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Lutti
È morto Samuel Ruitz, vescovo del Chiapas

Riportiamo alcuni articoli tratti dalla stampa italiana che ricordano la figura di questo grande vescovo legato ai poveri e inviso al potere


Addio a Ruitz, il “Cristo” del Chiapas evangelizzato dagli indigeni
di Maurizio Chierici (il Fatto Quotidiano,  27 gennaio 2011)
È morto Samuel Ruitz, vescovo del Chiapas negli anni inquieti. Non è stato ucciso sull’altare, come Romero, ma hanno provato tante volte mentre il Vaticano guardava. E dall’ Italia Comunione e Liberazione promuoveva nella sua San Cristobal de Las Casas, convegni di ragazzi ai quali si illustrava non benevolmente gli adattamenti teologici di Ruitz alla cultura indiana. Aveva 85 anni, ‘in esilio’ attorno a Città del Messico con l’impegno di ‘non disturbare’ i vescovi che ne avevano preso il posto.
 
Era arrivato nel Chiapas nel 1960, conservatore di famiglia agiata. L’insegnamento del Concilio gli aveva insegnato l’umiltà indispensabile a penetrare il mondo indigeno. Missione complicata dalla necessità di “difendere i contadini dall’egoismo di chi continuava a sfruttarne terre e lavoro”. Per un momento si confonde tra i potenti. 12 mila militari presidiano il Chiapas per tutelare gli espropri decisi a Città del Messico in favore di funzionari che l’età o le disavventure politiche costringono a farsi da parte. Lo Stato federale li sistema riunendo piccole proprietà di piccoli contadini costretti ad impoverire tacendo. “Nei primi viaggi pastorali – racconta in un incontro Ruitz – dormivo in belle case, letti morbidi: i latifondisti sapevano essere gentili. E organizzavano feste dove incontravo notabili e mandarini di stato. Poi ho scoperto che le vivande venivano comprate coi soldi dei contadini obbligati a pagare per onorare il pastore. E ho deciso di passare la notte nelle loro baracche. Quante cose si imparano. A fare domande anziché distribuire risposte. Capire prima di spiegare. A poco a poco la mia cultura è penetrata nella cultura Maya ed anche il mio modo di essere vescovo si è aggiornato. I principi della dottrina restano saldi, ma il modo di leggere assieme le scritture ha trovato intonazioni diverse. Ero venuto per evangelizzare l’indifferenza indigena e dagli indigeni sono stato evangelizzato”. Diversità che il Concilio aveva suggerito eppure scandalizzava i custodi della tradizione.
 
Quando arriva nel Chiapas, Ruitz è un principe della chiesa nel firmamento dei potenti. Quando se ne va è diventato Tatic Samuel, onore indios che non piace al nunzio monsignor Prigione. Non piace ai grandi proprietari che assediano armati la cattedrale accusandolo di difendere “oltre ogni limite i contadini”. Spari e violenze: la polizia guarda con pigrizia mentre a Città del Messico i giornalisti vanno a trovare l’ambasciatore del Papa. “Perché il governo non difende questo vescovo? Perché lei non protesta?”. “È un problema interno messicano. Non posso far niente”.
“L’Osservatore Romano, giornale del Vaticano, scrive che sfida il martirio come il vescovo Romero”. “L’Osservatore Romano non è la voce del Papa, solo un foglio cattolico”.  
Nel 1999 compie 75 anni e presenta le dimissioni dovute aggiungendo il desiderio di restare nel Chiapas per non abbandonare “l’esperienza straordinaria che ha rallegrato il mio spirito ed aperto la mia carità”. Non vorrebbe lasciare gli 8 mila gruppi catechisti nei quali ha modulato la dottrina della Chiesa nella cultura indigena. Ottomila, un esercito, proprio la parola che spaventa le autorità infastidite dall’ombra del subcomandante Marcos il quale pacificamente si mescola a loro. Ruitz lascia un Chiapas cambiato: “La gente ha imparato a confrontare, villaggio per villaggio, lo spirito del vangelo e i dolori della vita”. Una domenica, alla fine dell’omelia, legge la rinuncia spedita al Vaticano. Si illude venga respinta ma sa che i consigli del nunzio Prigione non gli sono favorevoli: “Non cambierà nulla anche se non sarò in mezzo a voi. Raul Vera prenderà il mio posto ed è una fortuna perché da vent’anni condivide questa esperienza”. E Raul Vera diventa vescovo di San Bartolomeo.
 
Una beffa: dopo 8 mesi lo trasferiscono in una provincia lontana, lungo il confine con gli Stati Uniti. Il nuovo pastore scioglie gli 8 mila gruppi di catechisti, normalizzazione che fa respirare militari e proprietari. Adesso, il cordoglio di Calderon, presidente del Messico: “Se ne è andato ungrand’uomo. Merito della sua mediazione se il Chiapas è stato pacificato”. Tardi. Ma meglio tardi che mai.


Il Chiapas piange la morte di Samuel Ruiz, il "vescovo rosso"
di Alfio Nicotra (Liberazione,  26 gennaio 2011)
Samuel Ruiz, il vescovo dei maya, se ne è andato. Almeno sul punto di morte gli è stato evitato l'esilio della città di Queretaro a cui era stato destinato dalla gerarchia ecclesiastica messicana. E' morto tra mura amiche all'età di 87 anni, nella sua San Cristobal de Las Casas. Quando vi arrivò, 52 anni fa, era il più giovane vescovo del Messico. Fu scelto dalla gerarchia ecclesiastica per il suo orientamento conservatore. Figlio di una famiglia agiata della borghesia messicana a Samuel Ruiz Garcia era stato affidato un compito semplice: mantenere lo status quo.
 
Tutto appariva inamovibile in una terra ricca di foreste, pascoli, corsi di acqua e giacimenti di preziosi minerali. Quelli che stavano di "sopra"- i terratenientes ed i grandi allevatori - avrebbero continuato a starci in eterno con la benedizione divina. Quelli che stavano di "sotto", la moltitudine degli indios e dei campesinos, avrebbero continuato a lavorare come schiavi, morendo stremati nei campi con la zappa tra le mani ed il santino della Madonna di "Guadalupe" nella tasca sdrucita dei pantaloni.
 
Il matrimonio perverso tra la spada e la croce qui, come ai tempi della conquista, si rinnovava ogni giorno contro ogni tentativo di emancipazione e di riscatto delle popolazioni indigene. Samuel Ruiz Garcia passa i primi mesi del suo mandato pastorale da un pranzo all'altro, invitato a rendere gli onori di casa nelle dimore dei potenti, servito a tavola da colorate indigene silenziose, quasi non avessero il dono divino della parola.
 
Il giovane Samuel aveva però occhi per vedere l'immane miseria dei molti sulla quale si fondava l'invereconda ricchezza dei pochi. Aveva orecchie per ascoltare quelle donne mute ma che in verità erano in grado di parlare una babele di lingue. Vedendo ed ascoltando don Samuel venne convertito dai poveri. Scelse di stare con quelli di "sotto". All'improvviso.
 
Con naturalezza ruppe il perverso legame tra la Chiesa e la spada. Era la Chiesa che doveva genuflettersi ad una miriade di culture sagge ed antiche, rispettose della terra e dell'uomo, che parlavano al cuore indigeno della montagna e che resistevano alla cruda assimilazione al pensiero unico dell'uomo bianco. Vietò ai suoi catechisti di insegnare lo spagnolo, la lingua degli oppressori, se prima non avessero loro imparato la lingua di quei villaggi. Recitò messe nei pueblos della selva imparando umilmente idiomi, riti e tradizioni di quei popoli. Il Concilio Vaticano II lui lo fece così, incarnandolo nella grande dignità di civiltà millenarie, attualizzandolo nel dolore e nella speranza di una moltitudine di senza volto e voce. Il messaggio evangelico - portato di casa in casa da un esercito di 5mila catechisti - scavava nella coscienza, liberava l'anima dall'idea dell'ineluttabilità dell'essere schiavi. Si gettava il seme della disubbidienza alle ingiustizie.
 
Quando il 1 Gennaio 1994, migliaia di volti coperti da un passamontagna, invasero armati decine di municipi nel sud/est messicano, passata la sorpresa per le "bestie indios" che insorgevano contro una secolare cancellazione, vide gerarchie ed opulente élite levare l'indice contro don Samuel, l'obispo rojo (il vescovo rosso). Era lui il corruttore delle primitive e "buone" menti degli indigeni, che - sempre secondo costoro - stavano bene nella loro condizione di apartheid che li preservava dal male del mondo. Ruiz il capo della rivolta.
 
Questa ossessione dei vari Salinas e Zedillo di turno, dei vertici militari e degli autenticos coletos (i discendenti dei conquistatori) era una accusa che puntava a decapitarne la testa, come quella di Giovanni Battista sul vassoio della figlia di Erode. Non avevano capito o non volevano capire che gli zapatisti avevano un "capo" collettivo, il Comitato Clandestino Rivoluzionario Indigeno. Il nucleo di una società liberata, un comitato multietnico che sfidava le divisioni arricchendosi delle differenze.
 
Il Presidente Zedillo voleva Samuel Ruiz in galera. Nel febbraio del '95 lo convocò per questo a Los Pinos, la residenza presidenziale. Gli sventolò sotto gli occhi il mandato di cattura, mentre i suoi uomini armati di tutto punto invadevano la Selva nel tentativo di uccidere Marcos e gli altricomandanti dell'Ezln.
Ma l'esercito federale ed i consiglieri del Pentagono non potevano conoscere il grande orecchio della foresta Lacandona, il tam tam millenario che avvisò gli zapatisti di non presentarsi all'incontro con il mediatore governativo. Zeddillo ripose furioso il telefono che gli comunicava del fallimento dell'imboscata e lasciò andare via Ruiz. Ad aspettarlo trovò la furia dei paramilitari che tentarono l'assalto alla cattedrale. Un muro umano, uomini, donne, bambini indios, impedì che i priististi ubriachi di sangue compiessero il loro delitto. Per giorni e notti stettero a centinaia lì davanti alla Chiesa, a vigilare sul loro "Tatic" (Padre). La forza della moltitudine contro l'arroganza dei più sofisticati sistemi d'arma. Una guerra impari.
 
Ma di fronte a tanto eroismo anche "L'Osservatore romano" fu costretto a scendere in campo a sostegno di don Samuel rompendo l'omertoso silenzio che aveva contraddistinto il Vaticano fino ad allora. Ostinato uomo di pace don Samuel guidò con generoso impeto la Conai, la Commissione di intermediazione tra l'Ezln ed il Governo. Fu la sua firma e quella del presidente della commissione parlamentare di concordia e pacificazione (Cocopa) ad aggiungersi come garanzia a quella del comandante David e del rappresentante del governo federale sugli accordi di pace di San Andres.
Ma gli accordi rimasero sulla carta. Mai tradotti in legge di riforma costituzionale. Mille volte traditi nelle imboscate e nei massacri (quello di Acteal fu un delitto preordinato dal Pri, il partito di Stato). La guerra a bassa intensità significa asfissia per la povera economia indigena. Eppure quei popoli indigeni continuano a non piegarsi.
 
Il Vaticano - nella sua posizione altalenante nei confronti della diocesi "ribelle"- tentò di commissariarla affiancando a Samuel Ruiz un grigio prelato dell'apparato ecclesiastico, Raul Vera Lopez. Ma, come era successo con il giovane Samuel, non aveva fatto i conti con la capacità dei poveri di convertire. Ed il "commissario" si trasformò così in un energico compagno di lotta di Samuel Ruiz.
 
Fu per questo che, al raggiungimento dei 75 anni di età di don Samuel, il Vaticano scelse un altro vescovo al posto del candidato naturale Raul Vera Lopez. Alla guida della diocesi fondata da Fra Bartolomeo de Las Casas, doveva tornare la restaurazione e porre fine alla teologia india e allo scomodo impegno per la pace che l'aveva per decenni contraddistinta. Proprio Raul Vera, dalla "diocesi confino" di Santillo a migliaia di chilometri dal Chiapas, ha per primo ricordato la figura del Tatic Samuel e il suo straordinario impegno per i poveri.
La voce profetica di Samuel Ruiz Garcia, mancherà a tanti, specialmente agli indios. Alla sua gente di cui - anche nei momenti più drammatici - ha sempre cercato di dare una parola di speranza.
Come durante l'omelia dei funerali delle 45 vittime di Acteal. «Quando la notte si fa più buia -affermò - è il nuovo giorno che si avvicina».


Giovedì 27 Gennaio,2011 Ore: 15:45
 
 
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