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www.ildialogo.org «Nessuno viva col suo fuoco spento». Un ricordo di p. Turoldo a 21 anni dalla sua scomparsa  ,da Adista Documenti n. 3 del 26/01/2013

«Nessuno viva col suo fuoco spento». Un ricordo di p. Turoldo a 21 anni dalla sua scomparsa  

da Adista Documenti n. 3 del 26/01/2013

DOC-2498. TORINO-ADISTA. La «speranza» è la parola-chiave con cui la storica della Chiesa Mariangela Maraviglia legge la vita di p. David Maria Turoldo a 21 anni dalla sua morte, avvenuta il 6 febbraio del 1992. Non solo la speranza in un aldilà ultraterreno, ma una speranza per niente spiritualistica – pienamente cristiana e profondamente evangelica anch’essa – da nutrire e da cui alimentarsi già nell’aldiqua, nella storia. La speranza in un domani di libertà e di giustizia che coltivavano i partigiani durante la Resistenza antifascista – a cui Turoldo prese parte attivamente assistendo le famiglie dei perseguitati politici e dando vita al giornale clandestino L'uomo insieme a p. Camillo De Piaz – ma che travalica la lotta partigiana «per diventare cifra di una vita» e «istanza di ogni giustizia e perfino di ogni bontà». La speranza, nell’immediato dopoguerra, «di un cristianesimo lontano dai trionfalismi di stampo clericale e da sogni di “onnipotenza” cattolica che in quel tempo non mancavano» (c’era papa Pio XII regnante). La speranza, alimentata da Giovanni XXIII e dal Concilio, di una Chiesa rinnovata, che sembrava «avesse spalancato porte e finestre e ogni credente fosse finalmente restituito alla sua libertà e alla sua dignità». Infine la speranza in un tempo apparentemente senza speranza, ancora coltivata negli anni ’70 e ’80, con l’impegno di Turoldo contro le dittature – soprattutto in America Latina – e contro le stragi e il terrorismo degli “anni di piombo”, per l’ambiente e il disarmo. Insomma lo «scandalo della speranza», una «speranza scandalosa, legata ad un mondo e a un tempo tragico, che sembrava non offrirne alcuna».

Di seguito la relazione di Mariangela Maraviglia, tenuta a Torino il 14 settembre 2012 in occasione dell’iniziativa “A che punto è la notte? Sulle orme di Ernesto Balducci e David Maria Turoldo”. (luca kocci)

UNA VITA COME ITINERARIO DI SPERANZA


di Mariangela Maraviglia

 

Il tema della speranza segna e individua l’intera avventura umana di David Maria Turoldo.

Se è vero, come ricorda lo storico Michele Ranchetti, che padre David diceva di se stesso e dell’amico padre Ernesto Balducci: «Siamo gli ultimi preti» , a indicare una stagione trascorsa e conclusa della Chiesa italiana, è altrettanto vero che resta di loro una memoria viva in molti. (…).

Certamente resta una memoria viva di Turoldo, attestata non solo dalle molteplici conferenze, letture di poesie, canti dei salmi che risuonano in questo ventennale ma confermata anche dagli innumerevoli scritti – testimonianze, tesi, articoli – pubblicati sulla sua persona, senza dimenticare le molteplici riedizioni di tante sue opere. (…).

Io stessa posso testimoniare dagli incontri e dai riscontri vissuti nella mia personale esperienza della persistenza di una memoria vigile, calda, ancora commossa.

La domanda che si pose a pochi giorni dalla morte di Turoldo e che si pone ancora oggi è il senso di tale perdurante partecipazione; per dirla con Balducci, il senso di «questa lievitazione che avvertiamo in tutta Italia intorno al suo nome»; una domanda, aggiunge padre Camillo De Piaz che più di tutti fu vicino a padre David, che dovrebbe porsi «chiunque, magari più in alto di noi, s’interroghi sulle sorti dell’annuncio cristiano nel nostro Paese e nella nostra epoca, sulla natura delle domande che salgono dal fondo della società».

DUE PROFETI DI SPERANZA

Credo si debba cogliere un parallelo tra tale partecipazione e la recente partecipazione di una folla composta e riconoscente al funerale di chi riaprì le porte della chiesa milanese a padre David; mi riferisco a Carlo Maria Martini, che, nel conferirgli nel 1991 il premio Lazzati, gli chiese perdono a nome della Chiesa e lo salutò con parole di cui non può essere disconosciuta la portata: il premio veniva assegnato «come segno della nostra riconoscenza e del nostro desiderio di essere più attenti alle voci profetiche nella Chiesa, di valutarle meglio e, anche se dobbiamo dissentire, di farlo sempre con rispetto e amore per l’onestà con cui ogni profeta nella Chiesa parla quando è veramente mosso dallo Spirito e paga di persona le cose che dice e sente». (…).

Ancora in relazione al grande affetto perdurante nei confronti di Turoldo, credo che possiamo rintracciarne un elemento di motivazione nella straordinaria vocazione e capacità comunicativa: egli si sentiva chiamato a comunicare e sapeva farlo magistralmente con la parola orale, in special modo con la predicazione, ma anche con la scrittura - massimamente la poesia – e poi l’articolo di giornale e in misura minore il teatro e la narrativa, generi con cui ha voluto comunque cimentarsi; senza dimenticare la sua abilità nell’uso dei media, prima la radio e poi la televisione. (…).

Credo che questa formidabile dote comunicativa sia in qualche modo connessa con un’altra peculiarità su cui concordano molti che hanno amato Turoldo: l’aver egli conservato tratti di infanzia. «Il fanciullo che avevo conosciuto non era mai morto in lui», afferma ancora De Piaz ; e di rincalzo Balducci: «Egli era un grande fanciullo. Le sue semplicità, le sue straordinarie ingenuità, che a volte suscitavano il sorriso degli amici più colti, e quella immediatezza con cui entrava in mezzo alle complicazioni altrui, semplificandole come fa un bambino, ecco, mi hanno dato il segno di una […] sua qualità evangelica primordiale, non conquistata». (…).

«È la Parola il mio personaggio più vero. Naturalmente una Parola che si espande su tutti gli spazi, attraverso tutti i sensi […] fino a insanguinarsi […]», ha scritto Turoldo in quella sorta di “automitobiografia” – come mi sembra opportuno chiamarla – che è La mia vita per gli amici. Una parola, la sua, che si insanguina perché incarnata nei drammi dell’esistenza individuale e collettiva, perché è «un continuo intervento nella storia», perché è «l’esistenza che si fa canto» . Come ha rilevato Andrea Zanzotto nella nota introduttiva a O sensi miei…, che raccoglie la poesia di Turoldo fino al 1988, egli sente l’«irrefrenabile impulso di trascinare in giudizio la storia (e, in qualche punto, la divinità stessa)». (…).

Turoldo in questo senso è propriamente «profeta»: profeta nel significato tecnico-etimologico del verbo greco «pro-femì», colui che parla per e in luogo di un altro; secondo la Bibbia, colui che annuncia ciò che lo Spirito di Dio suggerisce. Padre David ha parlato per molti “altri”, e ha pronunciato le parole che molti altri avvertivano suggerite dallo Spirito, che molti altri sentivano intimamente buone, giuste, vere, le più buone, le più giuste, le più vere in determinati frangenti storici o in relazione a drammatiche emergenze esistenziali.

Tra queste, la parola “speranza” è una delle più ricorrenti e delle più amate perché costituente il tessuto connettivo del messaggio turoldiano, l’elemento vitale che lo plasma e lo sostiene. Ecco allora il frequente ricorrere di titoli come Lo scandalo della speranza, Salmodia della speranza, Il coraggio di sperare, come si chiamerà uno dei primi libri a lui dedicati: una recensione delle presenze di questa parola nella produzione di padre David darebbe un numero molto alto di occorrenze. La più bella di queste espressioni è per me “lo scandalo della speranza”. Titolo di una sua ampia raccolta di poesie scritte dal 1935 al 1978, ma - elemento significativo - ricalcato su quello di un’opera di Carlo Bo a cui l’intellettuale ligure era specialmente legato e in cui rifletteva criticamente «sui problemi che travagliavano l’uomo, il cristiano e l’intellettuale usciti dall’esperienza della guerra fascista e della resistenza». Era dunque una speranza «scandalosa», legata a un mondo e a un tempo tragico, che sembrava non offrirne alcuna; una speranza che si decideva di riattualizzare in un tempo avvertito – siamo alla fine degli anni Settanta - «non […] molto diverso» di fronte alle guerre, alle oppressioni, alle violenze presenti: «Viviamo in uno stato di lacerazione totale, in un perpetuo dopoguerra. Il mondo è il teatro della disperazione e la speranza impresa da santi o da illusi». La speranza era dunque connessa (…) con la categoria di “Resistenza”, una intima connessione che attraverserà la sua intera avventura esistenziale.

RESISTENZA CATEGORIA METAFISICA

Resistenza: idea centrale nella vita e nel messaggio di padre David, su cui molto testimonierà e parlerà con la persuasione di un impegno indefettibile, cruciale per ogni vita compiutamente umana. Dirà più volte che la resistenza non è solo un capitolo di storia recente: «[…] mi sembrava e mi sembra che essa non dovesse essere solo un capitolo di storia, ma una categoria dello spirito, soprattutto dello spirito cristiano». «Spartiacque» della sua vita religiosa e civile, la resistenza gli appare «la scelta dell’umano contro il disumano», il «presupposto ad ogni ideologia ed etica personale». Se il fascismo costituiva l’incarnazione del male, la Resistenza incarnava il volto del bene e della possibile rinascita morale della società e di ognuno. Afferma: «Soprattutto per i cristiani la Resistenza doveva essere un fatto totale, segnare la conversione alla libertà dell’uomo come valore assoluto. […] Non era neppure o soltanto la cacciata dell’invasore tedesco, non era solo l’abbattimento della dittatura fascista, ma era la ricerca, il bisogno e l’attesa di un profondo rinnovamento che io oso dire spirituale, era cioè la speranza di essere uomini buoni e diversi».

La Resistenza quindi travalica la pur cruciale partecipazione alla lotta partigiana per diventare cifra di una vita, per diventare istanza di ogni giustizia e perfino di ogni bontà.

In questa chiave metafisica e trans-storica, oserei dire che la Resistenza di Turoldo - nato nel 1916 - inizia fin dall’infanzia, nel Friuli poverissimo degli anni Venti del Novecento. È il Friuli della povertà diffusa e della vasta emigrazione, in cui egli riceve le lezioni di coraggiosa integrità morale del padre, di umiltà sofferente della madre, di perenne sobrietà che più tardi contrapporrà agli allettamenti e alle alienazioni della società consumistica. Ma il Friuli della sua infanzia sarà anche la precoce scoperta di una ingiustizia che risveglia in lui bambino un sentimento perenne di necessario risarcimento per sé in quanto povero e per tutti i poveri del mondo. Ricordo le pagine del racconto autobiografico Io non ero un fanciullo in cui il piccolo protagonista Giuseppe, nome di battesimo di padre David, affamato e deriso, apostrofato con il nome di «spaventapasseri», distrugge l’oggetto della sua identificazione, il suo “incubo”, riconquistando la sua dignità di uomo, negata da tutto un paese: uno scatto di «rivolta», un «bisogno di vincere sull’oppressione» che si incarna in una promessa a sé e in qualche modo al mondo: «Io andrò a sfamare tutti i ragazzi poveri!». (…).

Ma la Resistenza nel senso storicamente proprio del termine sarà nella Milano degli anni del fascismo e della guerra. È quello il tempo della speranza della nascita del mondo e dell’“uomo nuovo”: L’Uomo, come si chiamerà il foglio prima clandestino (1943-1945) che poi continuò a uscire fino al settembre 1946, organo del “movimento spirituale per l’unità d’Italia”, espressione sinteticamente indicativa dell’istanza etico-politica di costruzione di Stato a servizio della persona e della necessità di superare i rovinosi nazionalismi che fino ad allora avevano dominato la scena politica. (…).

Su L’Uomo il giovane padre David, nel 1945 ha ventinove anni, pubblicherà primi contributi di carattere poetico e riflessioni religiose ed esistenziali, i temi della sua tesi, che ne identificano la fisionomia intellettuale e umana. È in quelle pagine che la Resistenza trova la sua radice in ogni rifiuto del male, quel male che interroga eternamente il cristianesimo con la medesima domanda che attraversa anche l’intera produzione turoldiana. È in quelle pagine che Turoldo indaga quel male nella sua prima origine, accogliendo il patrimonio della cultura cristiana di Agostino, Pascal, Kierkegaard, per citare gli autori di cui egli più si dichiara debitore.

Non sono scritti che si distinguono per contenuti di rottura o di particolare novità. (…). Piuttosto che la novità, colpisce il lettore l’intensità con cui è vissuto il dramma di una esistenza travagliata tra luce e tenebra; la percezione di una singolare radicalità con cui l’autore ripropone la questione del male, non disgiunta dal problema di Dio e del dolore dell’essere umano nella storia. (…).

DAI “GIORNI DELL’ONNIPOTENZA” AL CONCILIO

Certamente la problematica “sociale”, la declinazione sociale del problema del male, risulta più appariscente, si impone per il suo stesso carattere “pubblico”, tanto più in un tempo attraversato dalle dolorose congiunture di un Paese affamato e povero.

Negli anni successivi alla fine della seconda guerra mondiale la domanda pubblica è quella del ruolo del cristianesimo nella società che va ricostruendosi: la scommessa che il cristianesimo possa informare di sé il mondo animerà i diversi gruppi, le diverse realtà presenti nella Chiesa italiana del dopoguerra, speranza ampiamente diffusa, con diverse calibrature e interpretazioni, che non è questa la sede per approfondire, ma che emergono nella loro contiguità e anche nelle loro distanze dagli scavi della storiografia più recente.

La speranza che Turoldo condividerà sarà quella di un cristianesimo lontano dai trionfalismi di stampo clericale e da sogni di “onnipotenza” cattolica che in quel tempo non mancavano (…).

Turoldo, per esempio, non crede che il rinnovamento della società possa essere incarnato dalla Democrazia Cristiana. Fin dalla grande vittoria del 18 aprile, il giovane servo di Maria si chiede sulla rivista dossettiana «Cronache sociali»: «Ha vinto la libertà dal sopruso ovvero quella del sopruso? Ha vinto la libertà dal possedere ovvero quella del possedere?». E aggiunge: «Dalle urne italiane non si sa ancora di chi sarà la vittoria di domani. Ci sono delle forze latenti che devono assolutamente emergere: quella della umanizzazione mondiale, dell’unità del genere umano, ecc. Si tratterà di vedere da chi sarà guidata la storia e come e per quali gradi».

Quella concretizzazione dell’ideale evangelico, quella umanizzazione che Turoldo non vede incarnata nel partito democristiano, li vedrà realizzati in Nomadelfia, la città della fratellanza fondata da don Zeno nell’ex campo di concentramento di Fossoli, vicino a Carpi, in Emilia, per assicurare una famiglia ai numerosi orfani abbandonati nell’Italia poverissima del dopoguerra. «Nomadelfia è un esempio di come si può prendere il Vangelo alla lettera, ed è smentita contro quelli che pensano che la parola di Gesù sia un’utopia», scriverà il 21 ottobre 1949 a Schuster. E molti anni dopo ne parlerà come di una iniziativa che «non si limitava a raccogliere le briciole che da sempre cadono dalla tavola del ricco epulone […] ma pretendeva che si dividesse tutto il pane».

Padre David poté offrire il suo decisivo sostegno alla creazione di don Zeno per il grande seguito della sua predicazione in duomo a Milano alla messa domenicale di mezzogiorno, impegno assunto dal 1943 su mandato dell’arcivescovo Schuster, che gli offriva la possibilità di fustigare e affascinare la ricca borghesia milanese animata più da una spinta filantropica che da istanze di giustizia, comunque scossa dalla carica e dall’entusiasmo del giovane servo. La lettura della documentazione edita e inedita restituisce l’attività instancabile di padre David in favore di Nomadelfia: un andare predicare scrivere, espressione di una incontenibile istanza interiore al rinnovamento dell’essere umano, della società, della Chiesa.

Allontanato forzatamente da Milano, proprio a causa di Nomadelfia, nel 1953, anche nell’“esilio” tedesco - sarà trasferito al convento di Innsbruck ma vivrà più a lungo nel monastero di Schaftlarn in Baviera - o nell’approdo fiorentino nel corso degli anni Cinquanta (1955 - 1961) sarà tutto uno stringere rapporti, un aprire cantieri, un immaginare e condurre in porto iniziative con le figure più vive dell’Italia cattolica. Oltre al nome di Balducci, basterà ricordare quelli di Giorgio La Pira che - secondo le sue parole - lo aveva invitato a Firenze per «fare la con-fusione evangelica»; di don Lorenzo Milani, di cui egli tenterà senza fortuna di editare Esperienze Pastorali con la neonata editrice Corsia dei Servi, nata intorno al convento di San Carlo; di Giovanni Vannucci, con cui collaborerà strettamente condividendo prospettive ecclesiali e spirituali che li condurranno più avanti a dare avvio a due diverse, parallele esperienze comunitarie, Turoldo a Sotto il Monte, Vannucci a Panzano in Chianti.

Il pontificato di Giovanni XXIII e l’indizione del Concilio Vaticano II saranno per lui eventi «miracolosi». Ripeterà negli ultimi anni della sua vita: «È stato come se avessero ceduto i bastioni, se fossero cadute le mura di Gerico; e la Chiesa finalmente avesse spalancato porte e finestre; e ogni credente fosse finalmente restituito alla sua libertà e alla sua dignità» e la «Chiesa restituita finalmente a ciò che deve essere per sua natura: “mistero di salvezza”. Anzi Chiesa con le altre Chiese, tutte a cercare insieme il Cristo! E Cristo, pienezza di umanità, archetipo di tutti gli uomini».

È davvero per Turoldo l’aprirsi di una nuova speranza, è la stagione della «libertà della Chiesa» dall’ideologia religiosa, dall’«atteggiamento dottrinario e paternalistico di chi possiede pronta, da sé e in precedenza, qualsiasi risposta a qualsiasi quesito» , come scrive sulla rivista da lui fondata Servitium; è la stagione del riconoscimento dell’autonomia e dignità delle realtà terrene, autonomia che garantisce la libertà dell’essere umano ma insieme la «trascendenza delle parole e della grazia di Dio». La Chiesa, non più identificata come societas perfecta, è infine interpretata come «mistero operante in tutta la storia», in cammino nella storia e in compagnia dell’umanità, un cammino in eterna conversione, in continuo “riplasmarsi” alla luce della Parola di Dio.

Tempi di grandi condivise speranze. Turoldo, dopo alcuni anni di famiglia nel convento dei Servi di Udine, si è trasferito dal 1964 a Fontanella di Sotto il Monte, nella terra di papa Giovanni, per poter cercare, elaborare e sperimentare, in libertà e con spirito comunitario, volti autentici di chiesa, dare volto e corpo alle sue speranze.

«SALIVAMO AI SANTI MONTI…»

Ha scritto Raniero La Valle, uno dei più fervidi protagonisti di quella generazione: «Noi salivamo ai santi monti per capire e resistere». Salivano a Camaldoli, a Monteveglio, a Badia Fiesolana, a Bose e, appunto, a Fontanella, dove «si cantavano i salmi in una lingua non morta e non volgare, canti di liberazione e di imminente speranza». Molti, si potrebbe aggiungere, salivano anche a St. Jacques d’Ayas, in Val d’Aosta, alla ricerca, insieme a don Michele Do, di un’immagine creativa del cristianesimo. A Sotto il Monte, ricorda ancora La Valle, nacquero riviste - da Lettere ‘69 a Bozze ‘94 - e convegni in cui la liberazione si declinava tra teologia e politica, incrociando la lettura della Parola di Dio con il cammino nella storia e della storia, con i “segni dei tempi”, espressione che dal Concilio in poi diventa cifra di quel tempo della Chiesa.

In quegli incontri, nelle pagine di quelle riviste, negli scritti di Turoldo di quegli anni riecheggia tutto il fervore di una stagione desiderosa di recepire e discutere la lezione della grande teologia cattolica e protestante del Novecento: da Romano Guardini a Teilhard de Chardin, da Marie-Dominique Chenu a Yves Congar, da Karl Barth a Dietrich Bonhoeffer, da Nikolaj Berdjaev e Pavel Evdokimov. Padre David è un lettore forse rapsodico – così almeno la memoria di chi lo ha conosciuto e gli indizi ricavati dai suoi scritti - ma coglie con enorme fiuto temi, contenuti, senso: sa scegliere gli autori più promettenti e confacenti con il suo discorso, ha tra l’altro già letto Simone Weil, leggerà più avanti Etty Hillesum.

La speranza in quegli anni prende spesso il nome di Esodo, metafora e indicazione perenne di liberazione. Turoldo vi torna più volte, individuandovi il senso e la «scoperta del mistero della storia», considerandolo «inizio della vera storia del mondo, cioè di quanto vi è di perennemente nascosto nelle nostre rivoluzioni».

Utilizza tra l’altro le parole particolarmente efficaci di André Neher, grande esegeta della Bibbia, negli anni Settanta e Ottanta massimamente letto: «In quel fatto storico veniva operato il rovesciamento integrale di tutti i valori; questo stesso avvenimento trascina nella sua corrente di liberazione tutti coloro che lo fanno proprio. Lo schiavo, lo straniero, l’oppresso, il proletario in quel giorno sono stati restituiti alla loro condizione di uomini. Nelle spesse mura della violenza e dell’oppressione è stata aperta una breccia che, attraverso tutta la storia, costituisce la sfida eterna a ogni sorta di violenza del potere sul povero. […] Dio entra nel cantiere della storia. L’incontro con Dio si fonda sull’avvenimento pasquale della rottura brutalmente fisica delle catene degli schiavi».

La lettura della Bibbia diventa, non senza qualche semplificazione e ingenuità che non mancarono a quella generazione, appello alla libertà e all’impegno dell’essere umano; il Regno di Dio annunciato da Gesù «si opera nella storia, nella misura in cui noi facciamo la storia secondo Dio»: da qui l’ineludibilità di un coinvolgimento nella storia che è anche misura/riprova di una conversione avvenuta.

A partire da questo orizzonte biblico ed evangelico, Turoldo si farà paladino di tutte le cause, si immergerà in tutte le tragedie del tempo, esponendosi nelle questioni più sensibili politicamente ed eticamente. Interverrà in favore dei movimenti di liberazione nell’America Latina segnata dalle dittature; prenderà posizione contro l’eliminazione delle leggi sul divorzio 1974 e sull’aborto 1981; in occasione del rapimento di Moro sposerà la scomoda linea della trattativa contro la linea della fermezza dello Stato fino ad avanzare l’ipotesi dello scambio Moro-vescovi; condividerà le speranze suscitate dalla Perestrojka di Gorbaciov; sosterrà la causa della pace come un assoluto («o pace o barbarie assoluta») di fronte alla raffinatezza tecnica degli strumenti di distruzione. Ma pace, per quella generazione, coincide con liberazione, significa fine di «ogni sorta di dominio e di guerra», per dirla con un finissimo, ascoltato protagonista di quegli anni, prematuramente scomparso, Claudio Napoleoni.

Come elemento indissolubile a una cultura di pace emerge nel corso degli anni Ottanta l’attenzione al problema dell’ambiente. Turoldo ha già denunciato degrado e distruzione causato dal depredamento delle risorse ambientali – penso a un suo racconto di fine anni Sessanta divenuto poi testo teatrale, Sul monte la morte – ma negli anni Cinquanta-Settanta l’interesse in ambito cristiano resta essenzialmente concentrato sulla storia. Sarà soprattutto dagli Ottanta che in padre David si sviluppa questa specifica attenzione, in coerenza con un dibattito in crescita nella società civile e, sia pure in ritardo, nelle Chiese. «Impossibile che ci sia la pace sulla terra fin quando non è risolto il problema del rapporto dell’uomo con le cose. Se non sei in pace con la terra, non sarai in pace neanche con te stesso», scrive nel 1988 in Lettere dalla casa di Emmaus. Nello stesso testo ricorderà che l’essere umano non è il proprietario della creazione: «Quando si legge il comando di “soggiogare la terra” questo va interpretato nel senso che tu la coltivi e la custodisca. Solo così potrà aver fine questo micidiale dispotismo di un uomo che si crede in potere di manomettere ogni cosa. Civiltà nucleare, ingegneria genetica, mani scatenate sulla vita, secondo il principio che sostiene: “tutto ciò che è possibile è anche lecito”. […] forse non facciamo che ingigantire la nostra morte». Conclude: «Il cantico di frate sole […] è la vera interpretazione di quell’antropologia biblica e del messaggio cristiano [a cui si è già riferito con rimando a Gen, 2]; un cantico che dovrebbe essere la fonte ispiratrice di ogni movimento ecologico».

Ancora una volta dunque – attraverso la lezione di Francesco d’Assisi – Turoldo rimanda alla centralità della Parola biblica, da cui «dovrebbe erompere la forza liberatrice da tutte le follie che c’incatenano, da ogni decadenza di umanità alla deriva», «Parola di Dio e salmi quale fonte inesauribile di luce che illumini ogni cammino di liberazione». In questa chiave possiamo intendere l’indefesso lavoro sui salmi che non avrà praticamente mai termine nella vita di padre David; egli editerà molteplici versioni dal 1973 al 1987, anche in collaborazione con Ravasi, unendo al lavoro di traduzione la produzione di inni e cantici nuovi. L’intento dichiarato è di favorire il canto di tutti, canto partecipe e avvertito di un popolo in cammino verso il Regno della liberazione e della salvezza, che proprio attraverso quel canto conferma la sua tensione a resistere e a lottare, che proprio con quel canto riconsegna tutto il cosmo a Dio.

«BEATO COLUI CHE SA RESISTERE»

Gli ultimi anni sono ridefiniti dall’insorgere della malattia, che rende le inesauste domande su Dio e sul male confronto più stringente e intimo, che favorisce un riconcentrarsi e raffinarsi della produzione poetica, di nuovo benedetta dallo «stupore» e dalla felicità degli inizi. Sono gli anni di Canti ultimi, di Mie notti con Qoelet, della fede del «venerdì santo», quando «a stento il Nulla/ dà forma/ alla tua assenza», dell’estrema lotta con Dio che emerge anche dalle ultimissime prose da lui lasciate, in cui si confessa «un maniaco di Dio». Scrive: «La vera domanda che sta all'inizio di ogni discorso è Dio stesso. Dio non è una risposta, è la Domanda; e non tanto se Dio c'è, quanto chi sia, come pensarlo, quali rapporti intessere e sapere delle sue responsabilità circa il male», «domanda che soggiace perfino al fondo di ogni ateismo, di ogni nichilismo […]».

A questa capitale domanda Turoldo offre una capitale risposta che coincide con una rinnovata confessione di fede: «Cristo sei Tu il suo volto/ cercato in tutte le fedi», si legge nei Canti Ultimi; nelle pagine estreme le sue parole ripetono: «Ma una risposta alla Domanda c’è, ed è Gesù Cristo. Io credo che sia l’unica risposta».

Ma anche in quest’ultimo tempo, così concentrato sui temi e la speranza ultima, non cessa il suo sguardo amoroso sul mondo, la sua speranza penultima: ne fa memoria Balducci, che lo incontra poco prima della morte nella “storica” assemblea organizzata da Beati i costruttori di pace a Verona nel settembre 1991. In quella occasione, ha scritto padre Ernesto, «ho sentito come egli sapesse appassionarsi ai problemi del mondo e della società italiana, come se il futuro fosse dalla sua parte. Ed egli sapeva che non aveva futuro. Ma si era liberato di sé e respirava col mondo».

È dunque l’intera vicenda di p. David, il suo vivere e il suo morire che può essere guardato come un invito a sperare, a tornare a sperare: per il suo saper sperare anche in momenti apparentemente disperati, per il suo condividere speranze che potevano apparire insensate per la sua esperienza.

Oggi la speranza sembra più difficile e molte delle prospettive del tempo da lui vissuto sono decadute o vanno radicalmente reinterpretate: l’unità della famiglia umana si è convertita/pervertita in globalizzazione; l’apparente distensione tra Oriente e Occidente ha proliferato una molteplicità di focolai di guerra; la problematica ecologica è esponenzialmente cresciuta e l’equilibrio del pianeta è forse definitivamente compromesso; la fine delle ideologie ha prodotto il dominio mondiale del neoliberismo e l’incrudirsi delle espressioni religiose sotto forma di fondamentalismi; la Cina è ben lontana dal rispondere alle attese e alla fiducia che non poche volte trasparivano dalle parole di Turoldo. Quello che oggi viviamo appare spesso un tempo cattivo, Balducci ne avvertiva lucidamente il progredire quando, a pochi giorni dalla morte dell’amico scriveva: «la diversità ci sta crescendo sotto i piedi […] e io vedo che se ne va tutta una storia che non ha futuro».

Pur tuttavia io credo che, non diversamente da quella generazione, la speranza risieda nello spazio di resistenza che ognuno può opporre e praticare, sia nella propria esperienza individuale, sia – collettivamente – in una intelligente e attenta lettura del tempo che ci è dato. Qui Turoldo, ma credo anche Balducci, aiuta per chi lo vorrà ancora ascoltare, più che come indicatore di risposte, come segnalatore di prospettive, come mentore di un cammino di umanizzazione, come allenatore/trascinatore/suscitatore di lotta per una vita “buona”. È la sua avventura umana, la sua intera vita il testimone di speranza che ci è consegnato. Tanto più in questo momento difficile.

Ci risuonano nella mente le sue beatitudini: «Beato colui che sa resistere»; «Beati coloro che hanno fame e sete di opposizione». E ancora: «Nessuno viva un giorno solo col suo fuoco spento, ognuno scelga la sua parte di combattimento ogni giorno, ognuno renda la sua testimonianza che Cristo è vivo, che il povero è vittorioso, che ogni uomo è libero».

Articolo tratto da
ADISTA
La redazione di ADISTA si trova in via Acciaioli n.7 - 00186 Roma Telefono +39 06 686.86.92 +39 06 688.019.24 Fax +39 06 686.58.98 E-mail info@adista.it Sito www.adista.it

 



Sabato 26 Gennaio,2013 Ore: 17:49
 
 
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