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www.ildialogo.org «Uomo dei poveri, uomo di Dio»: il ricordo di mons. Romero a 32 anni dal martirio,da Adista Documenti n. 14 del 14/04/2012

«Uomo dei poveri, uomo di Dio»: il ricordo di mons. Romero a 32 anni dal martirio

da Adista Documenti n. 14 del 14/04/2012

DOC-2428. ROMA-ADISTA. Trentadue anni dopo il martirio di mons. Oscar Romero, sono ancora nitidissime le immagini, «tremende», che di quel pomeriggio conserva la religiosa carmelitana Luz Isabel Cueva, 89 anni, fondatrice dell’ospedale della Divina Providencia dove Romero – Monsito, lo chiamavano le suore - era andato a vivere dopo la sua nomina ad arcivescovo di San Salvador, e unica sopravvissuta tra le religiose presenti quel giorno, il 24 marzo del 1980, nella cappella dell’hospitalito in cui l’arcivescovo stava celebrando la messa. L’arcivescovo «era tranquillo», ricorda la carmelitana in un’intervista pubblicata sul sito www.voces.org.sv (23/3), malgrado l’annuncio, apparso sui giornali, della celebrazione da parte di Romero della messa per il primo anniversario della morte di Sara Meardi de Pinto, madre del proprietario del settimanale El Independiente, suonasse come «un invito ad ucciderlo». «Gli dicevamo di non andare, ma, da uomo di parola qual era, ci rispose che aveva già preso l’impegno e che se Dio avesse permesso che gli succedesse qualcosa, gli avrebbe dato anche la forza per sopportarlo». Quando l’assassino – che oggi sappiamo trattarsi di Marino Samayoa Acosta, sottosergente della seconda sezione della disciolta Guardia Nazionale e membro dello staff di sicurezza dell’ex presidente della Repubblica, il colonnello Arturo Armando Molina, come rivelato nel settembre del 2011 dal quotidiano salvadoregno Co Latino, sulla base di informazioni provenienti da fonti vicine ai circoli di Roberto D’Aubuisson, il mandante dell’omicidio (v. Adista n. 69/11 ) – sparò con un fucile di precisione svizzero, «Monsignore afferrò la tovaglia dell’altare e le ostie si rovesciarono su di lui ed egli cadde ai piedi di Cristo, di quel Cristo che era stato il suo modello». Come «un uomo di Dio», impegnato con tutto se stesso a dire la verità e a difendere la giustizia, lo definisce la religiosa carmelitana, ricordando come egli non risolvesse mai i problemi che aveva di fronte senza prima consultare «persone umili, che egli ammirava moltissimo, aspettando la risposta come se venisse da Dio». E come «uomo dei poveri, uomo del suo popolo sofferente, uomo di Dio» lo descrive il teologo gesuita Jon Sobrino, soffermandosi sulla «profondità ineguagliabile» raggiunta dalla sua relazione con Dio e con gli esseri umani alla fine della sua vita. E restituendo, attraverso il ricordo dell’ultima lettera pastorale, dell’ultimo discorso, dell’ultima omelia, dell’ultimo ritiro spirituale, l’immagine autentica di una vita che «dà speranza».

Come per Luz Isabel Cueva, così anche per ampi settori della società salvadoregna il ricordo di mons. Romero resta incancellabile, come mostrano, di anniversario in anniversario - e si è arrivati a trentadue - le celebrazioni del suo martirio, anche quest’anno culminate, il 24 marzo, dopo una settimana di iniziative (sul tema, ripreso da un’omelia dell’arcivescovo, “Ya basta de sufrimientos para el pueblo”), con un “pellegrinaggio della luce” verso la cattedrale metropolitana e una “veglia culturale”. Ma quella del martirio di “San Romero d’America” è una memoria che oltrepassa sempre nuove frontiere, religiose e geografiche, come ha riconosciuto, nel 2010, addirittura il Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite, proclamando il 24 marzo, proprio in omaggio all’arcivescovo assassinato sull’altare, come “Giornata internazionale per il diritto alla verità sulle gravi violazioni dei diritti umani e la dignità delle vittime”. L’anniversario del martirio di Romero è stato commemorato quest’anno persino a Nuova Delhi, con una liturgia speciale e una Via Crucis, per iniziativa della Commissione giustizia, pace e sviluppo della Conferenza episcopale indiana e del consolato di El Salvador. «Il ministero profetico di verità e giustizia dell'arcivescovo Romero è fondamentale per la Chiesa indiana, ha sottolineato l’arcivescovo di Nuova Delhi mons. Vincent Concessao (Asia News, 23/3.

Ricco, come di consueto, il calendario delle celebrazioni romane, grazie all’impegno profuso, come ogni anno, dal Cipax e dal Comitato romano Oscar Romero: tra le iniziative svoltesi sul tema “Mantener viva la memoria de los martires y ponerla a producir”, la celebrazione ecumenica nella chiesa di San Marcello al Corso, il 23 marzo, con gli interventi di mons. Rodolfo Valenzuela, presidente della Conferenza episcopale del Guatemala, e della pastora valdese Maria Bonafede; la festa delle comunità latinoamericane a Roma, a Santa Maria degli Angeli, e la proiezione del film brasiliano “Battesimo di sangue”, ispirato all’omonimo libro di Frei Betto sul martirio di Frei Tito de Alencar, religioso domenicano catturato e torturato da ufficiali dell’esercito negli anni della dittatura militare, espulso dal Brasile e, soffocato dai suoi fantasmi interiori,  suicidatosi nel sud della Francia il 10 agosto 1974, nella convinzione che fosse «meglio morire che perdere la vita».

Di seguito, in una nostra traduzione dallo spagnolo, l’intervento di Jon Sobrino (tratto da Adital, 28/3). (claudia fanti)


DARE CONTINUITÀ A CIÒ CHE ROMERO È STATO E HA FATTO  di Jon Sobrino

La pasqua di mons. Romero ha avuto luogo 32 anni fa e oggi noi ci chiediamo cosa fare con Monsignore. È la stessa domanda che si posero i cristiani della seconda generazione: cosa fare con Gesù di Nazareth.

Gesù fu crocifisso verso l’anno 30 e, circa 35 anni dopo, Marco - il primo a farlo – redasse un vangelo. Per questo compito raccolse tradizioni orali, oltre a ciò che verificò per suo conto, sulla compassione di Gesù verso le moltitudini, sulle sue denunce nei confronti dei potenti, sulle controversie su Dio e sulla sua preghiera al Padre. Strutturò tutto ciò in forma di storia, il cui punto culminante è la passione che termina con la croce. Con audacia, egli afferma che Gesù muore con un grido di solitudine: «Dio mio, perché mi hai abbandonato». E, ai piedi della croce, è un pagano, il centurione romano, che lo riconosce come “Figlio di Dio”.

Trascorso il sabato, alcune donne si recano alla tomba per ungere il cadavere. Trovano la pietra che copriva l’ingresso ribaltata e un giovane che dice loro: «Non è qui. È resuscitato. Andate a riferirlo ai suoi discepoli». E il racconto finisce con altre parole audaci: «E quelle, uscite, fuggirono dal sepolcro, perché erano sconvolte dallo spavento, e dalla paura non dissero nulla a nessuno».

Talmente sorprendente apparve questo finale che, anni dopo, fu necessario aggiungerne un altro più convenzionale.

Perché Marco scrisse questo “duro” vangelo? Certamente, condivide con gli altri evangelisti il fatto che Gesù sia la Buona Novella di Dio. Ma poiché scrive a una comunità che soffre la persecuzione, a Roma, insiste sul fatto che il cristianesimo non sia una cosa facile. È seguire di Gesù prendendo su di sé la croce. È l’insegnamento di come, “perdendo la vita” come Gesù, il cristiano “l’acquisti”.

Ricordare come ha proceduto Marco può aiutarci a parlare di mons. Romero oggi. C’è una differenza importante, perché Marco non aveva a disposizione biografie e discorsi precisi di Gesù come quelli che abbiamo noi di Monsignore. Ma, questo sì, possiamo apprendere da Marco a incontrare in Monsignore un cristianesimo forte, non light. E a riconoscere tutta l’importanza del finale della sua vita.

È ciò che tentiamo di fare qui di seguito. Tanto in Gesù come in Monsignore la relazione con Dio e con gli esseri umani ha raggiunto una profondità ineguagliabile alla fine della loro vita. Ed è per questo che di Monsignore ricorderemo l’ultima lettera pastorale, l’ultimo discorso, l’ultima omelia, l’ultimo ritiro spirituale.

1. LA SUA ULTIMA LETTERA PASTORALE. MONSIGNORE, PASTORE DEL PAESE

Viene pubblicata il 6 agosto 1979, quando Monsignore aveva già percorso un lungo cammino in mezzo a una situazione estremamente conflittuale. Si vedeva già che la repressione sarebbe sfociata in guerra, come infatti avvenne. Varie cose possiamo apprendere tutti, pensando in particolare alle chiese, ai loro fedeli e alla loro gerarchia.

a) Il titolo della lettera è “Missione della Chiesa in mezzo alla crisi del Paese”. Monsignore ha preso sul serio il Paese. Non ha scritto un breve messaggio, ma un testo di circa sessanta pagine. Lo ha preparato per diverse settimane insieme a un’équipe di una ventina di persone con grandi competenze, economisti, sociologi, teologi, laici e sacerdoti, e impegnati nel lavoro diretto con il popolo. Ha pure inviato un questionario alle comunità chiedendo loro un’opinione su temi, tra altri, come: “Chi è per voi Gesù Cristo”, “qual è il peccato fondamentale del Paese”, “cosa pensate della Conferenza episcopale, del nunzio, dell’arcivescovo di San Salvador”. E ha tenuto conto delle risposte. Ha avuto infine ben presenti i documenti dei vescovi latinoamericani a Puebla che erano appena stati pubblicati. Certamente, l’opzione per i poveri e l’idolatria.

b) In un Paese che stava esplodendo, Monsignore ha voluto “pensare al Paese”, ai suoi problemi e ai passi da compiere per trovare una soluzione. Con vigore e rigore, ha analizzato e condannato le idolatrie.

La prima, l’assolutizzazione della ricchezza e della proprietà privata, condannata come radice della violenza strutturale. Oggi, non si parla spesso con serietà di questa idolatria, né nella società né nella Chiesa. E persiste il silenzio sull’imperialismo capitalista che provoca guerre e crisi mondiali.

La seconda, l’assolutizzazione della sicurezza nazionale, dell’esercito, dei corpi di sicurezza, degli squadroni della morte. Sono nella storia come il dio Moloch che, nella mitologia, esige vittime per mantenersi. Oggi, in modi diversi, per quanto con ogni probabilità con le stesse cause ultime, in El Salvador e in tutto il Centroamerica viviamo con un’“epidemia di omicidi”,  da 10 a 13 al giorno.

La terza, l’assolutizzazione delle organizzazioni popolari. Nella sua lettera pastorale del 1978, le aveva difese in modo sorprendente per un esponente della gerarchia della Chiesa, in quanto le organizzazioni avevano contro tutti i poteri, e parte della gerarchia. In questa lettera, egli pone l’accento sul servizio offerto dalla Chiesa alle organizzazioni, ma avvertendole anche rispetto a limiti e rischi: non cadere nell’idolatria che si esprime nel settarismo, nel mettere l’organizzazione al di sopra del popolo, nella manipolazione della religione.

c) Ha affrontato anche altri gravi problemi, come la violenza, la quale poteva arrivare ad essere legittima, ma era storicamente fonte di innumerevoli mali. E ha proposto vie di soluzione, come il dialogo, non solo in ragione della sua bontà astratta, ma sulla base della sua urgente necessità storica. E da tutto ciò ha tratto una conclusione di grande novità e audacia per la Chiesa: la pastorale di accompagnamento al popolo, sofferente, combattivo e pieno di speranza.

Queste lettere pastorali sono oggi benefiche e necessarie.

2. IL SUO ULTIMO DISCORSO. MONSIGNORE, SACERDOTE E TEOLOGO DEI POVERI

Lo esprime bene ciò che ha detto a Lovanio nel suo discorso per il conferimento della laurea honoris causa il 2 febbraio 1980. Ma dobbiamo partire da tre anni prima. La settimana successiva all’assassinio di Rutilio, nelle riunioni del clero, sacerdoti e religiose avevano proposto di celebrare, il giorno del funerale, una messa unica nella piazza della cattedrale per mostrare la compattezza della Chiesa, il suo rifiuto, la sua speranza e il suo impegno. Monsignore nutriva solo una difficoltà, che aveva esposto con semplicità e chiarezza: «Il sacrificio della messa rende gloria a Dio. Chiudere le chiese la domenica non significherà ridurre questa gloria?”. Con la stessa semplicità e chiarezza, un sacerdote aveva detto: «Monsignore, se non sbaglio, un padre della Chiesa – si riferiva a sant’Ireneo – disse che “la gloria di Dio è l’essere umano che vive”». Gloria Dei vivens homo. Monsignore si era sentito rassicurato nel suo spirito e aveva celebrato la messa unica con decisione ed entusiasmo. Tre anni dopo, mons. Romero disse a Lovanio: «La gloria di Dio è il povero che vive». Gloria Dei vivens pauper. Egli ha posto in parola teologica il nocciolo di quella che era giorno dopo giorno la sua prassi storica.

Nessuno ha parlato dei poveri come Monsignore. E pochi li hanno amati come lui.

3. LA SUA ULTIMA OMELIA IN CATTEDRALE. MONSIGNORE, ALLO STESSO TEMPO, UOMO DI DIO E DEL POPOLO SOFFERENTE

Sono ben note le parole finali della sua ultima omelia in cattedrale: «Cessi la repressione!». Risuonò l’applauso più scrosciante in tre anni. Le parole non necessitano commenti. Voglio solo soffermarmi sull’argomentazione di Monsignore: mettere insieme Dio e il popolo sofferente.

Egli ha ordinato ai soldati di “smettere di uccidere” perché bisogna obbedire alla legge di Dio, ma prima ha lanciato il suo indifeso e commovente appello: «Siete del nostro stesso popolo, uccidete i vostri stessi fratelli». E ha concluso intimando senza argomentare in alcun modo: «In nome di Dio, allora, e in nome di questo popolo sofferente i cui lamenti salgono fino al cielo ogni giorno più tumultuosi, vi prego, vi ordino, in nome di Dio, cessi la repressione!».

Per Monsignore in Dio vi è ultimità trascendente totale. E nel popolo sofferente vi è ultimità storica: i suoi lamenti. I lamenti di quelli che soffrono salgono fino al cielo. E Dio esce dal suo cielo per ascoltarli.

Aveva ragione Ellacuría: «Su due pilastri poggiava mons. Romero la sua speranza: un pilastro storico, che era la sua conoscenza del popolo… e un pilastro trascendente, che era la sua convinzione che in termini ultimi Dio è un Dio di vita e non di morte, che l’ultima parola della realtà è il bene e non il male».

Don Pedro Casaldáliga è solito dire: «Tutto è relativo meno Dio e la fame». Per Monsignore l’ultimità è unificata: «Dio e il popolo sofferente».

4. IL SUO ULTIMO RITIRO SPIRITUALE.

MONSIGNORE, SOLO DINANZI A DIO

Un mese prima di venire assassinato, mons. Romero ha iniziato un diario, il 25 febbraio, con i suoi appunti degli esercizi spirituali. In essi apre la sua anima a Dio, comunicandolo al suo padre spirituale, Segundo Azcue. Scrive su tre cose, per quanto in ordine diverso da quello che riportiamo qui. È un testo commovente e particolarmente importante per conoscere il meglio possibile mons. Romero a partire a quello che più lo preoccupava.

a) «Mi costa accettare una morte violenta che in queste circostanze è assai possibile». Lo scrive solo dinanzi a Dio, ma in quegli ultimi giorni parlava anche pubblicamente della sua morte. «Sono stato frequentemente minacciato di morte. Devo dire che, come cristiano, non credo nella morte senza resurrezione. Se mi uccidono, risorgerò nel popolo salvadoregno. Lo dico senza nessuna arroganza, con la più grande umiltà. Come pastore sono obbligato per mandato divino a dare la vita per coloro che amo, che sono tutti i salvadoregni, anche quelli che potrebbero uccidermi. Se le minacce arrivassero a compiersi, già da ora offro a Dio il mio sangue per la redenzione e la resurrezione di El Salvador». Parole di totale nudità spirituale.

b) Ha parlato con il padre Azcue anche della sua «situazione conflittuale con gli altri vescovi». Il problema era sufficientemente noto. Con l’eccezione di mons. Rivera, i vescovi erano tutti contro di lui. Nel 1978 avevano scritto una lettera pastorale sulle organizzazioni popolari, contraria a quella di mons. Romero e di mons. Rivera. Meno note sono state le sue difficoltà con il Vaticano, ma alla Congregazione per i vescovi volevano destituirlo dalla carica di arcivescovo. Dalla sua prima visita a Giovanni Paolo II (7 maggio 1979) era uscito deluso e triste, anche se nella sua seconda visita (30 gennaio 1980) sentì comprensione e affetto. Anni prima lo aveva reso felice l’incontro con Paolo VI. “Coraggio”, gli aveva detto il papa.

Ricordiamo tutto ciò perché rivela quanto spesso mons. Romero sia stato solo dinanzi a Dio, sebbene a Roma avesse trovato anche consolazione e consiglio nel padre Arrupe e nel cardinal Pironio. Mons. Romero si sarà chiesto e avrà chiesto a Dio: «Signore, e la tua Chiesa?».

c) Quello che più mi ha sorpreso è stato leggere il suo proposito: «non essere in generale tanto meticoloso come prima con la mia vita spirituale». È commovente. Va oltre la psicologia e credo tocchi una corda di grande finezza di fronte al mistero di Dio. Pochi giorni dopo aver scritto queste parole, disse nella sua omelia domenicale: «Chi mi avrebbe detto, amati fratello, che il frutto di questa predicazione di oggi fosse che ciascuno di noi si recasse all’incontro con Dio e vivesse la gioia della sua maestà e della nostra piccolezza» (10 febbraio 1980).

Nel corso della sua vita, mons. Romero si è andato impregnando di Dio. È morto impregnato di Dio.

5. UNA VITA CHE DÀ SPERANZA

Così vediamo Monsignore a partire dai suoi ultimi giorni: uomo dei poveri, uomo del suo popolo sofferente, uomo di Dio.

Altri lo hanno detto meglio e con meno parole. Un contadino, quando gli chiesero chi fu mons. Romero, ha risposto all’istante: «Monsignore ha detto la verità. Ha difeso noi poveri. E per questo lo hanno ucciso». Il libro di María López Vigil Piezas para un retrato finisce con la storia di un mendicante che puliva con uno straccio l’antica tomba di Monsignore nella cripta della cattedrale. Alla domanda sul perché lo stesse facendo, il mendicante rispose: «Perché lui era mio padre». E spiegò: «Non sono che un povero. A volte porto un carretto al mercato, altre chiedo l’elemosina e altre ancora spendo tutto in alcol e me ne resto buttato per strada. Ma sempre mi faccio coraggio. Ho avuto un padre! Perché per quelli come me si doveva vedere quanto amore aveva. Per questo gli pulisco la tomba. Mi ha fatto sentire persona».

Ricordano Monsignore in vita. Come Marco, proclamano che mons. Romero è «una buona novella». «Con lui Dio passò per El Salvador”, ha detto padre Ellacuría.

Abbiamo parlato di mons. Romero più a partire dalla fine della sua vita e la riflessione può apparire cupa. Ma anche dal finale Monsignore offre speranza. Jürgen Moltmann, il teologo del Dio crocifisso, ha scritto: «Non ogni vita è motivo di speranza, ma sì lo è quella che per amore ha preso su di sé la croce».

Così è stata la vita di Monsignore. Dà speranza vederlo camminare con il suo popolo e ascoltare le sue omelie in cattedrale. E dà speranza il suo martirio.

Articolo tratto da
ADISTA
La redazione di ADISTA si trova in via Acciaioli n.7 - 00186 Roma Telefono +39 06 686.86.92 +39 06 688.019.24 Fax +39 06 686.58.98 E-mail info@adista.it Sito www.adista.it



Martedì 10 Aprile,2012 Ore: 17:23
 
 
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