre Agostino Zerbinati e padre Raffaele Podestà che avevano accolto il «Movimento dei Camillini», primo tentativo di «comunità di base» a Genova. Quasi contemporaneamente era scoppiato «il caso Isolotto di don Enzo Mazzi» a cui il cardinale Florit aveva negato la cresima per i ragazzi, ritenendo la Comunità fuori della Chiesa. Essi si misero alla ricerca di un vescovo che desse loro la cresima. La Parrocchia di Oregina e il Movimento dei Camillini invitarono la Comunità dell’Isolotto senza preavvertire il cardinale Siri, che da lì a qualche giorno sarebbe andato a dare la cresima in Oregina.

La Curia di Genova proibì la cresima ai ragazzi dell’Isolotto e sospese la cresima a quelli di Oregina, chiedendo la sconfessione pubblica a padre Zerbinati, ma questi rincarò la dose: disse che se quelli dell’Isolotto non potevano ricevere la Cresima, nemmeno i suoi ragazzi l’avrebbero ricevuta. In questo processo di tensioni e di discussioni s’inserì anche don Antonio Acciai, parroco di via Vesuvio, che cercò di tenere aperto un dialogo anche quando Siri fece sospendere a divinis Zerbinati.

Per me quella manifestazione e quegli eventi furono a Genova come un battesimo di sangue. Mi aprirono gli occhi e mi fecero propendere in modo irreversibile verso una ecclesiologia che certamente non era quella di Siri. Credo di essere nato quel giorno come tipo di prete che avrei voluto essere. Negli anni ’80 fui trasferito in campagna, a Calvari di Davagna nell’entroterra genovese, a pochi chilometri da Prato, dove ristrutturai la canonica per farne una abitazione residenziale per tossicodipendenti e ragazzi in procinto di andare in carcere. Ne parlai con don Piero Tubino e insieme consultammo don Andrea Gallo, il quale mi disse che quella era la strada giusta e non solo perché a Genova ce n’era bisogno, ma perché era la scelta che avrebbe fatto Gesù. Da allora diventammo amici e tra di noi c’è stata piena e perfetta consonanza. Quando c’incontravamo era una festa reciproca tra due preti sulle stesso versante. Lui ed io eravamo «ecclesialmente» isolati, ma non siamo mai stati «senza Chiesa». Negli ultimi anni, ogni volta che m’incontrava – e capitava abbastanza spesso – mi suggeriva di scrivere i fondamenti biblici della laicità, arrivando perfino a definirmi in una trasmisisone di fabio fazio «don Paolo, il mio teologo di riferimento». Gli chiesi un parere sull’ultimo libro mentre lo scrivevo e ne fu entusiasta, dicendomi: «Questo è quello di cui c’è bisogno. E’ tempo di dire pane al pane».

La scelta di stare dalla parte dei poveri per don Andrea non fu un ripiego, ma un’incarnazione profonda e interiore che ha travolto la sua anima di uomo, di cittadino e di prete. Andrea fu don Gallo da sempre. Invecchiando si è radicalizzato come un pezzo di antiquariato, mantenendo tutto il suo fascino, sempre più fascinoso e la sua forza attrattiva sempre più dolce e forte.

L’accusa che gli veniva dalla curia, sempre miope, mai lungimirante, riguardava i contenuti della sua predicazione che «non erano religiosi ma politici, non cristiani ma comunisti». Anni dopo, quando ormai Don Gallo viaggiava come un treno lungo la sua strada, un altro cardinale e suo antico compagni di studi salesiano, il card. Tarcisio Bertone, ebbe a dire di lui: «Altro che preti contro! Sono sacerdoti delegittimati da tempo per i loro atteggiamenti anti evangelici, anti ecclesiali e contrari alla loro appartenenza alla Chiesa come pastori di anime».

Poveretto! E’ legittimato lui che trama e corrompe dentro e fuori il Vaticano, lui che va a cena con Berlusconi per non farne cadere il governo, lui che trama con i corrotti ed espelle i probi come mons. Carlo Maria Viganò. E’ legittimato Bertone, la cui presenza fisica è segno visibile della non esistenza di Dio. Davanti a don Gallo, Bertone deve fare i gargarismi con l’acqua benedetta bollente.

Ciò che diede fastidio non fu solo la predicazione, ma l’esigenza di questo prete che volle essere quello che diceva e quindi le sue scelte, le sue azioni. Nella chiesa si può tollerare qualche parola di troppo, ma non si può tollerare che i fatti mettano in crisi il sistema; e di fronte ai fatti, la curia di Genova affrontò i problemi al solito modo: d’autorità e spostando i dissidenti. Don Gallo fu destinato di nuovo all’isola di Capraia, ma questa volta con l’intento di seppellirlo vivo perché aveva osato di alzare la testa. Se avesse accettato, avremmo avuto un morto carcerato in più, con la morte mascherata da missione di pace tra i detenuti. La curia, che non si assume mai la responsabilità di una scelta, parlò di normale avvicendamento, ma non fu vero perché fu l’inizio di una conversione radicale che portò don Gallo a passare il suo Rubicone: la scelta definitiva e convinta della parte dove stare.

Erano i tempi in cui il card. Giuseppe Siri, megalomane narcisista patologico, con cui avevo consuetudine periodica, mi diceva che il suo successore avrebbe fatto una vita da pascià perché «io ho pensato a tutto. Genova aveva bisogno di alcune chiese. Le ho costruite io e ora la diocesi camminerà da sola almeno per due o tre secoli». A me seminarista imberbe che gli chiedeva di studiare Scrittura, rispose che lo studio non era un diritto, ma una sua concessione e lui non aveva bisogno di preti studiosi, ma preti «con le teste svitabili: non devono pensare perché ci sono io; i preti devono stare solo dove li metto io e devono fare quello che dico io».

Genova ha avuto come vescovo per oltre 40 anni un pazzo e la leggenda metropolitana lo ha voluto fare passare come un punto di riferimento per la città, mentre era solo un pallone gonfiato, senza idee, senza teologia, senza prospettiva del futuro, senza capacità alcuna di leggere i segni dei tempi: credeva nel Dio che credeva in Siri. Ancora oggi si cerca di accreditarlo per quello che non potrà mai essere: un vescovo teologo, pilastro della Chiesa.

La prova del fallimento della chiesa siriana è dimostrata dal fatto che a sostituire don Gallo al Carmine mandò don Mauro Piacenza, oggi cardinalesso di Santo romana Chiesa, uomo retrivo che vorrebbe portare la Chiesa non solo al concilio di Trento, ma alla «chiesa presocratica», se ciò fosse possibile. Egli è ossessionato dalla Madonna che cucina in tutte le salse e che antepone anche alla cristologia. Benedetto XVI lo ha fatto prefetto, cioè responsabile della congregazione del clero, quello che dovrebbe formare tutti i preti del mondo. Mai sciagura colse la Chiesa più gravemente in due mila anni di storia. Tradizionalista, vestito sempre con colletti bianchi alla romana di almeno cm 8, avversario del concilio, ma amico di tutti gli avversari del concilio, sostituì don Gallo come un pompiere potrebbe sostituire un incendiario. Ormai poteva spegnere quello che voleva perché don Gallo non solo se ne andò dal Carmine, ma si portò dietro con sé anche il fuoco, la legna e l’accendino.

Siri non allontanò solo don Gallo, ma tutti coloro che potevano offuscare la sua nullità: mons. Giacomo Lercaro (1947), mons. Emilio Guano (1962), mons. Franco Costa (1963), che fece promuovere pur di toglierseli dai piedi. Lercaro e Guano erano biblisti e Costa era teologo. Essi furono protagonisti del concilio e le loro idee vi trovarono collocazione adeguata, mentre Siri fu avversario del concilio e le sue idee furono dal concilio stesso sconfitte. Eppure ancora oggi, la chiesa genovese e parte della Chiesa italiana predilige Siri e il suo vero successore, cardinale Angelo Bagnasco, agli altri. Anche don Gallo fu figlio del concilio perché fu ordinato prete, come ho accennato, il 1 luglio del 1959, cioè cinque mesi dopo l’annuncio del concilio dato da Giovanni XXIII (25 gennaio 1959). Crebbe teologicamente con l’evento più importante del secolo XX dentro la Chiesa e anche fuori perché il concilio segnò anche la storia mondiale. Esso fu l’evento dell’apertura al mondo, la fine della Chiesa-cittadella in difesa, la fine della Chiesa contro il mondo e l’inizio di una nuova Pentecoste, di un’era dirompente che purtroppo a motivo di uomini come Siri, Lefebvre, Carli, Ottaviani, ecc. dovette abortire lungo il percorso, mentre uomini e preti come Mazzolari, Milani, Gallo, Dho, ecc. furono emarginati e guardati con sospetto.

Dopo l’allontanamento dal Carmine, don Gallo restò disoccupato per qualche mese, in attesa di trovare una sistemazione. Racconta Franco Cifatte, testimone diretto dell’epoca:

«Me lo ricordo benissimo: era il 6 dicembre del 1970. Andrea e io eravamo a tavola a casa dei miei genitori, si parlava della situazione di Andrea, del suo futuro, finché a mio padre, medico, viene un’idea. Dice: “Avete mai provato a andare da don Rebora? Provate a nome mio”. Mi ricordo ancora il telefono di casa, era azzurro, Andrea chiama, don Rebora risponde “per me puoi venire a dir messa l’8 dicembre” e poi ancora, in genovese, “Vegnì, Vegnì – Venite, venite». Ecco, è incominciato tutto così. E l’8 dicembre per noi è rimasto un anniversario che abbiamo sempre festeggiato. L’inizio della Comunità». (Wada Valli, «Dal Carmine a San Benedetto. Il lungo cammino di don Gallo», Intervista a Franco Cifatte, in la Repubblica/Il Lavoro 8 giugno 2013).

Insieme a don Federico Rebora, c’era ad accoglierlo anche il cappellano di allora, don Pierino Cattaneo, oggi parroco a San Francesco di Pegli, presente sia alla veglia della sera che ai funerali.

La parrocchia di San Benedetto al Porto diventò un porto di mare e di aggregazione di giovani e adulti, di ogni parte della città. Gli anni ’80-‘90 furono gli anni della devastazione delle droghe e dell’aids che il cardinale Giuseppe Siri definì «castigo di Dio» in una intervista al mensile ciellino «Il Sabato»:

«[L’Aids] è un castigo di Dio, evidentemente, perché prima non c’era. […] È una malattia terribile che colpisce il peccato direttamente. Purtroppo la malattia si espande da costoro agli altri, innocenti, e così li hanno sulla coscienza. […] Il mondo ha progredito soprattutto nei sette peccati capitali. Dio per risposta ci ha mandato l’Aids».[2]

Siri accreditava così l’immagine di un Dio vendicativo che colpisce anche gli innocenti pur di dare sfogo alla sua vedetta senza limiti; il «dio» opposto in cui credeva e che annunciava don Andrea Gallo, cercato da poveri, emarginati, esclusi, derelitti, abbandonati, che in lui chiedono un àncora di salvezza e un ascolto. Ebbero e l’una e l’altro.

Don Gallo fu un partigiano, uomo dei poveri e con i poveri, era esattamente il contrario di fascista per cui la parrocchia divenne anche punto di raccolta della nuova sinistra di cristiani e non. Il suo ideale e urlo di battaglia furono uno solo:

«La cosa più importante che tutti noi dobbiamo sempre fare nostra è che si continui ad agire perché i poveri contino, abbiano la parola: i poveri, cioè la gente che non conta mai, quella che si può bistrattare e non ascoltare mai. Ecco, per questo dobbiamo continuare a lavorare!».

Così visse, così morì don Andrea Gallo, sempre e solo, voce dei senza voce, profeta disarmato, prete appassionato della Chiesa, credente innamorato di Dio e uomo amante a perdere, senza distinzione, di chiunque avesse una ferita, una solitudine, un disagio. Fu un prete strabico, come Mosè: sempre con un occhio a Dio e uno ai poveri. Non abbandonò mai nessuno dei due perché i poveri e Dio stanno insieme e se se ne toglie uno, anche l’altro cade. Chi crede in Dio non si preoccupa di Dio che è autosufficiente, ma si preoccupa dei poveri e Dio lo trova alla fine del percorso come un esito scontato, matematico.

Penso che a nessuno verrà in mente la proposta oscena di farlo santo, oggi così di moda pere evirare i profeti che sono stati emarginati in vita e recuperati dopo morte, quando cioè non possono più dare fastidio. Don Gallo, come mons. Oscar Romero, martire delle Americhe, da sempre è stato ed è il Santo delle «Beatitudini» realizzate nei diseredati, poveri, puttane, travestiti, tossici e senza nome e dignità, cioè quella nobilissima umanità che è prima nel cuore di Cristo perché ci precede già nel Regno di Dio.

Ora resta il destino della Comunità di cui don Gallo era prolungamento e testimonianza. Ci auguriamo che il vescovo abbia un rigurgito d’intelligenza e di Spirito Santo e nomini uno che voglia continuare l’opera del Gallo senza condizioni. Uno che si metta solo a servizio, umile e attento a tutto ciò che già c’è. Me lo auguro e per questo prego. Forse non sarebbe male se la Comunità prendesse l’iniziativa e facesse delle proposte invece di attendere risposte.

Paolo Farinella prete

Bella ciao

Una mattina mi son svegliato

O bella ciao, O bella ciao,

Bella ciao, ciao, ciao.

Una mattina mi son svegliato

E ho trovato l’invasor

O partigiano portami via

O bella ciao, O bella ciao,

Bella ciao, ciao, ciao.

O partigiano portami via

Che mi sento di morir.

E se io muoio da partigiano,

O bella ciao, O bella ciao,

Bella ciao, ciao, ciao.

E se io muoio da partigiano

Tu mi devi seppellir

E seppellire lassù in montagna

O bella ciao, O bella ciao,

Bella ciao, ciao, ciao.

E seppellire lassù in montagna

Sotto l'ombra di un bel fior.

Così le genti che passeranno

O bella ciao, O bella ciao,

Bella ciao, ciao, ciao

Così le genti che passeranno

Mi diranno «che bel fior».

E questo è il fiore del partigiano

O bella ciao, O bella ciao,

Bella ciao, ciao, ciao.

E questo è il fiore del partigiano

Morto per la libertà.

Testo trovato su :www.testitradotti.it

[1] All’epoca l’isola era sotto la giurisdizione ecclesiastica di Genova; dal 1977 invece è passata a quella della diocesi di Livorno.

[2] «Il Sabato» 4-10 aprile 1987, p 15, citata parzialmente in R. Spiazzi, a cura di, Il Cardinale Giuseppe Siri, Arcivescovo di Genova dal 1946 al 1987. La vita – L’insegnamento, L’eredità spirituale – le Memorie, Edizioni Studio Domenicano, Roma 1990, 227.




Martedì 18 Giugno,2013 Ore: 13:06
 
 
Commenti

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Autore Città Giorno Ora
Rosanna Zitelli Caserta 24/6/2013 23.06
Titolo:
Un articolo questo di don Paolo che ho molto apprezzato, a tratti commovente.
Con piacere ho potuto conoscere qualcosa in più della vita di don Gallo ed amarlo ancora di più.
Grazie.
Grazie.
Rosanna

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