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www.ildialogo.org IL PAPA MANCATO DI UNA CHIESA PERDUTA,da Adista Documenti n. 32 del 15/09/2012

La morte del Cardinal Carlo Maria Martini
IL PAPA MANCATO DI UNA CHIESA PERDUTA

da Adista Documenti n. 32 del 15/09/2012


La verità come ricerca, la modernità come risorsa. La Chiesa del Concilio piange il card. Martini

36834. MILANO-ADISTA. L’intervista rilasciata dal card. Carlo Maria Martini al Corriere della Sera l’8 agosto scorso, pubblicata dopo la sua morte, il 1° settembre, e rilanciata da tutta la stampa mondiale come il suo “testamento spirituale”, presenta una forte analogia con le parole di un altro insigne cardinale italiano, tra gli esponenti più amati ed ascoltati dell’ala progressista della Chiesa cattolica e tra le voci più profetiche della stagione post-conciliare: quelle di p. Michele Pellegrino, arcivescovo di Torino fino al 1976, anno in cui si ritirò. Formalmente per ragioni di salute; in realtà perché sentiva che la sua idea di Chiesa non era da tempo più in linea con l’orientamento che stava diventando egemone presso la gerarchia cattolica.

Era il marzo 1981 quando p. Pellegrino concesse al Regno una intervista che aveva per titolo “Questa Chiesa, fra paura e profezia...”. In essa il cardinale, allora 78enne, ammoniva sul rischio di «una Chiesa immobile», si pronunciava a favore dell’ordine presbiterale esteso anche alle persone sposate, suggeriva di mettere allo studio anche alcune forme di ministero ordinato per le donne, come già avveniva nelle prime comunità cristiane. Meno di un anno dopo, Pellegrino veniva colpito da un ictus che lo paralizzò per tutto il lato destro del corpo. Impedito a scrivere, impossibilitato ad esprimersi se non per cenni e parole pronunciate con estrema fatica, Pellegrino restò consegnato a letto o su una carrozzella fino alla morte, giunta nel 1986.

Martini, a causa del morbo di Parkinson, era limitato nel medesimo modo, sia nei movimenti che nella parola. Ciononostante, come p. Pellegrino, anche l’anziano biblista, ex arcivescovo di Milano, nella sua ultima intervista al Corriere, ha levato parole intense e vibranti nei confronti di una Chiesa «stanca», «rimasta indietro di 200 anni»: «La nostra cultura è invecchiata, le nostre Chiese sono grandi, le nostre case religiose sono vuote e l’apparato burocratico della Chiesa lievita, i nostri riti e i nostri abiti sono pomposi», denunciava l’anziano e malato cardinale. I rimedi? «Il primo è la conversione»: «La Chiesa deve riconoscere i propri errori e deve percorrere un cammino radicale di cambiamento, cominciando dal papa e dai vescovi. Gli scandali della pedofilia ci spingono a intraprendere un cammino di conversione», spiegava. «Le domande sulla sessualità e su tutti i temi che coinvolgono il corpo ne sono un esempio».

La buona morte

Ma non è stata solo l’intervista a far discutere il mondo laico e cattolico. A fare scalpore è stato soprattutto il racconto del modo in cui il card. Martini ha scelto di affrontare le ultime settimane della sua lunga malattia. Il suo neurologo ha riferito che il cardinale – considerandola una forma di accanimento terapeutico – aveva rifiutato negli ultimi giorni di vita la nutrizione artificiale via sondino. La scelta richiama in maniera evidente – nonostante i tanti e sottili distinguo che la stampa cattolica sta tentando di fare – il caso Englaro che, nel 2009, aveva visto la gerarchia ecclesiastica gridare all’omicidio di Stato perché al padre di Eluana era stato concesso di interrompere idratazione ed alimentazione forzata sul corpo “esanime” della figlia, affinché potesse morire. Inoltre, la nutrizione artificiale è considerata una terapia essenziale proprio da quella legge sul “finevita” proposta dal centrodestra, sostenuta dai vertici della Chiesa ed attualmente in discussione in Parlamento. Il significato profondamente teologico, oltre che altamente “politico” ed ecclesiale, della decisione del card. Martini è quindi evidentissimo. La nipote, Giulia Facchini, ha inoltre raccontato, in una lettera pubblicata sul Corriere della Sera il 4 settembre scorso, che l’anziano cardinale, specie con l’aggravarsi, in agosto, della sua malattia, non aveva acconsentito a sottoporsi a terapie che prolungassero inutilmente la sua agonia. Poi, «con la consapevolezza condivisa che il momento si avvicinava», quando non ce l’ha fatta più, ha chiesto «di essere addormentato».

L’intervista al Corriere, la scelta di interrompere le terapie di contrasto al Parkinson, desiderando solo di essere sedato, la collaborazione stessa con il Corriere (il suo direttore, Ferruccio De Bortoli ha recentemente scritto che essa «spiacque a Roma»), i tanti pronunciamenti su temi legati a quelli che la gerarchia cattolica definisce oggi valori “non negoziabili” (Martini intervenne anche nel dibattito politico aperto dal caso Welby. «C’è l’esigenza – scrisse in un suo articolo sul Sole 24 ore – di elaborare norme che consentano di respingere le cure», anche perché, spiegava, casi come quello di Welby, «saranno sempre più frequenti» e «la Chiesa dovrà darvi più attenta considerazione pastorale»), lo rendono un personaggio sempre più scomodo per la gerarchia cattolica, specie nell’era di Ratzinger.

Troppo autorevole, ascoltato ed amato per essere apertamente sconfessato o censurato, Martini è da anni una continua spina nel fianco di una Curia e un episcopato sempre più concentrati su se stessi, sul mantenimento delle proprie prerogative e privilegi, sulla propria percezione di vivere sotto l’“assedio” della modernità. E sempre più propensi a guardare alla realtà contemporanea come ad un pericolo e ad una minaccia, piuttosto che come una possibilità o una risorsa. Tollerato senza che i suoi interventi avessero mai vera eco nei giornali cattolici istituzionali e tra l’episcopato, quella di Martini era quindi ormai sempre più la voce di chi grida nel deserto ecclesiale. Con toni che erano diventati progressivamente più netti rispetto allo stile ovattato, alle affermazioni più problematiche che assertive, ai toni sfumati che avevano caratterizzato i suoi pronunciamenti da arcivescovo di Milano, Martini era ormai l’esponente della gerarchia cattolica più ascoltato sia da quella parte di mondo ecclesiale che vive con disagio l’approccio integrista del magistero, sia da parte di quell’opinione pubblica laica che con il cattolicesimo, specie quello “illuminato”, ritiene utile e necessario dialogare.

Ruini, il grande antagonista

Questa maggiore “libertà” nella parola Martini se l’era in parte “guadagnata” proprio per l’autorevolezza che la sua figura aveva ormai acquisito tra credenti e non credenti; in parte se l’era “conquistata” dopo la fine del suo ministero episcopale a Milano e la definitiva uscita di scena seguita al Conclave che elesse nel 2005 Ratzinger al soglio pontificio, perché, libero ormai da obblighi “istituzionali”, egli riteneva di poter parlare con maggiore “parresia” su certe questioni anche interne alla Chiesa, essendo ormai al di sopra di ogni possibile sospetto, accusa od illazione di intervenire per un qualche interesse di parte.

Anche negli anni del suo ministero milanese, tuttavia, Martini aveva più volte mostrato, pur nella prudenza che aveva sempre contraddistinto i suoi interventi pubblici, la sua diversa visione – conciliare ed inclusiva – della Chiesa e dei suoi rapporti con il mondo. Lo aveva dimostrato su questioni diversissime, dal lavoro all’immigrazione, dalla corruzione della politica (in una città in cui dominavano Dc e Psi) all’ecumenismo; dal rapporto con il mondo ebraico e con l’islam all’emarginazione e al carcere.

In realtà, al di là dell’aura di prestigio ed autorevolezza di cui godeva, sia dentro che fuori la Chiesa, nella gerarchia ecclesiastica l’astro di Martini aveva iniziato a tramontare già molti anni fa, in concomitanza col sorgere di quello del card. Camillo Ruini, che si può considerare il vero grande antagonista in Italia dell’ex arcivescovo di Milano. Tanto l’uno era mite e aperto, attento alle ragioni bibliche ed alle implicazioni teologiche ed ecclesiali di ogni sua scelta pastorale, totalmente avulso dalle logiche del potere temporale, tanto l’altro è irruento e decisionista, autoritario e pragmatico, ossessivamente concentrato sulla rilevanza politica delle sue scelte, assolutamente “mondano” nella sua capacità di tessere relazioni con il potere politico-economico, sia nel contesto ecclesiastico che in quello “civile”.

La carriera di Ruini iniziò infatti nel 1985, quando, allora vescovo ausiliare di Reggio Emilia, si propose come il punto di riferimento del processo di restaurazione che sotto l’egida di Giovanni Paolo II avrebbe portato ad un radicale sovvertimento degli equilibri e degli assetti della Chiesa italiana. Quell’anno papa Wojtyla a sorpresa gli affidò (come a sorpresa, nel 1979, aveva scelto Martini per la cattedra ambrosiana), la vicepresidenza del Comitato preparatorio dell’Assemblea che la Chiesa italiana si stava apprestando a celebrare a Loreto sul tema “Riconciliazione cristiana e comunità degli uomini”. Presidente del Comitato era proprio Martini.

Nel suo nuovo ruolo, Ruini divenne il leader di quella parte della gerarchia cattolica che intendeva archiviare definitivamente la linea ancora fortemente conciliare che a Loreto sembrava destinata a confermarsi come maggioritaria: questa linea, che tentava di impegnarsi in una prospettiva realmente ecumenica, che cercava di vivere la laicità come ascolto dei segni dei tempi e la secolarizzazione come una sfida a cui guardare con fiducia e coraggio, che lasciava ai laici una certa autonomia nell’azione sociale e politica, era sostenuta da un gran numero di delegati designati per l’assise, contava su uno strumento di presenza attiva e capillare nelle realtà territoriali e nella formazione del laicato quale era l’Azione Cattolica presieduta da Alberto Monticone; ma, soprattutto, aveva nel card. Martini, oltre che nell’allora presidente della Conferenza episcopale, il card. Anastasio Ballestrero, il suo solido e rigoroso supporto teologico e pastorale.

Wojtyla, nel cui discorso ai delegati Ruini ebbe una parte decisiva, sovvertì tutti gli orientamenti faticosamente e collegialmente elaborati alla vigilia del Convegno: invitò a dare testimonianza di unità, a vivere in piena sintonia con la Chiesa, ad operare affinché la fede cristiana «in una società pluralistica e parzialmente scristianizzata» recuperasse «un ruolo guida e un’efficacia trainante nel cammino verso il futuro»; chiarì poi che andava bene richiamarsi al Concilio, a patto che esso «non si interpreti secondo particolari visioni o scelte personali»; criticò il «processo di secolarizzazione, che spesso si esprime in una vera scristianizzazione della mentalità e del costume per il diffondersi del materialismo pratico, cui si aggiunge il peso culturale e politico di ideologie atee»; avvertì i presenti che la consapevolezza di essere portatori della verità che salva «è fattore essenziale del dinamismo missionario dell’intera comunità ecclesiale», necessario per quella nuova «implantatio evangelica» che il papa intendeva attuare. Per il papa bisognava addirittura porre mano «a un’opera di inculturazione della fede che raggiunga e trasformi, mediante la forza del Vangelo, i criteri di giudizio, i valori determinanti, le linee di pensiero e i modelli di vita».

La parresia e la “politica dei due volti”

Tutto il contrario di quello che l’azione del card. Martini si era sino a quel momento impegnata a realizzare. Inoltre, la formazione del laicato, non più demandata all’Azione Cattolica – che l’allora arcivescovo di Milano aveva sempre sostenuto, ma che per il papa e per Ruini non aveva dato prova di sapersi contrapporre adeguatamente ai fenomeni di secolarizzazione –, veniva affidata soprattutto ai movimenti, Comunione e Liberazione in primis, che a Loreto ricevettero la loro definitiva consacrazione. Il papa esaltò infatti la «carica di promesse, la grande varietà e vivacità di aggregazioni e movimenti, soprattutto laicali, che caratterizza l’attuale periodo post-conciliare», verso cui invitava a deporre «ogni spirito di antagonismo e di contesa», poiché essi costituivano «un canale privilegiato per la formazione e la promozione di un laicato attivo e consapevole del proprio ruolo nella Chiesa e nel mondo, secondo il genuino insegnamento del Concilio».

Negli anni successivi, con il procedere incessante della scalata di Ruini ai vertici della Conferenza episcopale e della Curia, per la linea conciliare, all’interno della gerarchia, tra i teologi e gli intellettuali progressisti, come dentro l’associazionismo cattolico, fu l’inizio della fine. Comunione e Liberazione (già da diversi anni apertamente ed aspramente contrapposta all’Azione Cattolica), divenne l’ariete utilizzato da Ruini per contrastare le spinte progressiste e conciliari della Chiesa montiniana, specie dentro l’Ac. Resistette, ma solo in parte, l’Ac ambrosiana, che anche negli anni più duri del wojtylismo manterrà un certo margine di autonomia e di giudizio sulle vicende sociali e politiche del Paese, grazie anche al sostegno ed alla copertura offerta dall’arcivescovo di Milano. Anche per questa ragione la contrapposizione di Cl a Martini fu in alcuni momenti assai dura. Lo testimonia la lettera, che doveva restare riservata, ma che è stata pubblicata il 6 maggio scorso dal Fatto quotidiano, di don Julián Carrón, presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione, al nunzio Giuseppe Bertello (un documento datato marzo 2011 che si riferiva alle consultazioni in vista della nomina del nuovo arcivescovo di Milano). In essa, pur non nominandoli mai, Carrón si lasciava andare, «in tutta franchezza e confidenza», ad alcune durissime considerazioni sullo stato della Chiesa ambrosiana, criticando radicalmente e profondamente l’azione pastorale del card. Martini, ma anche del suo successore, il card. Dionigi Tettamanzi, prossimo al pensionamento, affermando che «negli ultimi trent’anni» la diocesi ambrosiana aveva di fatto promosso quella «frattura caratteristica della modernità tra sapere e credere, a scapito della organicità dell’esperienza cristiana, ridotta a intimismo e moralismo». Suonano allora ancor più vuote ed ipocrite, a conferma della “politica dei due volti” tipica di Comunione e Liberazione, le parole stavolta “ufficiali”, scritte da Carrón subito dopo la morte di Martini, il 3 settembre scorso, con le quali, oltre alla grande stima per il cardinale, il presidente della Fraternità di Cl vorrebbe dimostrare una benevolenza ed una vicinanza pastorale di Martini nei confronti del movimento fondato da don Giussani che non è nei fatti mai esistita.

Cl partecipò infatti in prima linea al capillare lavoro di normalizzazione delle Curie diocesane e delle parrocchie romane, attraverso la rimozione di laici, vescovi e parroci considerati legati al magistero di papa Montini e del card. Martini, cioè eccessivamente disponibili ad aprirsi alle esigenze del territorio, a dialogare con la cultura laica e progressista, o a lavorare in maniera “collegiale” all’interno delle proprie realtà ecclesiali. Anche l’informazione cattolica istituzionale, che negli anni ’80 mostrava ancora una certa pluralità di prospettive, venne uniformata dal punto di vista politico ed ecclesiale e ricondotta sotto il rigido controllo della presidenza della Cei, attraverso le mani “esperte” dei giornalisti ciellini.

Un brusco risveglio

Per lo stesso card. Martini, cui nel 1986 venne assegnato un incarico che lo allontanava dalle responsabilità dirette sulle vicende italiane, quello di presidente del Consiglio delle Conferenze dei Vescovi d’Europa – carica che manterrà fino al 1993 – divenne difficile trovare spazio sui media della Cei e del Vaticano.

Così, quando il 7 ottobre 1999 Martini, durante il Sinodo dei Vescovi raccontò, in un intervento divenuto poi celebre, il suo «sogno» di «un confronto collegiale e autorevole tra tutti i vescovi su alcuni dei temi nodali emersi in questo quarantennio», nessuno, né il Sir, né l’Avvenire, né la Radio Vaticana, né l’Osservatore Romano, riprese le sue parole per offrirle al dibattito dell’opinione pubblica ed al confronto intraecclesiale. Fu Adista a restituire all’opinione pubblica ed al dibattito ecclesiale un testo che i media cattolici volevano silenziare. Ma il silenzio censorio non è stata l’unica strategia usata dalla gerarchia cattolica per ridurre all’impotenza la voce profetica di Martini. È successo anche che i contenuti delle sue affermazioni siano stati sostanzialmente adulterati (ad esempio in occasione del “Dialogo sulla vita” pubblicato dall’Espresso, v. Adista n. 33/06), oppure, ma è stato un caso più raro, che si sia scelta la via della critica esplicita e frontale. Come avvenne nel 2007, quando il Corriere anticipò (16/10), uno stralcio dell’articolo scritto dall’ex arcivescovo di Milano per il bimestrale Kos, rivista del San Raffaele di Milano diretta da don Verzè, ed intitolato “C’è una voce in ognuno di noi che ci spinge a dubitare di Dio”, sul tema della difficoltà e delle contraddizioni della fede, frontalmente e sommariamente attaccato sulle colonne di Avvenire (20/11) dal direttore di Communio Elio Guerriero (v. Adista n. 83/07).

Del resto, proprio sulla presenza di una parte potenzialmente “atea” e scettica all’interno di ogni credente «che grida e sussurra ogni giorno le sue difficoltà a credere» si basava l’istituzione, promossa da Martini a Milano nel 1987, della “Cattedra dei non credenti”, uno spazio che intendeva porre i non credenti “in cattedra” per dare – diceva il card. Martini – ai cristiani la possibilità di «ascoltare quanto essi hanno da dirci della loro non conoscenza di Dio». Una prospettiva profondamente e radicalmente conciliare, all’interno della quale la Chiesa si spogliava della sua presunzione di possedere la verità unica ed intera per partecipare, su uno stesso piano intellettuale e morale, ad un comune cammino di ricerca, ad un fecondo dialogo con le visioni e le opzioni diverse dalla propria. Perché per Martini e per tutti coloro che avevano vissuto e creduto intensamente alla profezia conciliare, la verità non è qualcosa che si possiede integralmente e si comunica a chi non la possiede; è piuttosto un obiettivo a cui tendere continuamente attraverso un processo di relazione e condivisione con gli altri.

Significativo quindi che l’ultima critica a Martini, e proprio su questo aspetto, arrivi dallo stesso card. Ruini, che sul Corriere (5/9) parla del Concilio come di «una sfida enorme, a volte mal compresa», da cui sono perciò «nati molti danni». E sulla pretesa della Chiesa di possedere la verità afferma: «Gesù stesso ha rivendicato di avere un rapporto unico con Dio, che si esprime nella parola “figlio”. E Dio ha confermato questa pretesa inaudita di Gesù, resuscitandolo dai morti. La pretesa non viene da noi, viene dal Cristo».

Martini non risparmiò rilievi nemmeno all’operato del papa. Nel 2007, sul Sole 24 ore criticò il Motu proprio Summorum Pontificum con il quale Ratzinger ripristinava la messa di S. Pio V. «Ritengo che con il Concilio Vaticano II si sia fatto un bel passo avanti per la comprensione della liturgia», scriveva. «In secondo luogo non posso non risentire quel senso di chiuso che emanava dall’insieme di quel tipo di vita cristiana» che aveva preceduto l’avvento del nuovo rito, dove il fedele faceva fatica a trovare un «respiro di libertà e di responsabilità da vivere in prima persona». «In terzo luogo – concludeva Martini – pur ammirando l’immensa benevolenza del papa che vuole permettere a ciascuno di lodare Dio con forme antiche e nuove, ho visto come vescovo l’importanza di una comunione anche nelle forme di preghiera liturgica». (valerio gigante)


Un Concilio Vaticano III: il «sogno» di Martini, l’incubo della Chiesa

36835. ROMA-ADISTA. «Siamo indotti a interrogarci se, quaranta anni dopo l’indizione del Vaticano II, non stia a poco a poco maturando, per il prossimo decennio, la coscienza dell’utilità e quasi della necessità di un confronto collegiale e autorevole tra tutti i vescovi su alcuni dei temi nodali emersi in questo quarantennio». Era l’ottobre del 1999 e questo era il «sogno» di un nuovo Concilio che il cardinale di Milano, Carlo Maria Martini, aveva raccontato al Sinodo dei vescovi per l’Europa nel suo intervento. Un intervento pensato proprio durante i lavori del Sinodo, diverso da quello originariamente programmato, con il quale probabilmente il cardinale aveva ritenuto opportuno farsi portavoce, se non di precise richieste, quanto meno di un’esigenza constatata ascoltando i confratelli europei. E un intervento che, per la sua dirompenza, fu “censurato” in Sala Stampa vaticana (non venne incluso tra i materiali consegnati quotidianamente ai giornalisti) e il cui testo Adista riuscì ad ottenere in esclusiva (v. Adista n. 73/99).

Quello di Martini era certamente un sogno coraggioso, se si pensa alla Chiesa centralistica, verticalizzata, più unanimista che unita, plasmata da Giovanni Paolo II e dalla sua Curia, dove – rilevava l’allora arcivescovo ambrosiano – forte è la necessità di rinnovare l’esperienza fatta dai vescovi che parteciparono al Concilio Vaticano II.

Che ne è stato di questo Concilio?, è la domanda che scorre sotto traccia nell’intervento del cardinale; che ne è stato, se solo i pochi testimoni ancora viventi ne hanno memoria? Martini indicava i temi ecclesiali per i quali “sognava” un incontro universale dei vescovi: la carenza di ministri ordinati, la donna nella società e nella Chiesa, la sessualità, la disciplina del matrimonio, la prassi penitenziale. Tutti temi ancora oggi nodali e conflittuali.

«I had a dream»

Ricordando il cardinale Basil Hume, arcivescovo di Westminster morto qualche mese prima, che aveva più volte iniziato i suoi interventi sinodali con le parole «I had a dream», (ho fatto un sogno), Martini affermava di aver avuto anche lui «parecchi sogni». Tra questi, il desiderio che si ripeta, «ogni tanto, nel corso del secolo che si apre, una esperienza di confronto universale tra i vescovi che valga a sciogliere qualcuno di quei nodi disciplinari e dottrinali che forse sono stati evocati poco in questi giorni, ma che riappaiono periodicamente come punti caldi sul cammino delle Chiese europee e non solo europee». Qui Martini faceva riferimento in generale agli approfondimenti e agli sviluppi dell’ecclesiologia di comunione del Vaticano II, ma anche a questioni ecclesiali urgenti: «Penso alla carenza – diceva –, in qualche luogo già drammatica, di ministri ordinati e alla crescente difficoltà per un vescovo di provvedere alla cura d’anime nel suo territorio con sufficiente numero di ministri del Vangelo e dell’eucarestia», «ad alcuni temi riguardanti la posizione della donna nella società e nella Chiesa, la partecipazione dei laici ad alcune responsabilità ministeriali, la sessualità, la disciplina del matrimonio, la prassi penitenziale, i rapporti con le Chiese sorelle dell’Ortodossia e più in generale il bisogno di ravvivare la speranza ecumenica», così come pure «al rapporto tra democrazia e valori e tra leggi civili e legge morale. Non pochi di questi temi sono già emersi in Sinodi precedenti, sia generali che speciali, ed è importante trovare luoghi e strumenti adatti per un loro attento esame».

Sul modo e sulla sede in cui affrontare questi nodi, Martini si lanciava in avanti: «Non sono certamente strumenti validi per questo né le indagini sociologiche né le raccolte di firme. Né i gruppi di pressione. Ma forse neppure un Sinodo potrebbe essere sufficiente». Il fatto è, spiegava, che alcune questioni «necessitano probabilmente di uno strumento collegiale più universale e autorevole, dove possano essere affrontate con libertà, nel pieno esercizio della collegialità episcopale, in ascolto dello Spirito e guardando al bene comune della Chiesa e dell’umanità intera». E poi, si faceva ancora più esplicito: «Siamo cioè indotti ad interrogarci se, quaranta anni dopo l’indizione del Vaticano II, non stia a poco a poco maturando, per il prossimo decennio, la coscienza dell’utilità e quasi della necessità di un confronto collegiale e autorevole tra tutti i vescovi su alcuni dei temi nodali emersi in questo quarantennio». Vale a dire: un nuovo Concilio. «V’è in più la sensazione – osservava – di quanto sarebbe bello e utile per i vescovi di oggi e di domani, in una Chiesa ormai sempre più diversificata nei suoi linguaggi, ripetere quella esperienza di comunione, di collegialità e di Spirito Santo che i loro predecessori hanno compiuto nel Vaticano II e che ormai non è più memoria viva se non per pochi testimoni».

A distanza di tredici anni, il sogno di Martini è ancora ben lungi dal diventare realtà. (L’articolo della nostra giornalista Ludovica Eugenio è apparso il 3 settembre scorso sul sito de Linkiesta).


La vita, la morte e quello che c’è in mezzo. Zibaldone dei pensieri del card. Martini

36836. ROMA-ADISTA. Negli ultimi anni, il card. Carlo Maria Martini affrontò i temi spinosi della modernità e della Chiesa in numerosi libri, colloqui ed interviste.

Nel volume scritto col medico e senatore del Pd Ignazio Marino, Credere e conoscere (Einaudi, 2006), affermò sull’omosessualità: «In alcuni casi la buona fede, le esperienze vissute, le abitudini contratte, l’inconscio e forse anche una certa inclinazione nativa possono spingere a scegliere un tipo di vita con un partner dello stesso sesso». «Non è male che, in luogo di rapporti omosessuali occasionali, due persone abbiano una certa stabilità e quindi, in questo senso, lo Stato potrebbe anche favorirli». Matrimonio no, insomma, ma riconoscimento di alcuni diritti fondamentali sì. «Non condivido le posizioni di chi, nella Chiesa, se la prende con le unioni civili», affermava Martini: «Se alcune persone, di sesso diverso oppure dello stesso sesso, ambiscono a firmare un patto per dare una certa stabilità alla loro coppia, perché vogliamo assolutamente che non lo sia?». Per Martini, kermesse come il Gay Pride potevano essere giustificate «per il solo fatto che in questo particolare momento storico esiste per questo gruppo di persone il bisogno di autoaffermazione, di mostrare a tutti la propria esistenza, anche a costo di apparire eccessivamente provocatori».

In un’intervista-colloquio, pubblicata dall’Espresso il 21 aprile 2006, sempre con Ignazio Marino, Martini definiva il profilattico come «male minore» nella lotta all’Aids; la fecondazione eterologa una questione complessa su cui continuare a interrogarsi, senza «ostentare certezze»; l’adozione di embrioni anche da parte di donne single uno scenario che può essere ipotizzato, se serve ad evitare la distruzione di embrioni già fecondati e criocongelati. Apriva poi qualche spiraglio all’adozione di bambini da parte di single. Il cardinale toccava inoltre i temi dell’eutanasia e dell’aborto. La prima, affermava, «non si può mai approvare», senza tuttavia condannare «le persone che compiono un simile gesto su richiesta di una persona ridotta agli estremi e per puro sentimento di altruismo». Idem per l’aborto: «Ritengo che vada rispettata ogni persona che, magari dopo molta riflessione e sofferenza, in questi casi estremi segue la sua coscienza, anche se si decide per qualcosa che io non mi sento di approvare».

Sulla Chiesa, nel 2009, in un’intervista rilasciata a Eugenio Scalfari (Repubblica, 18/6), affermava che «la struttura diplomatica è fin troppo ridondante e impegna fin troppo le energie della Chiesa». «Nella storia della Chiesa per molti e molti secoli questa struttura non è neppure esistita e potrebbe in futuro essere fortemente ridotta se non addirittura smantellata. Il compito della Chiesa è di testimoniare la parola di Dio». Riguardo al papa, proseguiva, quest’ultimo «è innanzitutto il vescovo di Roma. Per noi cattolici è il vicario di Cristo in Terra e gli dobbiamo amore, rispetto ed obbedienza, senza però dimenticare che la Chiesa apostolica si regge su due pilastri, il papa e la sua comunione con i vescovi».

Nei Colloqui notturni a Gerusalemme (Mondadori, 2009), propugnava la necessità di una riforma della Chiesa: «Ho sognato una Chiesa nella povertà e nell’umiltà, che non dipende dalle potenze di questo mondo. Una Chiesa che concede spazio alla gente che pensa più in là. Una Chiesa che dà coraggio, specialmente a chi si sente piccolo o peccatore. Una Chiesa giovane. Oggi non ho più di questi sogni. Dopo i 75 anni ho deciso di pregare per la Chiesa».

Sulla crisi delle vocazioni, diceva che la Chiesa avrebbe dovuto «farsi venire qualche idea» come, ad esempio, «la possibilità di ordinare viri probati» o di riconsiderare il sacerdozio femminile, sul quale riconosceva la lungimiranza delle Chiese protestanti. Ricordava persino di aver incoraggiato questa posizione in un incontro con il primate anglicano George Carey: «Gli dissi di farsi coraggio che questa audacia poteva aiutare anche noi a valorizzare di più le donne e a capire come andare avanti». Su sessualità e contraccezione, criticava l’Humanae Vitae di Paolo VI, l’enciclica scritta «in solitudine» dal papa e che proponeva indicazioni poco lungimiranti. «Questa solitudine decisionale a lungo termine non è stata una premessa positiva per trattare i temi della sessualità e della famiglia». Sarebbe opportuno, affermava, gettare «un nuovo sguardo» sull’argomento. La Bibbia, in definitiva, non condanna a priori né il sesso né l’omosessualità. È la Chiesa, invece, che nella storia ha spesso dimostrato insensibilità nel giudizio della vita delle persone. «Tra i miei conoscenti – ricordava ancora Martini – ci sono coppie omosessuali. Non mi è stato mai domandato né mi sarebbe venuto in mente di condannarli».

Il contatto con le altre religioni, saggiato in prima persona durante il lungo soggiorno a Gerusalemme, ha rappresentato per Martini un punto di non ritorno, una scuola di vita e di fede. «Dio non è cattolico», «Dio è al di là delle frontiere che vengono erette». Le istituzioni ecclesiastiche «non dobbiamo confonderle con Dio». Incontrare e (perché no) pregare insieme all’amico di altra religione, diceva, «non ti allontanerà dal cristianesimo, approfondirà al contrario il tuo essere cristiano». E invitava: «Non aver paura dell’estraneo». Il grande comandamento invita ad amare l’altro come se stessi. Il “giusto” – e qui Martini prendeva in prestito la II sura del Corano – è chi «pieno di amore dona i suoi averi ai parenti, agli orfani, ai poveri e ai pellegrini».

Nel 2010, in un’intervista al tedesco Presse am Sonntag, rispondeva così alla sfida lanciata dallo scandalo pedofilia: «Oggi, nel momento in cui il nostro compito nei confronti dei giovani e gli abusi contro di loro così scandalosamente si contraddicono, non possiamo tirarci indietro, ma dobbiamo cercare nuove strade». Secondo Martini, «devono essere poste delle questioni fondamentali» e tra queste «deve essere sottoposto a ripensamento l’obbligo di celibato dei sacerdoti come forma di vita». Vanno inoltre riproposte le «questioni centrali della sessualità con la generazione odierna, con le scienze umane e con gli insegnamenti della Bibbia», perché soltanto «un’aperta discussione può ridare autorevolezza alla Chiesa, portare alla correzione dei fallimenti e rafforzare il servizio della Chiesa nei confronti degli uomini». (L’articolo della nostra giornalista Ludovica Eugenio è apparso il 31 agosto scorso sul blog di Adista sul sito de Linkiesta).


«Chiesa indietro di 200 anni».Il “testamento spirituale” del card. Martini

36837. ROMA-ADISTA. Di seguito riportiamo il testo dell’intervista rilasciata dal card. Martini l’8 agosto scorso ma pubblicata sul Corriere della Sera dopo la sua morte. Una conversazione con p. Georg Sporschill e Federica Radice Fossati che, per la forza del suo contenuto, ha fatto il giro del mondo.

Come vede lei la situazione della Chiesa?

«La Chiesa è stanca, nell’Europa del benessere e in America. La nostra cultura è invecchiata, le nostre Chiese sono grandi, le nostre case religiose sono vuote e l’apparato burocratico della Chiesa lievita, i nostri riti e i nostri abiti sono pomposi. Queste cose però esprimono quello che noi siamo oggi? (...) Il benessere pesa. Noi ci troviamo lì come il giovane ricco che triste se ne andò via quando Gesù lo chiamò per farlo diventare suo discepolo. Lo so che non possiamo lasciare tutto con facilità. Quanto meno però potremmo cercare uomini che siano liberi e più vicini al prossimo. Come lo sono stati il vescovo Romero e i martiri gesuiti di El Salvador. Dove sono da noi gli eroi a cui ispirarci? Per nessuna ragione dobbiamo limitarli con i vincoli dell’istituzione».

Chi può aiutare la Chiesa oggi?

«Padre Karl Rahner usava volentieri l’immagine della brace che si nasconde sotto la cenere. Io vedo nella Chiesa di oggi così tanta cenere sopra la brace che spesso mi assale un senso di impotenza. Come si può liberare la brace dalla cenere in modo da far rinvigorire la fiamma dell’amore? Per prima cosa dobbiamo ricercare questa brace. Dove sono le singole persone piene di generosità come il buon samaritano? Che hanno fede come il centurione romano? Che sono entusiaste come Giovanni Battista? Che osano il nuovo come Paolo? Che sono fedeli come Maria di Magdala? Io consiglio al papa e ai vescovi di cercare dodici persone fuori dalle righe per i posti direzionali. Uomini che siano vicini ai più poveri e che siano circondati da giovani e che sperimentino cose nuove. Abbiamo bisogno del confronto con uomini che ardono in modo che lo spirito possa diffondersi ovunque».

Che strumenti consiglia contro la stanchezza della Chiesa?

«Ne consiglio tre molto forti. Il primo è la conversione: la Chiesa deve riconoscere i propri errori e deve percorrere un cammino radicale di cambiamento, cominciando dal Papa e dai vescovi. Gli scandali della pedofilia ci spingono a intraprendere un cammino di conversione. Le domande sulla sessualità e su tutti i temi che coinvolgono il corpo ne sono un esempio. Questi sono importanti per ognuno e a volte forse sono anche troppo importanti. Dobbiamo chiederci se la gente ascolta ancora i consigli della Chiesa in materia sessuale. La Chiesa è ancora in questo campo un’autorità di riferimento o solo una caricatura nei media? Il secondo la Parola di Dio. Il Concilio Vaticano II ha restituito la Bibbia ai cattolici. (...) Solo chi percepisce nel suo cuore questa Parola può far parte di coloro che aiuteranno il rinnovamento della Chiesa e sapranno rispondere alle domande personali con una giusta scelta. La Parola di Dio è semplice e cerca come compagno un cuore che ascolti (...). Né il clero, né il Diritto ecclesiale possono sostituirsi all’interiorità dell’uomo. Tutte le regole esterne, le leggi, i dogmi ci sono dati per chiarire la voce interna e per il discernimento degli spiriti. Per chi sono i sacramenti? Questi sono il terzo strumento di guarigione. I sacramenti non sono uno strumento per la disciplina, ma un aiuto per gli uomini nei momenti del cammino e nelle debolezze della vita. Portiamo i sacramenti agli uomini che necessitano una nuova forza? Io penso a tutti i divorziati e alle coppie risposate, alle famiglie allargate. Questi hanno bisogno di una protezione speciale. La Chiesa sostiene l’indissolubilità del matrimonio. È una grazia quando un matrimonio e una famiglia riescono (...). L’atteggiamento che teniamo verso le famiglie allargate determinerà l’avvicinamento alla Chiesa della generazione dei figli. Una donna è stata abbandonata dal marito e trova un nuovo compagno che si occupa di lei e dei suoi tre figli. Il secondo amore riesce. Se questa famiglia viene discriminata, viene tagliata fuori non solo la madre ma anche i suoi figli. Se i genitori si sentono esterni alla Chiesa o non ne sentono il sostegno, la Chiesa perderà la generazione futura. Prima della Comunione noi preghiamo: “Signore non sono degno”. Noi sappiamo di non essere degni (...). L’amore è grazia. L’amore è un dono. La domanda se i divorziati possano fare la Comunione dovrebbe essere capovolta. Come può la Chiesa arrivare in aiuto con la forza dei sacramenti a chi ha situazioni familiari complesse?».

Lei cosa fa personalmente?

«La Chiesa è rimasta indietro di 200 anni. Come mai non si scuote? Abbiamo paura? Paura invece di coraggio? Comunque la fede è il fondamento della Chiesa. La fede, la fiducia, il coraggio. Io sono vecchio e malato e dipendo dall’aiuto degli altri. Le persone buone intorno a me mi fanno sentire l’amore. Questo amore è più forte del sentimento di sfiducia che ogni tanto percepisco nei confronti della Chiesa in Europa. Solo l’amore vince la stanchezza. Dio è Amore. Io ho ancora una domanda per te: che cosa puoi fare tu per la Chiesa?».




Mercoledì 12 Settembre,2012 Ore: 16:39
 
 
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