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MONSIGNORE, IL CASO GESUITI E LA SPERANZA

di Jon Sobrino


Una riflessione, in occasione dei 94 anni dalla nascita di Oscar Romero, sulla violenza nel mondo. Da Adista n. 72 2011


Il 15 agosto scorso monsignor Romero avrebbe compiuto 94 anni e il suo compleanno coincide con lo scompiglio provocato dal “caso gesuiti”. (...).

Ricordiamo ora Monsignore per collocarci di fronte a questo scompiglio nel miglior modo possibile. Monsignore continua ad offrire stimoli lucidi e vigorosi per camminare verso la verità, praticare la giustizia e coltivare speranza. Sono stimoli estremamente utili per affrontare il “caso gesuiti”, e soprattutto per sanare la deplorevole situazione in cui viviamo.

1. LE FERITE NON SONO STATE RICHIUSE

L’assassinio dei gesuiti, di Julia Elba e di Celina è un simbolo di innumerevoli assassinii negli anni ’70 e ’80. Nel 1981 ebbe inizio una crudele guerra tra due eserciti. Ma prima, negli anni ‘70, ebbe luogo una spietata e unilaterale repressione contro il popolo da parte dell’oligarchia, dei governi, dei corpi di sicurezza e degli squadroni della morte, e non bisogna dimenticarlo. Praticamente tutto resta impunito. Gli accordi di pace furono necessari per porre fine alla guerra, ma non vi né volontà né tempo per affrontare la radice del problema: l’ingiustizia di secoli, strutturale. L’amnistia fu anch’essa necessaria per rendere possibile un minimo di convivenza, ma fu affrettata nei tempi e soprattutto nella prospettiva: non vennero seriamente perseguiti cammini di riconciliazione. Né essa favorì una riparazione affinché i familiari delle vittime, nella loro immensa maggioranza persone povere, del popolo, potessero ricostruirsi la vita. E nemmeno fece scomparire la cultura dell’impunità, piuttosto la rafforzò. Per secoli i potenti sono stati praticamente intoccabili. E così continua ad essere.

Il Nuovo Testamento dice che «l’attaccamento al denaro è la radice di tutti i mali». Oggi bisogna insistere in El Salvador che “l’impunità”, insieme a tale attaccamento, è la radice principale della violenza, dell’ingiustizia, della menzogna e della corruzione. E bisogna insistere sulla responsabilità specifica della Corte Suprema di Giustizia. Lo facciamo a partire da Monsignore.

Non c’è stata pacificazione e non c’è pace

È finito il conflitto bellico, ma non la violenza di massa. L’omicidio impera. Da anni si registrano tra i 10 e i 12 omicidi al giorno. Secondo notizie di stampa, questo luglio sono stati commessi 70 omicidi più che nel luglio dell’anno passato; quest’anno finora sono stati assassinati 93 studenti; una settimana fa si leggeva: «forte crescita di omicidi»; oggi si legge: «40 assassinii in 36 ore». (…).

Si registrano passi avanti in progetti concreti di beneficio sociale e tentativi di frenare la violenza, ma a prevalere è l’incapacità, l’incompetenza – a volte la connivenza – per porvi fine. E non facilita affatto il compito una assai lunga tradizione: nessuno dei poteri pubblici ha preso sul serio la violenza e l’impunità.

Inoltre, nel loro insieme, pur con qualche eccezione, i partiti, i mezzi di comunicazione, l’impresa privata, le banche non muoiono di interesse – per usare un eufemismo – per sradicare la violenza e gli omicidi. E bisogna anche chiedersi se muoiano di interesse altre importanti forze sociali, le università e anche le Chiese che tanto hanno proliferato, per quanto normalmente il loro peccato sia quello di omissione.

Sostenere che il processo ai militari può mettere a repentaglio il processo di pacificazione è una manifesta menzogna, poiché non esiste tale pace. Ciò che bisogna praticare è l’onestà nei confronti della realtà. Per questa ragione, iniziamo con questa citazione di Monsignore. «Gli assassinii, le torture che colpiscono tante persone, il fare a pezzi e gettare in mare. Questo è l’impero dell’inferno» (1 luglio 1979).

La pax romana, la eirene greca, lo shalom della Bibbia

Oltre che della denuncia della violenza attuale, oggi si ha bisogno di un minimo di analisi di ciò che si intende per “pace”, affinché la parola non venga usata, in definitiva, per non affrontare altre realtà più primigenie: la giustizia e l’ingiustizia. Vediamolo a partire dalla visione e dalla convinzione di Monsignore.

A Natale cantiamo «pace in terra agli uomini di buona volontà». L’evangelista Luca scriveva in greco, e per parlare di “pace” usava la parola eirene, che significa assenza di violenza e di guerra. Oggi, in senso stretto, in El Salvador non c’è più violenza bellica, ma la eirene greca non esiste in alcun modo. Vi sono migliaia di omicidi.

Un passo ulteriore. San Luca usa la parola eirene, ma ciò che aveva in mente, parlando di “pace”, era lo shalom della Bibbia: la vita in comune degli esseri umani basata sulla giustizia e la verità, sulla solidarietà e la riconciliazione. In essa i poveri e le vittime arrivano ad avere, realmente, carta di cittadinanza. E in essa la pace dà frutti di fraternità e di gioia. Isaia usa una formula densa: «La pace è frutto della giustizia», su cui ha insistito Paolo VI. E Monsignore così dice nell’omelia del 31 dicembre 1977: «una pace che si costruisce nella giustizia, nell’amore e nella bontà». Il salmo lo formula magnificamente: «giustizia e pace si baceranno».

La pace shalom non esiste certamente nel Paese, e senza averla presente e lavorare per essa sarebbe semplicistico invocare la pace come ciò che va salvaguardato al di sopra di tutto, come suole avvenire, in maniera interessata, in ambito politico e, a volte ingenuamente, in ambito ecclesiastico. Non bisogna cadere nel’assurdo dell’antico adagio fiat iustitia et pereat mundus, «sia fatta giustizia e il mondo vada pure in rovina», il motto di Fernando I d’Asburgo, imperatore del Sacro Romano Impero nel XVI secolo. Ma senza shalom non c’è pace duratura né degna degli esseri umani. Con lo shalom, la giustizia non manderà in rovina il mondo; al contrario, il mondo si umanizzerà. Senza lo shalom, l’amnistia non produce il bene, insabbia solo il male. Monsignore lo vide con lucidità, per quanto nella prospettiva non di un’amnistia dopo la guerra, che è quello di cui si parla oggi, ma del dialogo per porre fine ad essa di cui si parlava ai suoi tempi: «Ma neppure questo dialogo servirà per ristabilire la pace anelata se non esiste la volontà salda di trasformare le ingiuste strutture della società. Solo questa trasformazione sarà in grado di eliminare le violenze concrete oppressive, repressive o spontanee. Altrimenti, come hanno detto i vescovi latinoamericani, la violenza si istituzionalizza e i suoi frutti non si fanno attendere. La Chiesa crede nella pace; ma sa molto bene che la pace non è assenza di violenza, né si ottiene con la violenza repressiva. La vera pace giunge solo come frutto della giustizia» (omelia dell’1 aprile 1978).

No alla pax romana, e no alla eirene greca assolutizzata. Ciò di cui parlava Monsignore era lo shalom, a cui faceva importante riferimento la «trasformazione delle strutture ingiuste».

Quello che conosciamo nel Paese, purtroppo, è la pax romana, l’assoggettamento impotente e rassegnato che imponeva l’impero romano a popoli interi, e che sempre impongono gli imperi, militari ed economici, nel corso della storia. Dominò in El Salvador, certamente finché i contadini, insieme a studenti, operai, sacerdoti, non presero coscienza e si organizzarono. Lo intese bene monsignor Romero, e se ne rallegrò. Per quanto con ambiguità, pericoli e peccati, vide che la loro necessità e la loro potenzialità di costruire shalom erano superiori. Come credente, scrisse che la crescita delle organizzazioni popolari era “un segno dei tempi”, luogo della volontà e dei piani di Dio.

Per tutto ciò, quelli che ora ripetono «pace, pace, pace» dovrebbero chiedersi se non ricada su di loro in qualche modo la recriminazione di Geremia: «Non confidate nelle parole menzognere di coloro che dicono: Tempio del Signore, tempio del Signore, tempio del Signore è questo! Poiché, se veramente emenderete la vostra condotta e le vostre azioni…; se non opprimerete lo straniero, l'orfano e la vedova, se non spargerete il sangue innocente in questo luogo e se non seguirete per vostra disgrazia altri dei, io vi farò abitare in questo luogo, nel paese che diedi ai vostri padri da lungo tempo e per sempre» (Ger 7, 3-7). Altrimenti, invocare il tempio - o la pace - è un autoinganno.

Altre forme dell’attuale violenza. Fame ed emigrazione

L’emigrazione è cresciuta dalla firma degli accordi di pace. Configura la realtà del Paese, di sicuro l’economia. Colpisce, a volte fino a dissolverla o smembrarla, la famiglia. E per molti diventa tristemente l’unica speranza, una tavola a cui aggrapparsi per non annegare, soprattutto per i giovani. Il capitale, senza misericordia, continua ad opprimere le maggioranze, e produce povertà, «morte lenta» era chiamata in tempi di linguaggio forte. Non pone fine alla denutrizione e alla fame, e i poveri non trovano altra soluzione che partire. In se stessa l’emigrazione è piena di crudeltà.

Monsignore lo denuncerebbe. E oggi denuncerebbe vigorosamente e ripetutamente la fame in Somalia, i responsabili diretti e la cosiddetta comunità internazionale, che non ha volontà politica, cioè non ha volontà umana, cioè non ha volontà, di eliminare la fame. Più che numeri e parole, producono orrore le fotografie di bambini denutriti e moribondi e delle loro madri disperate o impavide, senza energia neppure per il lamento e la protesta. La carestia ha falcidiato le vite di decine di migliaia di bambini e altre decine di migliaia si trovano in imminente pericolo di morte. Andrew Edwards, portavoce dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, impedisce anche solo un ottimismo moderato: «Non commettiamo l’errore di credere che il peggio sia passato. Questa crisi prosegue con spostamenti di massa, rischi di propagazione di malattie, sovraffollamento negli accampamenti e situazioni che sfuggono ai lavoratori umanitari sul terreno». Al momento della verità, la Somalia scompare. È stata forse centralmente presente a Madrid? Oggi p. Ellacuría parlerebbe della Somalia e ripeterebbe le sue note metafore. La Somalia è come uno specchio rovesciato in cui il primo mondo si vede com’è in realtà. È la materia fecale che appare nell’analisi coprologica di questo primo mondo.

Altre ferite aperte

La negligenza di molte istituzioni rispetto al compito di porre fine alla morte rapida della violenza e alla morte lenta della fame, al di là delle buone intenzioni degli individui. La cecità di fronte all’evidenza, promossa dai potenti in connivenza con i mezzi di comunicazione, con notevoli eccezioni, a volte audaci. La tergiversazione iniqua di cui sono oggetto le vittime. Negli anni ’70 e ’80 vennero chiamati terroristi o complici di terroristi gli innocenti e indifesi contadini dei massacri del Sumpul e del Mozote. Di Monsignore si diceva che aveva «venduto l’anima al diavolo». Vi fu persino un vescovo che, di fronte a Giovanni Paolo II, disse che Monsignore – lui, morto innocente e senza difese – era stato il responsabile di 70.000 morti. In questi giorni del “caso gesuiti”, ricordiamo che essi furono accusati di essere responsabili del terrorismo. E quelli che, secondo seri indizi e testimonianze, furono i loro carnefici oggi vengono fatti passare per vittime. Il disprezzo per i familiari delle vittime e il prendersi gioco del loro dolore. I familiari continuano ad esigere che i militari vengano processati. Lo fanno di fronte alle migliaia di nomi delle vittime del Monumento alla Memoria storica nel parco Cuscatlán, con la scritta Verità, Giustizia, Riparazione. Anche i familiari dei militari accusati hanno protestato di fronte all’ambasciata spagnola. Soffrono ed è nel loro diritto protestare. Ma non soffrono il disprezzo che soffrono i poveri. Così come l’inutilità di dire la verità e di argomentare con essa (…).

2. LA DENUNCIA A PARTIRE DAL POPOLO CROCIFISSO

«Questo è il popolo crocifisso». Un popolo così oppresso, represso e disprezzato mons. Romero lo chiamò «il divino trafitto». E Ignacio Ellacuría, senza incertezze né distinzioni, affermò che «questo popolo crocifisso è il segno dei tempi». Per entrambi era la presenza del servo di Jahvé, del Figlio di Dio. In esso irrompe Dio. La conclusione fu di «deporlo dalla croce», caricandoci noi del peso di questo popolo crocifisso. E, secondo la follia cristiana, lasciandoci prendere in carico da esso e ricevendone la salvezza.

Senza cadere nel masochismo e tanto meno nell’autoinganno, Ellacuría insisteva scandalosamente sul fatto che il popolo crocifisso è “sempre” il segno dei tempi. Anche dopo gli accordi di pace, le maggioranze vivono nell’imminenza della croce. Oggi esistono altri problemi nel Paese e vi sono stati alcuni passi avanti e buone idee in politica sociale. Ma è poco in confronto a quanto abbiamo visto. Il popolo continua ad essere oppresso, maltrattato e offeso. Senza guardarlo in faccia non si può conoscere la realtà del nostro mondo né credere nel Dio che si fa presente in esso.

Le radici di queste croci

Monsignore denunciò, ma è importante evidenziare che analizzò anche le radici di queste croci. E iniziò con la ricchezza. «Io denuncio, soprattutto, l’assolutizzazione della ricchezza, questo è il grande male di El Salvador: la ricchezza, la proprietà privata, come un assoluto intoccabile». È la radice di molti mali: «Guai a chi tocca questo filo di alta tensione! Si brucia» (12 agosto 1979). Ed è principio di degradazione sociale: «rubare sta diventando facile e chi non ruba viene considerato uno stupido» (18 marzo 1979). Denunciò la falsità: siamo «in un mondo di menzogne», e la degradazione che produce: «nessuno crede più in niente» (18 marzo 1979). Denunciò il disprezzo nei confronti del popolo: «ci si prende gioco dei popoli, ci si prende gioco delle elezioni, ci si prende gioco della dignità degli esseri umani» (11 marzo 1979). Considerando tutto nel suo insieme, sentenziò: «la situazione è triste» (24 giugno 1979). «Questo è l’impero dell’inferno».

Il pathos – passione con lucidità e libertà - di Monsignore nell’analizzare la realtà continua ad essere necessario. Non è facile che appaia un altro Monsignore, ma bisogna piangere la sua perdita e non scendere a patti con la sua assenza né collocarsi nel politicamente o ecclesiasticamente corretto. Bisogna andare alla radice, e per questo il pathos di Monsignore fu potente. Denunciò la corruzione in tutti gli ambiti della società, ma lo fece sempre nel contesto fondamentale, che, come cristiano, espresse a partire da Dio: «Il sangue, la morte, toccano il cuore stesso di Dio» (16 marzo 1980). È l’abominio radicale.

La Corte Suprema di Giustizia

Molto di quello che abbiamo detto è tornato alla luce a proposito del “caso gesuiti”. E, per la natura della questione, anche il problema dell’amministrazione della giustizia. In questo contesto ricordiamo due cose di Monsignore.

La prima è che l’amministrazione della giustizia spesso ha poco o nulla di imparziale, come la donna dagli occhi bendati. Nel nostro Paese – e in altri – suole tenere gli occhi aperti per favorire ricchi e potenti. Monsignore lo disse con una frase geniale, che aveva sentito da un contadino: «La legge è come il serpente. Morde solo chi è scalzo». La legge, la sua amministrazione, il suo funzionamento, a causa di condizionamenti materiali e storici – non solo della debolezza etica, frequente nelle persone –, lungi dall’essere imparziali, storicamente sono parziali a favore del potente e contro il povero, in alcuni luoghi più e in altri meno. E avviene come per necessità, poiché questo tipo di parzialità è giunto a diventare una specie di seconda natura dell’amministrazione della giustizia.

Monsignore condannò questa parzialità a favore del potente, esigendo non solo imparzialità, ma un’altra parzialità più inclusiva e più divina. «Dio è direttamente a favore del povero». Questa  parzialità  trascendente deve configurare tutta la storia degli esseri umani, il sapere, lo sperare, il fare e il celebrare. Per quanto difficile possa sembrare – e anche assurdo – lo “spirito” di questa parzialità deve impregnare la “lettera” della legge e della sua amministrazione. Così, penso io, vedeva Monsignore l’amministrazione della giustizia, così come era sorta nell’antica Israele. «L’atteso re giusto è quello che renderà giustizia al povero. Senza questo re parziale, i poveri saranno più facilmente vittime dei potenti».

La seconda cosa riguarda la Corte Suprema di Giustizia. Negli ultimi mesi aveva generato la speranza di un comportamento autonomo e giusto, avendo dichiarato incostituzionali diverse azioni di privati, dell’Assemblea e dell’esecutivo. Ma le speranze sono sfumate con il decreto 743 (che lega le mani alla Corte Costituzionale, obbligando i suoi giudici a emettere sentenze di incostituzionalità all’unanimità, ndt), approvato dall’Assemblea e firmato dal presidente dell’esecutivo.

Per quanto la situazione non sia la stessa, possiamo apprendere molto oggi da mons. Romero. Il 30 aprile 1978 parlò chiaramente e duramente contro la Corte Suprema di Giustizia. Alcune domeniche prima aveva denunciato nella sua omelia che vi erano «giudici che si vendono» - in effetti abbondavano. La Corte Suprema, ipocritamente, gli chiese di fare i nomi di tali «giudici venali». Nella sua omelia, Monsignore rispose con legale precisione: egli non aveva parlato di «giudici venali», ma di «giudici che si vendono» e aggiunse che non era responsabilità sua ma della Corte verificare chi fossero tali giudici. Si concentrò però sul punto fondamentale, che in buona misura è valido anche oggi: «Che fa la Corte Suprema di Giustizia? Dov’è il ruolo, centrale in una democrazia, di questo potere che dovrebbe stare al di sopra di tutti i poteri e reclamare giustizia contro chiunque la calpesti? Io credo che gran parte del malessere della nostra patria abbia lì la sua chiave principale, nel presidente e in tutti i collaboratori della Corte Suprema di Giustizia, che con più integrità dovrebbero esigere dalle camere, dai tribunali, dai giudici, da tutti gli amministratori questa parola sacrosanta, la giustizia, che siano realmente agenti di giustizia».

Con la Costituzione alla mano, enumerò i diritti conculcati. E concluse: «Questa Onorevole Corte non ha rimediato a queste situazioni, tanto contrarie alle libertà pubbliche e ai diritti umani, la cui difesa costituisce la sua più alta missione. Succede, allora, che i diritti fondamentali del salvadoregno siano quotidianamente calpestati, senza che alcuna istituzione denunci gli abusi e proceda sinceramente ed effettivamente a sanarli».

Oggi denuncerebbe omicidi, denutrizione, fame. E criticherebbe la Corte Suprema di Giustizia per il fatto che molte vittime e i loro familiari devono inghiottire il proprio dolore senza neppure essere ascoltati. Questi giorni molti hanno avuto l’assoluta convinzione che i militari accusati nel “caso gesuiti” non sarebbero stati estradati. E questa convinzione non era basata su argomenti, ma su un a priori: hanno molto potere. E così è avvenuto. E pensiamo che la gerarchia non dovrebbe sottoscrivere precipitosamente le sentenze della Corte, tante volte torbide. E ci costa credere che il vescovo castrense abbia celebrato nella scuola militare una messa di ringraziamento per il fatto che i militari non sono stati estradati.

3. IL MONSIGNORE CREDENTE: DIO E LA SPERANZA

Non si può conoscere a fondo Monsignore senza aver presente il suo Dio e come il suo mistero ci umanizza. Basti citare queste parole pronunciate, sei settimane prima di essere assassinato, in mezzo alla tragedia del Paese: «Nessun uomo conosce se stesso finché non si è incontrato con Dio… Chi mi avrebbe detto, cari fratelli, che il frutto di questa predicazione sarebbe stato che ciascuno di noi andasse all’incontro di Dio e vivesse la gioia della sua maestà e della nostra piccolezza!» (10 febbraio 1980).

Da questa esperienza Monsignore poté parlare con assoluta convinzione di cose di cui non si suole parlare molto e che, tuttavia, appaiono centrali nel caso dei gesuiti: la conversione, il perdono, le vittime e i martiri… E poté parlare della speranza, cosa che, in generale, nessuno fa oggi, né nella società né nella Chiesa, né in El Salvador né in Vaticano. Ne parlò, invece, Monsignore. «Faranno ritorno i desaparecidos. Il sangue versato non sarà stato invano». Pensando alle sofferenze dei nostri giorni, ricordiamo queste sue parole: «E verrà il momento in cui non ci saranno più sequestri e ci sarà felicità e potremo uscire in strada e nei campi senza il timore che ci torturino e ci sequestrino. Verrà questo momento!... Per me, questo è l’onore più grande della missione che il Signore mi ha affidato: conservare questa speranza e questa fede nel popolo di Dio (omelia del 2 settembre 1979)

Monsignore annunciò la speranza e le sue parole possono venire solo dall’alto: «Sopra queste rovine splenderà la gloria del Signore» (7 gennaio 1979). E se qualcuno domanda cosa sia questa gloria del Signore, Monsignore risponderà: «La gloria di Dio è la vita del povero», «Gloria Dei vivens pauper».



Marted́ 04 Ottobre,2011 Ore: 15:14
 
 
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