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I RAPPORTI FRA PAOLO VI E OSCAR ROMERO

Sintesi della relazione tenuta alla settimana montiniana a Concesio (BS) il 5 Ottobre 2010 dal prof. Anselmo Palini. A cura di Carlo Castellini.


ANSELMO PALINI SUI SENTIERI DELLA PROFEZIA E DELL'UTOPIA IN COMPAGNIA DI GIOVANNI BATTISTA MONTINI, DIVENUTO PAPA PAOLO VI E MONS. OSCAR ARNULFO ROMERO, VESCOVO DI SAN SALVADOR, ASSASSINATO IL 24 MARZO 1980 E MORTO MARTIRE PER IL SUO POPOLO. (DI CARLO CASTELLINI).

Quella sera, dell 5 ottobre 2010, a COSTORIO, frazione di CONCESIO, paese natale di PAOLO VI,ero arrivato in ritardo. Mi sarebbe spiaciuto mancare. Sono comunque entrato nel piccolo saloncino del Teatro Parrocchiale, già gremito, per l'occasione, dove un pubblico attento e silenzioso, stava ascoltando la relazione del prof. ANSELMO PALINI, coadiuvato dalla speaker e docente di Lettere ENRICA RIZZINI.

Dalle prime battute, sono entrato subito in sintonia con il tema, poichè il prof. PALINI stava illustrando un testo attribuito a PAOLO VI, nel quale il papa bresciano, sembrava volesse giustificare l'uso delle armi, a scopo di difesa, di fronte ad una situazione generalizzata di soprusi, di angherie e ingiustizie che venivano perpetrate, dalle autorità politiche e militari al governo, a danno dei poveri e dei deboli di alcune regioni dell'AMERICA LATINA, in modo particolare nella piccola repubblica di SAN SALVADOR, di cui ROMERO era divenuto punto di riferimento.

La cosa divenne più chiara per tutti qu ando il pubblico venne informato che si trattava della piccola repubblica di SAN SALVADOR, denominata per le sue dimensioni “EL PULGARCITO”, il Pollicino d'America. La tensione, spiegava il relatore, era culminata, dopo lunghi anni di lotta e di resistenza da parte dei poveri e dei contadini, nell'assassinio di MONS. OSCAR ARNULFO ROMERO, avvenuto il 24 Marzo 1980.

L'iniziativa della serata aveva preso forma nell'ambito delle serate montiniane, che CONCESIO ha dedicato quest'anno, al ricordo, alla conoscenza e approfondimento della personalità del suo illustre concittadino GIOVANNI BATTISTA MONTINI.

Ma l' interessante novità è stata quella di collegare la figura del papa bresciano, a quella di Mons. ROMERO, vescovo incarnato con la storia del suo popolo.

In questo senso la relazione, bella e corposa, non ha stufato ma ha tenuto alta l'attenzione dall'inizio alla fine, con letture adeguate ed immagini documentarie. Che sono diventate col tempo, patrimonio di una cultura collettiva condivisa. In questa maniera piuttosto nuova per un conferenziere, questo giovane ricercatore e storico valtrumplino, procede convinto e spedito, alla ricerca di figure significative, che si sono distinte per la loro testimonianza umana e cristiana, sia all'interno della chiesa che nei cofnronti della società civile.

E di questa fatica di ricerca documentaria va dato atto al prof. ANSELMO, poichè nella prima decade di novembre dovrebbe uscire un suo nuovo libro dal titolo:”HO UDITO IL GRIDO DEL MIO POPOLO”, Editrice AVE,novembre 2010, prefazione di MAURIZIO CHIERICI, giornalista del CORRIERE DELLA SERA, già inviato in AMERICA LATINA, dove ha conosciuto e intervistato MONS. ROMERO.

La sua ricerca quindi contribuisce a far conoscere significative figure di primo piano che possono illuminare le menti e scuotere le coscienze rattrappite e impigrite dalla civiltà consumistica.

Figure che altrimenti resterebbero dentro pagine di libri intonsi che rimangono per troppo tempo sugli scaffali polverosi, di biblioteche civiche e seminariali.

Per questo ospitiamo sul nostro sito la relazione del ptof. ANSELMO che riassumiamo nel sommario attraverso I titoli più significativi dei suoi capitoletti essenziali. (CARLO CASTELLINI).


 
Sintesi della relazione tenuta alla settimana montiniana a Concesio (BS)
5 Ottobre 2010
I RAPPORTI FRA PAOLO VI  E OSCAR ROMERO
di Anselmo Palini*
La relazione di questa sera, sui rapporti fra Paolo VI e Oscar Romero, mi è stata possibile grazie agli studi e alle ricerche che ho svolto in questo anno sulla figura e sul pensiero del vescovo salvadoregno, Oscar Arnulfo Romero, assassinato mentre celebrava la Santa Messa da uno squadrone della morte al soldo dell’oligarchia economica che controllava il Paese centroamericano e che non sopportava più le sue denunce. Questo lavoro su Oscar Romero è diventato un libro che uscirà, sempre a novembre. Con questo libro proseguo nel mio cammino di riscoperta e di riproposizione della vita e del pensiero dei testimoni di pace e di nonviolenza, soprattutto del Novecento, un secolo caratterizzato da guerre e genocidi. E un percorso che sto facendo con l’editrice Ave di Roma, l’editrice dell’Azione Cattolica, un’editrice che ha oltre settant’anni di vita e che non solo da oggi ha superato gli ambiti dell’associazione di riferimento per pubblicare anche testi di saggistica, di educazione politica e di cultura in genere.
Questa sera naturalmente non presento il libro su Oscar Romero e neppure mi soffermerò a tratteggiare tutti i vari aspetti di questo straordinario testimone di pace, di fede e di libertà, ma illustrerò in particolare i rapporti che Oscar Romero, soprattutto da vescovo e da arcivescovo, ha avuto con Paolo VI. Si è trattato, come vedremo, di un rapporto che per Romero è stato assolutamente importante e significativo per il vescovo di San Salvador.
Parlare del rapporto fra Romero e Paolo Vi significa situarsi nel cuore del tema che quest’anno la settimana montiniana vuole affrontare, ossia quello dei diritti umani e del discorso di Paolo VI all’Onu, tenuto il 4 ottobre 1965. Romero è stato assassinato proprio perché intendeva difendere i diritti umani in Salvador, i diritti del popolo, in particolare quelli della povera gente, dei contadini sindacalizzati, degli operai.
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Coniugato, tre figli, Anselmo Palini vive e lavora in provincia di Brescia. È docente di Materie Letterarie nella Scuola Superiore. Nei suoi studi ha approfondito soprattutto i temi della pace, dell’obiezione di coscienza, dei diritti umani. Più recentemente ha preso in esame le problematiche connesse con i totalitarismi nel XX secolo, ricercando in particolare le testimonianze di chi si è opposto a tali sistemi dittatoriali.
Tra i suoi libri: Le carte dei diritti, La Scuola, Brescia 2003; Testimoni della coscienza. Da Socrate ai nostri giorni, editrice Ave, Roma 2005 (seconda ristampa 2010), prefazione di Franco Cardini, premio Capri San Michele 2006 sezione Giovani; Voci di pace e di libertà. Nel secolo delle guerre e dei genocidi,Ave, Roma 2007, prefazione di Paolo Giuntella; Primo Mazzolari. Un uomo libero, Ave, Roma 2009 (prima ristampa 2010), con postfazione di mons. Loris Francesco Capovilla; Sui sentieri della profezia. I rapporti fra Giovanni Battista Montini-Paolo VI e Primo Mazzolari, Messaggero, Padova novembre 2010; Oscar Romero. “Ho udito il grido del mio popolo”, che uscirà per metà novembre 2010 con l’editrice Ave di Roma Ha pubblicato inoltre articoli, saggi e inserti su varie riviste.
Parte introduttiva
A - Il Salvador.
Prima di parlare dei rapporti fra Oscar Romero e Paolo VI è necessario conoscere almeno essenzialmente la vicenda biografica di Oscar Arnulfo Romero e alcuni aspetti della storia del suo Paese, El Salvador. Ci troviamo di fronte al più piccolo Paese dell’America Latina, chiamato per questo El Pulgarcito de América (Il Pollicino d’America).
La storia recente del Salvador si può far iniziare dal 1931 quando con un colpo di Stato (golpe) il generale Hernández-Martinez, sostenuto dall’oligarchia, depone il presidente Arturo Araujo, prende il potere e reprime con il pugno di ferro le rivolte popolari, come quella di indios e di contadini che, tra il 21 e il 22 gennaio 1932, viene guidata da Augustín Farabundo Martí, uno dei fondatori del Partito Comunista del Salvador. Lo stesso Martí viene arrestato e fucilato con tutto il comitato centrale del suo partito. Secondo i calcoli di vari storici, le vittime della repressione del 1932 oscillano tra un minimo di 12 mila e un massimo di 32 mila. Questo massacro verrà ricordato come la matanza de los comunistas
Da questo momento in Salvador comandano i generali e El Salvador diviene una “repubblica militare”. Fino al 1984 non vi saranno più elezioni libere e i presidenti saranno sempre espressione delle forze armate[1].
B - Notizie biografiche essenziali su Oscar Romero[2]
Oscar Arnulfo Romero nasce il 15 agosto 1917 a Ciudad Barrios, un paesino di mille abitanti posto in collina, a 900 metri sul livello del mare, nella provincia di San Miguel.
Dopo la scuola elementare e alcuni anni nel seminario della diocesi, dal 1937 al 1943 è a Roma, dove frequenta la Gregoriana. A 25 anni, il 4 aprile 1942, Oscar Romero è ordinato sacerdote. 
Questo periodo di studio e di formazione opera in Oscar Romero una sorta di “romanizzazione”, centrata su un’idea alta della funzione della Chiesa e sull’affermazione del primato dell’ecclesiale e dello spirituale. Gli studi romani sono per il giovane Romero occasione di formazione, non di ricerca teologica. E formazione significa fondamentalmente adesione al Magistero della Chiesa e svolgimento puntiglioso dei propri doveri di pietà religiosa. Cerca di coltivare l’amore piuttosto che la scienza. Gli interessi culturali del giovane studente salvadoregno riguardano in sostanza le modalità per il raggiungimento della perfezione cristiana e a ciò sono collegate le sue letture.  
Nell’agosto 1943 Oscar Romero lascia Roma e ritorna in Salvador, dove inizia a prestare servizio pastorale nella propria diocesi, quella di San Miguel.
Fino al 1967, dunque per ventiquattro anni, Romero rimane nella diocesi di San Miguel assumendo molti altri incarichi, oltre a quelli di segretario del vescovo e di parroco. Il Romero di San Miguel, in continuità con il periodo romano, si rifà per lo più alla tradizione. Le sue preoccupazioni riguardano in particolare la cura dei doveri spirituali e liturgici, la disciplina ecclesiastica, il contrasto alla diffusione del protestantesimo, la lotta contro i massoni, la denuncia del comunismo poiché vuole allontanare l’uomo da Dio. È intransigente con se stesso e con gli altri. Il tema della santità e quello del sacrificio sono ricorrenti nel Romero di questi anni. La figura sacerdotale da lui preferita è quella di Giovanni Maria Vianney, il santo curato d’Ars. Romero unisce ascesi e attivismo, secondo un antico ideale di perfezione cristiana. Ciò che lo impegna maggiormente è l’adempimento diligente e preciso dei suoi numerosi compiti ministeriali. Primero Dios, Dio prima di tutto: questo concetto, molto caro a Romero, esprime bene il suo pensiero di questi anni.
C - L’America Latina tra dittature militari e speranze alimentate dal Concilio
L’America Latina dagli anni Cinquanta-Sessanta e fino al termine degli anni Ottanta è caratterizzata da diffuse e brutali dittature militari.
Nell’ottobre 1960 a Cuba la rivoluzione castrista abbatte la dittatura. Negli Stati Uniti il 20 gennaio 1961 sale alla presidenza John Fitzgerald Kennedy che offre ai Paesi latino americani, per evitare che cadano sotto l’influenza cubana e sovietica, un programma di finanziamenti per 20 miliardi di dollari. Tra il 1961 e il 1965 si susseguono in America Latina, con il sostegno statunitense, sette golpe militari, compresi quelli in Brasile e in Argentina. Il Centroamerica e i Caraibi sono per gli Stati Uniti una sorta di “cortile di casa” (patio trasero), un’arteria strategica e commerciale di vitale importanza, anche per la presenza del canale di Panama. In queste zone non sono pertanto possibili presenze straniere e meno ancora regimi politici non coerenti con la politica e gli interessi statunitensi[3].
Siamo negli anni del Concilio (1962-1965) e della Conferenza di Medellin(1968), che cerca di applicare le novità conciliari all’America Latina: il riferimento per il Romero di tali anni è il Magistero di Paolo VI, capace di coniugare tradizione e modernità. Paolo VI per Romero è innanzitutto il Pontefice che ha il merito di portare a conclusione il Concilio. Negli anni del Concilio Romero è ancora fortemente attaccato alla tradizione e alla conservazione, ma sulla base della sua “romanità” e della sua assoluta adesione al Magistero, non può restare indifferente alle novità conciliari. Romero comprende gradualmente che il Concilio non serve a riaffermare solennemente degli orientamenti e delle condanne, ma a porre la Chiesa a confronto con tempi nuovi. Dalle abbondanti citazioni che egli fa di Paolo VI, si nota come si avveda lentamente di questo carattere del Concilio.
Il Paolo VI dei primi anni del pontificato, il Paolo VI che porta a conclusione il Concilio, il Paolo VI dell’Ecclesiam Suam (1964), della Populorum Progressio (1967), dei viaggi in Terrasanta (4-6 gennaio 1964), in India (2-5 dicembre 1964), alle Nazioni Unite (4-5 ottobre 1965), impone a Romero un ripensamento del proprio modo di pensare e di operare. Romero si accorge del “clima di primavera che si respira nella Chiesa postconciliare” e Paolo VI gli appare, per usare parole dell’arcivescovo di San Salvador, “il “Papa del dialogo”, il “leader della pace nel mondo”, il “pellegrino dell’amicizia tra i popoli”, “il profeta dello sviluppo sociale”, “l’autentico avvocato dei popoli poveri”. Paolo VI appare a Romero come il papa della continuità con la tradizione, ma nello stesso tempo si accorge di uno spirito nuovo che pervade il papato e la Chiesa, che non è più rinchiusa su se stessa, ma in confronto con il mondo.
Parte prima
La nomina a vescovo e l’incontro con Paolo VI. Le critiche ai gesuiti
Il 21 aprile 1970 Romero viene nominato vescovo. È il riconoscimento, da parte degli altri vescovi e del nunzio, del positivo lavoro da lui svolto come segretario della Conferenza Episcopale Salvadoregna e di quella dell’America Centrale. 
La cerimonia di consacrazione, preparata in tutti i particolari da padre Rutilio Grande, fraterno amico del nuovo vescovo, avviene in forma solenne il 21 giugno, alla presenza di tutte le autorità politiche e religiose del Paese. Anche l’oligarchia è presente al gran completo. Le autorità politiche e i potentati economici vedono di buon occhio la nomina di Romero, un vescovo tradizionalista che avrebbe portato avanti una pastorale puramente “spirituale”, non interessata ai problemi sociali e politici sempre più drammatici in Salvador. Il motto che Romero sceglie per il suo ministero episcopale è: Sentir con la Iglesia. È un programma di vita che sta a indicare un aspetto che Romero non abbandonerà mai, l’amore e l’attaccamento alla Chiesa. 
Il 15 ottobre 1974 Romero viene nominato vescovo di Santiago de Maria, una diocesi sorta da poco, la più piccola del Salvador, situata nella zona orientale del Paese
Per ringraziare il Papa della nomina, Romero ai primi di novembre del 1974 è a Roma, dove rimarrà per circa un mese. Nell’udienza del 23 novembre con Paolo VI, lunga e cordiale, Romero discute dei propri timori rispetto ad alcune interpretazioni del Concilio, che considera avventate, diffuse in America Latina. Il nuovo vescovo di Santiago esprime al Papa anche le proprie preoccupazioni circa l’eccessiva influenza che i gesuiti salvadoregni (in particolare Ignacio Ellacuría, Jon Sobrino e il superiore provinciale padre Francisco Estrada), vicini alle posizioni della teologia della liberazione, esercitano in Salvador.  
L’ingresso solenne a Santiago de Maria avviene il 14 dicembre alla presenza delle più alte cariche civili e religiose del Paese. Romero rimane a Santiago per due anni, durante i quali, in qualità di pastore, cerca di conquistare la fiducia dei sacerdoti, attenuando la propria intransigenza nei confronti del clero, e di avvicinare a sé la massa dei fedeli. Si preoccupa dei seminaristi, provvede al decoro delle chiese, visita ammalati e carcerati, dà impulso a varie associazioni laicali e, a fronte della diffusa miseria e povertà, favorisce il sorgere nelle parrocchie della Caritas.  
Parte seconda
La teologia della liberazione letta alla luce dell’Evangelii nuntiandi di Paolo VI
All’interno del clero di San Salvador alcune realtà associative e taluni sacerdoti sono vicini alle posizioni della teologia della liberazione, diffusa in molti Paesi dell’America Latina. Per il vescovo Romero, le cui letture sono fondamentalmente documenti del Magistero, commentari biblici e testi di patristica, la teologia della liberazione, portata avanti in Salvador principalmente dai gesuiti dell’Uca, il cui esponente principale è Ignacio Ellacurìa, è un qualcosa che inizialmente non lo attrae in modo particolare e di cui non si occupa. Gli appare una lettura troppo politicizzata del messaggio cristiano.
In che cosa consiste la teologia della liberazione? Così l’ha spiegata Gregorio Rosa Chavez, rettore del seminario di San Salvador negli anni in cui Romero è arcivescovo: «Non è affatto facile parlare della teologia della liberazione dal momento che, per quanto si trovi un ethos comune tra gli autori, è il frutto di tendenze e approcci distinti. Per questo, soprattutto quando parlo di questo tema con dei giornalisti, la prima cosa che dico sempre è che si dovrebbe parlare di “teologie della liberazione”, al plurale. Personalmente mi aiuta sempre molto ricordare alcune parole di Gustavo Gutierrez, pronunciate nell’aula magna dell’Università di Lovanio nel 1974. Colui che era conosciuto come il padre della teología de la liberación, iniziò la sua lectio magistralis ricordando agli astanti che la sua nozione di teologia era quella classica: il discorso su Dio. Poi spiegò, però, quella che per lui era la differenza: cioè che mentre i teologi europei si preoccupavano del “non credente”, i teologi della liberazione si preoccupavano del “non uomo” (el no hombre). Terminò poi la sua dissertazione con queste lapidarie parole: “Para este no hombre se ponga de pié, existe la teología de la liberación”, “la teologia della liberazione esiste perché questo non uomo si rimetta in piedi”»[4].  
Romero condivide con i teologi della liberazione l’idea della centralità dei poveri e  deriva ciò dal Magistero della Chiesa, dal Concilio, da Paolo VI, da Medellin. L’opzione preferenziale per i poveri, per le masse diseredate che in Salvador sono soprattutto quelle contadine, nasce nell’arcivescovo da una riflessione di tipo spirituale, ma è comunque provocata anche dalle contingenze storiche.    
Per Romero dunque la teologia della liberazione non è una dottrina o un sistema di tipo ideologico, bensì una lettura delle drammatiche condizioni di vita del suo popolo, fatta sulla base del Vangelo. E ciò lo deriva da un documento, che per Romero è un punto di riferimento centrale, l’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi (8 dicembre 1975) di Paolo VI.
Quando lottiamo per i diritti umani, per la libertà, per la dignità, quando sentiamo che è un ministero della Chiesa il preoccuparsi di coloro che hanno fame, di coloro che non hanno scuola, di coloro che soffrono emarginazione, non ci stiamo allontanando dalla promessa di Dio di liberarci dal peccato, poiché la Chiesa sa che le conseguenze del peccato sono tutte quelle ingiustizie e violenze. La Chiesa sa che sta salvando il mondo quando si mette a parlare anche di queste cose. Ed il Papa raccoglie l’eco di milioni di uomini che chiedono alla Chiesa un aiuto per la loro liberazione, eco portata a Roma dai vescovi. Per cui la Chiesa non può essere sorda e si preoccupa di promuovere la liberazione dal peccato e da tutte le conseguenze del peccato. Il Papa ha detto questa bella frase, che troviamo nella “Evangelii nuntiandi”: “La Chiesa accetta la lotta degli uomini per la liberazione, ma la incorpora al progetto di salvezza universale”. Che vuol dire? La Chiesa continua a costruire il piano della salvezza di Dio, non se ne è allontanata, e quando vede negli uomini, nei popoli d’America, l’ansia di liberazione, incorpora quest’ansia, questa lotta alla liberazione cristiana, in Cristo, e dice a tutti quelli che lavorano per la liberazione che una liberazione senza fede, senza Cristo, senza speranza, una liberazione violenta, rivoluzionaria, non è efficace, non è autentica. Si deve partire dalla redenzione in Cristo, dalla redenzione dal peccato. A nulla varrebbero leggi e strutture nuove se gli uomini non si rinnovassero interiormente, pentendosi dei propri peccati e cercando di vivere più giustamente[5].
Anche le riflessioni sulla necessità di una conversione personale Romero le deriva dall’Evangelii nuntiandi di Paolo VI, in particolare al cap. 36, dove è scritto che “le migliori strutture, i sistemi meglio idealizzati diventano presto inumani se le inclinazioni inumane del cuore dell’uomo non sono risanate, se non c’è una conversione del cuore e della mente di coloro che vivono in queste strutture o le dominano”.
Nel 1976, il 6 agosto, festa nazionale in Salvador, in omaggio al nome religioso della nazione, Romero è incaricato di tenere la tradizionale omelia sul Divino Salvador durante il solenne pontificale in cattedrale, davanti alle massime autorità politiche del Paese. È un intervento sul tema della liberazione e il vescovo, utilizzando a piene mani la Evangelii nuntiandi di Paolo VI, afferma che la vera liberazione è quella che proviene da Gesù Cristo, non quella che si basa solamente sugli aspetti temporali. Dopo aver evocato la “tragica realtà del nostro mondo” e segnatamente del “terzo mondo”, caratterizzata da “fame, infermità croniche, analfabetismo, pauperizzazione, ingiustizia nelle relazioni internazionali, situazioni di neocolonialismo economico e culturale talora crudele quanto quello politico”(Evangelii Nuntiandi, 30), Romero affermava la necessità di “annunciare e aiutare a che nasca la liberazione totale” (Evangelii nuntiandi, 30).
Anche negli anni successivi, da arcivescovo di San Salvador, Romero continuerà a ritenere legittima liberazione solo quella centrata sul trascendente e non quella che si ferma unicamente alla realtà immanente, continuando a fare riferimento alla Evangelii nuntiandi.
Parte terza
Le comunità ecclesiali di base accettate e promosse sulla base del pensiero di Paolo VI
La diocesi di San Salvador alla fine degli anni Settanta conta ufficialmente oltre un milione e trecentomila fedeli. Per far fronte alla carenza di sacerdoti, anche in Salvador, come in altri Paesi dell’America Latina, si diffondono le comunità ecclesiali di base, aggregazioni che, soprattutto nelle campagne dove è assente il sacerdote, celebrano ogni domenica la Liturgia della Parola e distribuiscono l’eucarestia con le ostie consacrate durante precedenti celebrazioni eucaristiche. Si tratta di una Chiesa popolare, che si richiama alle comunità cristiane delle origini. I riferimenti dottrinali degli animatori delle varie comunità divengono ben presto il Concilio Vaticano II e i documenti di Medellin. In una realtà di diffuse ingiustizie sociali, queste comunità si caratterizzano ben presto per un forte impegno nella coscientizzazione politica e molti loro membri sono attivi nelle organizzazioni popolari, nei sindacati rurali e, inalcuni casi, nella guerriglia rivoluzionaria. Romero crede suo dovere incrementare le comunità di base, anche per raggiungere in questo modo i villaggi più lontani dal luogo in cui risiede il sacerdote. Ritiene però che le comunità di base debbano avere un carattere eminentemente religioso e non politico: loro compito deve essere l’apostolato tra i contadini e i poveri. Anche in questo caso Romero trova confermata la propria idea dall’Evangelii nuntiandi, al cap. 58.
Parte quarta
Arcivescovo di San Salvador: il sostegno di Paolo VI ad una Chiesa perseguitata e all’arcivescovo che la guida
Alla fine del 1976 l’arcivescovo di San Salvador, mons. Luìs Chavez Gonzalez, in lieve anticipo sulla scadenza del suo mandato, rassegna le dimissioni. Negli ultimi anni del suo episcopato più volte aveva denunciato le ingiustizie sociali, motivo per cui negli ambienti governativi lo si riteneva un sovversivo. L’ausiliare, Arturo Rivera y Damas, sembra il naturale candidato a sostituire l’arcivescovo dimissionario, ma per le sue posizioni critiche nei confronti del governo non ottiene l’incarico. La scelta, sostenuta dal nunzio mons. Gerada e anche dall’oligarchia, cade così su Oscar Romero, ritenuto più moderato e non in conflitto con il potere politico. 
Il nuovo arcivescovo di San Salvador assume ufficialmente la guida della diocesi il 22 febbraio 1977.
Mentre Romero sta prendendo le misure della nuova diocesi, la situazione in Salvador diviene sempre più drammatica e la repressione ad opera delle Forze di Sicurezza e degli squadroni della morte si intensifica.
Un momento di svolta vi è con l’assassinio di padre Rutilio Grande. Il 12 marzo 1977 il religioso, mentre sta andando da Aguilares verso il vicino paese di Al Paisnal, viene assassinato a colpi di arma da fuoco. Assieme a lui sono uccisi un anziano contadino, Manuel Solórzano, e il sedicenne Nelson Lesmus. Rutilio Grande, con la sua vita accanto ai contadini, era visto come colui che li spingeva alla lotta politica e sindacale; dunque era considerato un pericolo per gli interessi degli agrari. Sin dal suo primo arrivo a San Salvador, come vescovo ausiliare, Romero era entrato in rapporto di collaborazione e sintonia con padre Rutilio, memore anche degli anni trascorsi insieme quando abitavano nel seminario di San José de la Montaña. Lo considerava un vero uomo di Dio, un pastore autentico, un testimone della fede. L’assassinio di padre Rutilio è pertanto un fatto sconvolgente per l’arcivescovo: per la prima volta la violenza del potere lo tocca nei propri affetti più cari e lo costringe a interrogarsi a fondo sui motivi di tutto ciò. La sera stessa Romero si reca ad Aguilares e veglia tutta la notte la salma di padre Rutilio, attorniato da centinaia di campesinos. Accanto a mons. Romero, davanti alla bara di padre Rutilio, vi è anche mons. Rivera Damas, che scrive: «Un martire diede vita ad un altro martire. Davanti al cadavere di padre Rutilio Grande, mons. Romero, nel suo ventesimo giorno da arcivescovo, sentì la chiamata di Cristo a vincere la sua naturale timidezza umana e a riempirsi della intrepidezza dell’apostolo. Da quel momento, mons. Romero abbandonò le terre pagane di Tiro e Sidone e camminò liberamente verso Gerusalemme». Di fronte al cadavere dell’amico ucciso, Romero inizia a comprendere che il Corpo vivente di Cristo, i poveri, sono oppressi e uccisi da un potere che si presenta come baluardo della cristianità, ma che in realtà è inumano e anticristiano.
Nell’omelia funebre, la prima da arcivescovo, mons. Romero, dopo aver ricordato che nei momenti culminanti della propria vita aveva sempre trovato in padre Rutilio un fraterno amico e un consigliere attento, parla della liberazione che la Chiesa offre e che il padre gesuita assassinato ha cercato di trasmettere ai propri parrocchiani, una liberazione che si basa sull’amore e che ripudia ogni azione violenta e rivoluzionaria. Romero insiste poi su ciò che ha guidato l’attività pastorale di Rutilio Grande, ossia l’amore per il popolo che gli è stato affidato. E anche in questa omelia non mancano i riferimenti a Paolo VI[6].
I sacerdoti e i religiosi di San Salvador, che fino ad allora erano stati per lo meno tiepidi nei confronti del nuovo arcivescovo, ora si stringono attorno a lui, riconoscendolo come propria autorevole guida. 
Siccome i rapporti con il nunzio, cioè con il rappresentante del papa, sono ormai compromessi poiché Romero inizia sempre più esplicitamente a criticare la Giunta militare e le forze armate responsabili della repressione, per essere confermato nella propria azione, improvvisamente Romero decide di recarsi a Roma, dove giunge domenica 27 marzo 1977, accompagnato dal suo vicario, mons. Ricardo Urioste. In primo luogo visita San Pietro e prega sulle tombe dei papi, in particolare su quella di Pio XI, il pontefice che Romero, quando era studente a Roma, aveva apprezzato per la sua ferma opposizione a Mussolini e a Hitler. Incontra poi il card. Sebastiano Baggio, prefetto della Congregazione dei vescovi, il card. Agostino Casaroli, segretario del Consiglio per gli affari pubblici della Chiesa, di fatto ministro degli esteri della Santa Sede, e padre Pedro Arrupe, preposito generale della Compagnia di Gesù. Particolarmente teso è l’incontro alla Congregazione dei vescovi, mentre quello con Pedro Arrupe è invece molto cordiale e anche pieno di commozione, per il ricordo del sacrificio del gesuita padre Rutilio Grande. Padre Arrupe incoraggia Romero a proseguire nell’attività pastorale e gli conferma il leale appoggio e la piena collaborazione dei gesuiti, presenti nella diocesi di San Salvador con una quarantina di preti e con diversi studenti. I gesuiti dirigono la parrocchia di Aguilares, l’UCA (l’Università Centroamericana), un grande liceo e altre opere apostoliche minori. Pubblicano inoltre una rivista molto importante, “Estudios Centroaméricanos”. Nell’udienza generale del mercoledì Paolo VI lo riconosce e lo riceve subito, manifestandogli l’incoraggiamento e il sostegno di cui Romero ha tanto bisogno. “Coraggio, gli dice Paolo VI, è lei che comanda”.
Questa approvazione e questo incoraggiamento sono per Romero assolutamente significativi: l’attaccamento alla sede di Roma, al papato, al Magistero era sempre stato per lui importante. Averne una conferma, in un momento in cui il nunzio e altri vescovi lo contrastano fortemente, è per lui un fatto di assoluta importanza.
Parte quinta
Una Chiesa perseguitata
Tornato in Salvador, dove arriva il giorno precedente la domenica delle Palme,Romero ritrova subito un clima di violenza e di persecuzione nei confronti dei contadini, delle organizzazioni sindacali rurali e dei sacerdoti più direttamente impegnati nella pastorale.
Il 17 maggio un grosso contingente dell’esercito circonda Aguilares, ritenendola un covo di guerriglieri soprattutto per l’opera che vi svolgono i gesuiti, che proseguono l’attività di padre Rutilio Grande: numerosi civili sono uccisi, tre gesuiti e un sacerdote sono arrestati e picchiati, quindi espulsi dal Paese. I militari poi entrano nella chiesa, con un colpo di pistola aprono il tabernacolo e spargono le ostie sul pavimento. Uccidono anche il giovane Miguel, colpevole di dare l’allarme suonando le campane. A Romero, che accorre immediatamente, viene impedito di entrare in città. Solo dopo un mese di violenze, i militari tolgono il blocco a Aguilares. Il 19 giugno 1977 Romero può finalmente entrare ad Aguilares per ricordare i drammatici fatti del mese precedente e per insediare un nuovo sacerdote e tre suore che lo avrebbero aiutato. Durante la messa concelebrano con lui dieci sacerdoti. Nell’omelia Romero parla del dolore delle famiglie colpite dall’assassinio o dal rapimento dei propri cari, esortando a non covare sentimenti di odio e invitando al perdono.Dopo la celebrazione una processione, guardata a vista dai soldati schierati in forze, si snoda per le vie della cittadina. Ricorderà il gesuita padre Sobrino, presente all’evento: «Dopo la messa uscimmo in processione sulla piazza del paese, a riparazione della profanazione che i militari avevano fatto del corpo di Cristo sacramentato e del corpo vivente di Cristo, i campesinos assassinati. Davanti al municipio gruppi di soldati ci guardavano con espressione fosca e minacciosa. Quando fu giunta nei loro pressi, la testa della processione si arrestò. Eravamo impauriti, timorosi di quello che poteva avvenire. Allora, spontaneamente, ci voltammo a guardare verso il fondo della processione dove stava mons. Romero con il Santissimo tra le mani. Monsignor Romero disse: “Avanti”; e così facemmo. La processione proseguì senza incidenti e dal quel momento, simbolicamente, monsignor Romero divenne il leader di tutti i salvadoregni. Non lo pretese, non lo cercò, però accadde. Monsignor Romero era quello che ci sorreggeva. Da allora niente di importante avvenne nel Paese senza che tutti si voltassero verso di lui» .
Romero continua a mantenersi fedele al Magistero. Non intende operare riforme o cambiamenti particolari nell’attività pastorale: le sue idee fondamentali su Dio, sulla fede, sulla Chiesa, rimangono quelle che aveva al momento della nomina a vescovo. Ciò che è cambiato è invece il ruolo che Romero ora ricopre nella Chiesa e nel Paese. La novità rilevante del Romero arcivescovo di San Salvador è il suo atteggiamento fermo di fronte al potere politico e economico, che ritiene responsabile dell’ondata di violenza scatenata contro il popolo e contro la Chiesa. La situazione di ingiustizia e di violenza istituzionalizzata diffusa in Salvador è radicalmente in contrasto con i precetti evangelici; Romero sceglie pertanto di stare dalla parte di chi subisce l’ingiustizia e chiede ai governanti di porre fine alla repressione.
Il 26 agosto 1978 uno stimato catechista, Felipe de Jesús Chacón, conosciuto e apprezzato da mons. Romero, viene catturato e assassinato dalle Forze di Sicurezza; il suo corpo viene fatto trovare sfigurato assieme a quelli di altre due persone sequestrate lo stesso giorno e fatte a pezzi con il machete.
Il 28 novembre 1978 Rafael Ernesto Barrera Motto, detto “Neto”, un sacerdote ventinovenne vicino alle organizzazioni popolari e che vive fra gli operai della colonia “La Providencia”, un quartiere della periferia meridionale della capitale, viene assassinato dalla polizia assieme ai due operai con i quali sta parlando. Nella casa del sacerdote spesso gruppi di lavoratori si ritrovavano a leggere la Bibbia e a confrontarsi in merito alla situazione del Paese. Per la polizia si trattava di riunioni della guerriglia. I funerali di padre Neto sono celebrati dall’arcivescovo assieme ad altri sessanta sacerdoti. Per Romero, coloro che cadono a motivo della propria fede sono da annoverare tra i martiri.
Sabato 20 gennaio, alle sei di mattina, una colonna di autoblindo della Guardia Nazionale abbatte il cancello del Despertar, un centro pastorale dove Padre Octavio Ortiz Luna, 35 anni, uno dei sacerdoti più stimati da monsignor Romero, sta tenendo un corso di iniziazione cristiana per una sessantina di giovani. Padre Octavio esce di corsa a vedere cosa succede e viene ucciso sul colpo. I ragazzi che sono con lui fuggono disperati, ma quattro di loro sono raggiunti ed uccisi. Sono guerriglieri, si giustifica la polizia: i testi utilizzati per la catechesi diventano, per le Forze di Sicurezza, libri di letteratura sovversiva. 
Alla fine del mese di maggio 1979 si contano 115 morti, 55 arrestati (30 dei quali finiscono nell’elenco dei desaparecidos), 92 feriti, 28 edifici incendiati o lesionati. Romero da un lato esorta i governanti ad attuare le necessarie riforme, soprattutto quella agraria, e a interrompere immediatamente la repressione, dall’altro invita altrettanto fermamente le forze della guerriglia ad abbandonare la violenza. 
Nel solo mese di giugno 1979 si contano 123 persone uccise (30 di queste sono insegnanti, poi leader politici, campesinos, giornalisti ecc.), 47 arrestate e 18 scomparse. L’invito che Romero rivolge a tutti è quello di abbandonare la violenza.
Il 4 agosto un altro sacerdote viene assassinato: si tratta del trentottenne Alirio Napoleón Macías, parroco della chiesa di San Esteban Catarina, nella diocesi di San Vicente. Viene ucciso sui gradini dell’altare. 
Parte sesta
Il problema della risposta armata all’ingiustizia e la possibilità prevista dalla Populorum Progressio di Paolo VI. La scelta della nonviolenza.
Secondo Romero il dramma del Salvador ha origine nella diffusa ingiustizia sociale, che ha ridotto in miseria la popolazione. Solo con leggi giuste, applicate in modo imparziale, e nel rispetto dello Stato di diritto, è possibile risolvere la crisi in cui versa il Paese. Compito della Chiesa è difendere la dignità dell’uomo, che è stato fatto a immagine di Dio.
In Salvador secondo Romero è presente una violenza istituzionalizzata, che è supportata da una violenza repressiva. Accanto a queste vi è la violenza rivoluzionaria, che ha le proprie radici in una situazione di oggettiva ingiustizia sociale. La violenza rivoluzionaria, la lotta disperata e violenta di uomini oppressi, è il prodotto della violenza istituzionalizzata.
In America Latina, e anche in Salvador, per opporsi all’ingiustizia legalizzata, alcuni credenti, e anche dei sacerdoti, scelgono la strada della lotta armata, rifacendosi alla Populorum progressio di Paolo VI, in particolare là dove si dice:
«E tuttavia sappiamo che l’insurrezione rivoluzionaria - salvo il caso di una tirannia evidente e prolungata che attenti gravemente ai diritti della persona e nuoccia in modo pericoloso al bene comune del Paese - è fonte di nuove ingiustizie, introduce nuovi squilibri e provoca nuove rovine. Non si può combattere un male reale a prezzo di un male più grande» .
Il tema che Paolo VI sceglie per la Giornata Mondiale della Pace del 1978, “No alla violenza, sì alla pace”, trova il pieno consenso di Romero. In una lettera che invia al card. Baggio e al card. Villot, per informarli dei preparativi per tale Giornata della Pace, Romero segnala che la Chiesa di San Salvador, benché fatta oggetto di violenze e di intimidazioni, rifacendosi al Magistero, invita tutti a non rispondere con la violenza. In un’intervista a un’agenzia di stampa, nel maggio 1979, Romero affronta in modo esplicito il problema della risposta armata alle situazioni di ingiustizia, con riferimento ancora all’inciso della Populorum Progressio:
Questo problema è molto vivo nella coscienza dei cristiani salvadoregni. Io stesso ho scritto recentemente una lettera pastorale in cui trattavo la questione: certo – come dice anche Paolo VI nella “Populorum progressio” – teoricamente, quando non ci siano altre strade per ristabilire la giustizia, persino l’azione violenta in ultima analisi può essere ammessa. Ma noi diciamo che essa non è una soluzione giusta, perché dalla sua pratica può nascere un’autentica “mistica” della violenza, che può portare solo altri orrori. Siamo per l’opposizione non violenta e per il passaggio graduale alla democrazia, possibilmente senza spargere sangue. Certo, mi rendo conto che la situazione del mio Paese è esplosiva, e questo non perché la Chiesa si vuole per forza opporre al regime, ma perché è il regime che si è messo contro il popolo[7].
Romero si trova ad operare in una situazione di forte contrapposizione e di polarizzazione politica, che sembra non dare spazio alla dimensione pastorale ed evangelizzatrice che la Chiesa intende proporre. L’opzione preferenziale per i poveri e la difesa dei diritti umani lo portano a scontrarsi ripetutamente con il potere politico e le oligarchie economiche, ma questo non significa per lui porsi sulle posizioni delle forze rivoluzionarie. Oscar Romero è un vescovo che intende proporre a tutti la strada indicata dal Vangelo, la strada dell’amore e della nonviolenza, la strada che doveva portare, per utilizzare un’espressione di Paolo VI fatta propria di Romero, alla “civiltà dell’amore”.
Romero tratta estesamente questo tema della violenza anche nella sua III Lettera pastorale, del 6 agosto 1978.
Per Romero le condizioni che rendono possibile una rivolta armata, come previsto dall’inciso nel testo di Paolo VI, sono inesistenti nella realtà, anche e soprattutto in considerazione del fatto che le conseguenze sarebbero devastanti soprattutto per la popolazione. Nello stesso tempo è cosciente del fatto che, finché non si rimuove l’ingiustizia, è estremamente difficile realizzare condizioni di pace. Si tratta dunque, secondo l’arcivescovo di San Salvador, di trovare un’altra strada per risolvere i problemi del Paese.
Anche nella Evangelii nuntiandi (37) Romero trova una conferma alla propria posizione di rifiuto di ogni forma di violenza, anche di quella rivoluzionaria che vuole abbattere le strutture ingiuste.
Parte settima
I problemi con i vescovi salvadoregni e i rapporti con Roma: l’appoggio di Paolo VI all’arcivescovo definito dai suoi confratelli “sovversivo e comunista”
Ben presto tra i vescovi del Paese alcuni contestano fermamente l’operato di Romero. Lo accusano di fomentare le rivolte e di non ricercare la collaborazione con il potere politico. Lo dipingono come sovversivo, come comunista. Romero è molto amareggiato per queste accuse dei suoi confratelli e per la divisione che così si crea nell’episcopato salvadoregno, ma non può fare altrimenti: la sua fedeltà deve essere al Vangelo e a Cristo. 
Quattro in particolare sono i prelati che periodicamente inviano a Roma le proprie lamentele in merito all’operato di Romero, chiedendo ad un certo punto anche una sua rimozione dalla guida della diocesi di San Salvador. Il motivo che contrappone questi vescovi a Romero è fondamentalmente il fatto che la forte personalità dell’arcivescovo, noto ormai a livello internazionale per la sua opera di denuncia delle ingiustizie, oscura gli altri prelati, che non desiderano scontri con il potere politico e tendono ad addossare tutte le responsabilità delle violenze alle forze della guerriglia. Una tale posizione viene sfruttata dalla Giunta militare per legittimare le proprie attività di repressione nei confronti dei sacerdoti, dei catechisti, dei delegati della Parola, considerati sovversivi e fiancheggiatori delle organizzazioni popolari e dei gruppi rivoluzionari.  
Anche il nunzio apostolico, mons. Gerada, che cerca di mantenere positive relazioni con il governo, non vede di buon occhio le continue prese di posizione di Romero in merito alle precise responsabilità politiche per la situazione di repressione, di diffusa ingiustizia sociale e di continue violazioni dei diritti umani presente in Salvador. Pure i membri più influenti dell’oligarchia salvadoregna si mobilitano perché Romero, accusato di essere un comunista, sia rimosso. Gran parte del clero non solo della diocesi di San Salvador, ma anche delle altre, difende invece l’arcivescovo, criticando aspramente il nunzio e gli altri vescovi, ritenuti troppo remissivi nei confronti del regime e nella denuncia delle responsabilità per la drammatica situazione che il Paese vive. Sostegno a Romero viene dal vescovo di Santiago de Maria, mons. Arturo Rivera y Damas.  
Dal 17 al 30 giugno 1978 Romero è a Roma, accompagnato dal proprio vicario generale, mons. Ricardo Urioste, e da mons. Rivera Damas. Romero incontra il card. Baggio, responsabile della Congregazione dei vescovi, che lo informa del fatto che i vescovi salvadoregni, ad eccezione di Rivera Damas, hanno chiesto la sua destituzione. Romero fornisce alla curia romana ampia documentazione in merito alla propria attività e alla propria assoluta fedeltà a Roma, al Concilio, a Medellin, al Magistero della Chiesa. Incontra anche il card. Casaroli alla Segreteria di Stato. Il 21 giugno si tiene l’udienza privata con Paolo VI. L’incontro con Paolo VI è per Romero motivo di grande consolazione: il Pontefice lo ascolta e lo incoraggia a proseguire nella sua azione. Prima di lasciare Roma, mons. Romero fa visita a padre Pedro Arrupe e al card. Eduardo Pironio. Anche da loro riceve pieno sostegno e incoraggiamento. Romero non incontrerà più Paolo VI, che muore il 6 agosto 1978. Anche questa visita a Roma emoziona grandemente l’arcivescovo di San Salvador, per il significato che tale città ha per i credenti. Il 21 giugno si tiene l’udienza privata con Paolo VI e Romero, che è assieme a mons. Rivera Damas, la descrive nel proprio Diario[8]. Romero non incontrerà più Paolo VI, che muore il 6 agosto 1978. Anche questa visita a Roma emoziona grandemente l’arcivescovo di San Salvador, per il significato che tale città ha per i credenti.
Con la morte di Paolo VI muore colui che da Roma aveva sempre protetto e incoraggiato Oscar Romero, difendendolo anche quando sui tavoli vaticani giungevano i rapporti dei quattro vescovi salvadoregni che ne chiedevano le dimissioni.
Conclusione
Paolo VI nel suo discorso all’Onu del 4 ottobre 1965 aveva detto testualmente: “Non si può amare con le armi in pugno…lasciate cadere le armi dalle vostre mani…”.
Il 23 marzo 1980, Il giorno prima di essere assassinato, mons. Romero in una omelia rende concrete le parole di Paolo VI all’Onu e invita le forze armate a non sparare, ma non solo. Invita anche i soldati a disobbedire a ordini che vanno in tale direzione.
Questo intervento di mons. Romero, questo esplicito invito ai militari a non uccidere e a disobbedire agli ordini di tal genere, è ciò che fa decidere le forze armate e gli squadroni della morte a mettere in pratica il piano di assassinare l’arcivescovo per far tacere la sua voce. Il giorno dopo, 24 marzo, alle 18,30, mentre durante la santa messa ha appena finito l’omelia e sta iniziando l’offertorio, Romero viene assassinato.
Anselmo Palini

[1] Sulla realtà dell’America Latina e del Salvador nella seconda metà del Novecento si vedano: Michael Stührenberg, Eric Venturini, Centroamerica. Sfida aperta, Edizioni Associate, Roma 1987; Jean Meyer, Oscar Romero e l’America Centrale del suo tempo, Studium, Roma 2006; Roberto Morozzo Della Rocca (a cura di), Oscar Romero. Un vescovo centroamericano tra guerra fredda e rivoluzione, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2003; Daniele Pompeiano, Storia e conflitti del Centro America, Giunti, Firenze 1991; Maurice Lemoine, Guida storico-politica dell’America Latina, Edizioni Associate, Roma 1989.
[2]I principali testi su Oscar Romero, apparsi in italiano, sono i seguenti: Egidio Monzani, Marco Marelli, Monsignor Romero, nobel dei poveri, Messaggero, Padova 1980 (con in appendice alcuni scritti pastorali di Romero); Abramo Levi, Oscar A. Romero, un vescovo fatto popolo, Morcelliana, Brescia 1981, con presentazione di David Maria Turoldo; James R. Brockman, Oscar Romero, fedele alla parola, Cittadella, Assisi 1984; Jesús Delgado, Monseñor. Vita di Oscar A. Romero, Paoline, Cinisello Balsamo (Mi) 1986; Ettore Masina, L’arcivescovo deve morire. Oscar Romero e il suo popolo, prefazione di Leonardo Boff, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1996; Roberto Morozzo Della Rocca (a cura di), Oscar Romero. Un vescovo centroamericano tra guerra fredda e rivoluzione, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2003; Roberto Morozzo Della Rocca, Primero Dios. Vita di Oscar Romero, Mondadori, Milano 2005; Massimo De Giuseppe (a cura di), Oscar Romero. Storia, memoria, attualità, Emi, Bologna 2006; Jean Meyer, Oscar Romero e l’America centrale del suo tempo, prefazione del card. Achille Silvestrini, Studium, Roma 2006; Giuseppe Massone, Oscar Romero. Martire come il suo popolo, Gribaudi, Milano 2009; Alberto Vitali, Oscar A. Romero. Pastore di agnelli e di lupi, prefazione di mons. Luigi Bettazzi, Paoline, Milano 2010; Anselmo Palini, Oscar Romero. “Ho udito il grido del mio popolo”, Ave, Roma novembre 2010.
[3] Su questi aspetti si rimanda a: Raffaele Nocera, Stati Uniti e America Latina dal 1945 ad oggi, Carocci, Roma 2005.
[4] In M. De Giuseppe (a cura di), Oscar Romero. Storia, memoria, attualità, Emi, Bologna 2006, p. 167.
[5] R. Morozzo Della Rocca, Primero Dios, op. cit., p. 260.
[6] L’intera omelia di mons. Romero al funerale di padre Rutilio Grande è riportata nel libro La voce di Oscar Romero. Testi e omelie, Borla, Roma 2007, pp. 19-24.
[7] R. Morozzo Della Rocca, Primero Dios, op. cit., p. 172.
[8] O. Romero, Diario, op. cit., pp. 63ss.


Domenica 17 Ottobre,2010 Ore: 16:24
 
 
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