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ISSN 2420-997X

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Lutti
Rassegna stampa sulla morte di Adriana Zarri

La parola di Adriana
di Adriana Zarri
Il manifesto 19 novembre 2010
Avevamo scritto nel file del desk «non cancellare, non è uscito», e ieri lo abbiamo ritrovato. È il testo, inedito, dell'ultima «Parabola», la rubrica che Adriana Zarri scriveva da anni per il manifesto. Era più lungo del solito, l'avevamo sentita, e allora ne aveva inviato uno più breve chiedendoci però di posticiparlo: «Mettetelo la prossima volta, non ve ne dimenticate». Purtroppo non lo vedrà pubblicato. Di questo testo, così rappresentativo della sua scrittura, e di lei è certo che non ci dimenticheremo.
Teologa impegnata sul piano culturale e ecclesiale, Adriana Zarri è nata a San Lazzaro di Savena (Bologna) il 26 aprile del 1919; ha sempre vissuto in campagna in forma eremitica, coltivando la terra, allevando animali e scrivendo. Autrice di alcuni romanzi, saggi e di un volume di poesie, è anche nota per la sua attiva presenza pubblicistica tra cui ricordiamo, oltre alle «Parabole» pubblicate dal nostro giornale, il quindicinale Rocca, Il Regno, Servitium, Concilium, e altre. Ha partecipato anche a trasmissioni radiofoniche (come Uomini e profeti, Radio Tre) e televisive, (Samarcanda del primo Santoro). Questi i suoi scritti principali: Giorni feriali, Istituto di Propaganda Libraria, Milano, 1955 (romanzo); L'ora di notte, Sei, Torino, 1960 (romanzo); La Chiesa nostra figlia, La Locusta, Vicenza 1962 (ecclesiologia); Impazienza di Adamo, Borla, Torino, 1964 (ontologia della sessualità); Teologia del probabile, Borla, Torino, 1967 (Riflessioni sul postconcilio); Il giorno degli altri, Gribaudi, Torino, 1970; «Tu». Quasi preghiere, Grabaudi, Torino, 1973 (poesie); E' più facile che un cammello..., Gribaudi, Torino, 1975 (meditazioni sulla povertà); Erba della mia erba, Cittadella Editrice, Assisi, 1981 (resoconto della vita eremitica); I guardiani del sabato. Riflessioni sulla Chiesa italiana dopo il referendum sull'aborto, Com-Nuovi tempi, 1981; Il figlio perduto. La parola che viene dal silenzio, La Piccola editrice, Celleno (VT), 1991 (riflessioni teologiche su alcune tematiche fondamentali dell'esperienza cristiana); Quaestio 98. Nudi senza vergogna, Camunia Ed., 1994 (romanzo); Dedicato a, Frontiera Edizioni, 1998 (difesa della legge sull'aborto); Il Dio che viene. Il Natale e i nostri natali, La Piccola Editrice, Celleno (VT), 2007; Vita e morte senza miracoli di Celestino VI, Diabasis, Reggio Emilia, 2008. (romanzo); Un eremo non è un guscio di lumaca, Einaudi, 2011 (prossima pubblicazione).
Streghe
Strega. Creatura malefica. Ed, a nobilitarne il termine, non basta un liquore squisito e un prestigioso premio letterario. Per quanto ci riguarda, il liquore non lo beviamo, il premio non lo vinciamo, e non ci resta neanche il conforto di una fata benefica a bilanciare l'attività nefasta della strega. Niente. La strega resta là, senza liquore e senza premio e a noi non resta che fare i debiti scongiuri nella speranza vana di una fata.
Memoria: il fatale albicocco
Mi portano un libro che, a distanza di dieci anni, raccoglie memorie e testi di memorie della tragica sorte di Alex Langer che finì suicida, impiccato a un albicocco. L'albicocco è un albero fruttifero, che parla di vita e non di morte, pare che Langer, nello scegliere quella pianta, volesse alludere a un di là che attende tutti, credenti o no che siamo. Leonardo Boff, religioso e teologo, scrive: «Sono certo che Dio abbia concesso l'eternità della vita al nostro caro Alex Langer».
Un tempo si negava ai suicidi la sepoltura religiosa. Oggi siamo molto più cauti e non presumiamo di dettar legge a Dio.
I balilla e il crocifisso
Non è pigrizia, ma il seguente articolo, uscito su la Rocca a firma di Tonio dell'Olio merita di esser citato per intero.
E' in corso una vera e propria offensiva militare ai danni dei giovani italiani. Sono almeno tre le iniziative intraprese dal Ministero della difesa per «avviare il mondo giovanile alle Forze armate e per favorire una maggiore condivisione per i valori che da esse promanano». (Dal bando del Ministero della difesa). Si tratta di «Vivi le forze armate. Militare per tre settimane» in cui sono stati selezionati giovani dai 18 ai 30 che trascorreranno tre settimane presso un reparto militare partecipando alla formazione militare. In Lombardia poi è già in atto una collaborazione tra scuola ed esercito che prevede la propaganda militare e la formazione alle armi di giovani studenti. Infine il Ministero della Pubblica Istruzione e quello della Difesa hanno aumentato le iniziative di presenza militare nelle scuole per avvicinare gli studenti alla capacità militare. Alle tante prese di posizione contro la «mini-naja» e la «legge balilla», riprendo quella di Pax Christi che in una nota denuncia: «Siamo di fronte a una novità pericolosa, antiformativa e antipedagogica. Insegnareimparare a sparare non è compito della scuola della Repubblica Italiana dove risplende l'articolo 11 della Costituzione, dove sono maturate ipotesi di difesa non violenta anche tramite corpi civili di pace che non vengono adeguatamente organizzati perché il governo preferisce investire 20 milioni di euro per la "mini-naja"».
Vengono così pagati finanziamenti al servizio nazionale. Non si insegna «a sperare ma a sparare» conclude amaramente il comunicato del movimento cattolico internazionale per la pace. L'idea che ci sia un nemico a prescindere che ci si senta forti di un'arma che di fronte al conflitto non ci siano altre strade che quella della violenza... restringe l'orizzonte dei giovani a un clima e alla cultura della paura. Prepararsi al futuro con il coltello tra i denti significa sottoporre a qualcuno la speranza e illudersi che noi abbiamo sempre ragione e che noi siamo più forti e più furbi degli altri. Don Milani, senza esitazione, avrebbe invitato all'obiezione di coscienza. In quelle stesse aule in cui militari professionisti andranno a insegnare «i valori delle Forze armate», abbiamo strenuamente voluto che restasse appeso un crocifisso la cui lezione è tutt'altra. E parla di amore per i nemici, di offerta della vita, di perdono e di non violenza. Non ci resta che sperare che quei giovani, ogni tanto, alzino la testa.
«Non ci sono soldi» risponde il sindaco d'ogni paese d'Italia. Non ci sono soldi perché il governo ha scelto di non imporre ulteriori balzelli potendo tagliare le prestazioni a favore di coloro che sono più poveri. E per quanto possa sembrare paradossale, il peso dalla crisi cade sulle spalle di chi già la subisce più pesantemente. Sono le politiche sociali a pagare il conto più alto! Iniziative innovative che non avevano più le modalità umilianti dell'assistenzialismo e contavano sulla dignità delle persone con mille idee innovative e creative. Proprio quelle politiche sociali costituiscono la vita sociale dell'antimafia, il contributo determinante per vincere l'esclusione sociale. Non è un caso che nel frattempo, lo stesso governo ha deciso di ampliare gli istituti penitenziari e di costruire nuove carceri. O l'uno o l'altro. O previeni o reprimi. O aiuti o sei costretto a nascondere la polvere sotto al tappeto. Le carceri scoppiano. Di stranieri, di povera gente, di reati minori. E solo se potessero raccontare agli italiani le storie di questo tempo e far aprire loro gli occhi con l'importanza di organizzare l'Italia sociale! Ma intanto la televisione trasmette un altro round sulle idiozie. Programmi di intrattenimento, li chiamano.


Un amore lungo una vita
di Raniero La Valle
Il manifesto 19 novembre 2010
Non so se la Chiesa, nelle sue istituzioni, renderà onore a Adriana Zarri. Non foss'altro che per il suo lunghissimo amore, che è durato quanto la sua vita. Un amore esigente e critico, per il quale ella si ostinava a pensare che non necessariamente la Chiesa dovesse essere così come era, che essa potesse avere migliori papi e migliori vescovi, che potesse cambiare, rinnovarsi, per dispensare più largamente parole di vita. E di una Chiesa capace di rimettersi in questione, di riaprire tutti i canali di comunicazione col mondo, di tornare a narrare in modo nuovo il suo racconto di salvezza, Adriana Zarri era stata testimone durante il Concilio, e al Concilio è poi rimasta sempre fedele. Anche la scelta eremitica, mai pensata come fuga dal mondo o isolamento aristocratico, la rendeva più forte nella sua libertà di fronte all'istituzione, come è proprio di tutta la tradizione monastica. E anche nei momenti più critici, la sua fedeltà non è venuta mai meno. Certo parlava della Chiesa con piglio da teologa, e con quella autorità che poche donne hanno saputo esercitare nella Chiesa, e che in ogni caso ben raramente viene loro riconosciuto. Ma la sua teologia era meno interessata al «logos» che all'amore, meno alla «verità» che alla misericordia; ed è per questo che pur dal suo eremo, la sua presenza straripava su giornali e televisioni per dire la parola necessaria; e per questo è stata compagna di speranze e di lotte, non violente e pacifiche, di molti di noi.
Perciò oggi di sicuro c'è una Chiesa che le rende onore, che ne raccoglie la lezione, che ne custodisce la memoria, anche al di là della Chiesa visibile; è quella Chiesa che Adriana Zarri rintracciava nell'umanità tutta intera, fatta di santi e di peccatori, di fedeli e di infedeli, di laici e di preti, di poveri e di viandanti, tutti insieme, senza separazione né discriminazione alcuna.
Certo, è un dolore che sia morta nella solitudine, e non solo in forza della sua scelta monastica, ma per amicizie fattesi avare, e per quella disattenzione e miopia che non fa riconoscere i valori, là dove fermentano per tutti. Ma lei era contenta di vivere, ed anche pronta a morire. Non so se è stato l'ultimo o uno degli ultimi suoi scritti, quello su Rocca del primo agosto scorso. Era un «controcorrente» che significativamente era intitolato «Stagioni». Raccontava le stagioni come le vedeva dalla sua cascina del Canavese, ma anche le stagioni della vita. E diceva che «l'alternarsi delle stagioni è come i tempi della vita: l'acerbo verde dell'infanzia, la rossa accensione dell'età matura, lo stanco biondo dell'invecchiamento, il bianco fermo della morte. Ma la morte dà origine alla vita. È la resurrezione». E dell'autunno diceva che in esso «si raccolgono i frutti che il caldo agosto ha maturato» e che terminato l'inverno «torna la primavera. Il sole sarà ancora caldo, il prato sarà ancora verde e noi ancora con tanta voglia di vivere». Adriana Zarri se ne è andata tra l'autunno della raccolta dei frutti e l'inverno che preannuncia «ancora tanta voglia di vivere».
È questa sua voglia e capacità di vivere che ora vogliamo celebrare, non la definitività della morte a cui lei negava la vittoria. E non solo celebrare, ma raccogliere come lascito e come monito.


La mia amica Adriana
di Rossana Rossanda
Il manifesto 19 novembre 2010
Si è spenta ieri notte Adriana Zarri, teologa, mistica, donna inflessibilmente libera e solitaria. Stava male da tempo, da quando una caduta pareva avere spezzato d'un colpo l'energia che la spingeva dalla cascina piemontese dove abitava, il suo orto, i suoi animaletti e le sue rose, in giro per l'Italia, saltando sulla sua vecchia macchina o su un treno, a partecipare alle battaglie civili, e custode d'una lettura corretta delle scritture che le permetteva, anzi le comandava, di essere anche cittadina. Si batteva conversando, riunendo altri nella preghiera, scrivendo. Sino alla fine, già assai malandata, ha continuato a scrivere per noi, come per Rocca, o per Concilium o Il regno: alternando gli interventi o le rubriche, per noi le agili Parabole, ai saggi e ai romanzi. Tutti in verità parabole, l'ultima è del 2008 Vita e morte senza miracoli di Celestino VI, favola moderna su un papa che non fu - come lei aveva sperato fosse in Ratzinger, dagli esordi assieme a Hans Küng nel Vaticano II - e che si inverava in un colto parroco di campagna deciso a servirsi della indiscutibile autorità, e non perché credesse alla propria infallibilità, ma perché liberava la chiesa di Roma dai suoi ori materiali e dai suoi orpelli devozionali. Nel romanzo non li definisce «idolàtrici», ma che fosse un'«idolatria» lo pensava e diceva. E vi ha fatto perfino uno dei suoi convegni.
Adriana è stata fra i molti credenti cui il Concilio Vaticano II aveva aperto il cuore alla speranza. Sono molti, e a tutti i livelli, dal fedele a certi parroci a qualche vescovo e fin cardinale, che non si mettono fuori della chiesa, ma ai margini e in mezzo alla gente. La chiesa preferisce ignorarli, e benché siano di sinistra, la sinistra ne fa come la chiesa, ben poco conto: quando Berlinguer, dopo Togliatti, pensò a un'alleanza con i cattolici, la cercò nella Democrazia cristiana, cioè in chi più lontana da questi cristiani di base non poteva essere. Adriana della Dc, come peraltro del Pci, non fece mai parte, né è mai stata di quelli che si potevano incontrare ai meeting di Comunione e Liberazione, che definì, in un celebre libretto, «i guardiani del sabato». In gioventù era stata tentata di entrare in un ordine, ma vi aveva rinunciato per mantenere liberi i suoi pensieri e la sua parola: «Se non prendo gli ordini, mi diceva, loro più che scomunicarmi non possono, e scomunicare un laico non usa più». Loro, cioè il Vaticano, la curia. Così preferì vivere da laica come una monaca, anzi - amava dirsi - da eremita, del suo orto e dei suoi conigli, lavorando come poteva senza rinunciare alla solitudine, e con l'aiuto dei suoi amici - ne aveva molti, amici che in lei cercavano e da lei avevano la parola, gli incontri di riflessione estivi nella pace della campagna, o la preghiera nella veglia pasquale di cui aveva ritradotto le parole con Fabrizio Frasnedi.
Un giorno le dicevo che del cristianesimo mi interessava la disciplina interiore, protestò con veemenza: disciplina era un termine che non tollerava. Né esteriore né interiore. E' stata di quelli che più hanno attaccato la svolta impressa alla chiesa da Karol Woityla, Giovanni Paolo II.


Addio ad Adriana Zarri teologa di sinistra
di Giancarlo Zizola
La Repubblica 19 novembre 2010
Cantava i suoi salmi all'alba con gli uccelli, i gatti e le ortensie, il suo tempio era il creato ma teneva nel casale ad Albiano che aveva rifatto come suo eremo un piccolo tabernacolo per l'adorazione, come la "messa sul mondo" imparata da Teilhard de Chardin. Se ne è andata quietamente Adriana Zarri, questa pura eremita di vocazione, progenie di una stirpe che fa ricca di silenzi una terra stravolta dal baccano, dalla menzogna e dallo spettacolo, e probabilmente le assicurano una segreta scialuppa. L'eremo in realtà non era solo suo, era un rifugio per tanti spiriti in ricerca accolti come tali, a prescindere dalle loro convinzioni religiose o atee. E anche per il mondo cattolico, nel quale aveva donato la sua fedeltà da laica, da teologa, da militante critica, da donna capace di emancipazione e dunque d'imprudenza, pronta a scottarsi la lingua con la verità impavida anche di fronte a vescovi e papi, questa asceta solitaria aveva continuato fino all'ultimo dei suoi 91 anni a tener viva l'inquietudine della profetessa: non era azzardato, alla fine dei conti, paragonarla a una piccola Caterina da Siena con la frusta in mano contro le deviazioni simoniache di una Chiesa ancora concubina ad Avignone.
Era stata lei (il cui ultimo libro uscirà a febbraio per Einaudi Un eremo non è un guscio di lumaca) a rompere il ghiaccio maschilista della corporazione teologica in Italia, rivendicando il carisma femminile del discorso su Dio. Era stata nel 1969 la prima donna laica ammessa nel direttivo dell'Associazione Teologica Italiana. Bolognese di San Lazzaro di Savena, era arrivata alla teologia da ragazza, spinta da un profondo interesse religioso e da un'attrazione non meno forte per la filosofia. Questa passione assume essenzialmente tre forme, la produzione ecclesiologica (a cominciare da un libro sui Padri della Chiesa, specialmente Sant'Agostino), la narrativa e la spiritualità contemplativa, mai però distratta dai problemi della terra per l'alto dei Cieli: prima donna laica in Italia a scrivere un libro sulla teologia e antropologia della preghiera Nostro Signore del deserto.
Nel 1961 Adriana interviene nel dibattito aperto da Giovanni XXIII con La Chiesa nostra figlia, il primo contributo di una donna ai temi della riforma della Chiesa. La sua critica al trionfalismo clericale prefigura lo sviluppo del modello di "Chiesa di comunione", libera da egemonie di genere e ricca di carismi. Teologia del probabile resta probabilmente il suo intervento più incisivo e lungimirante. Nel 1967, a Concilio appena concluso, gettava l'allarme sulle letture o catastrofista o trionfalista del Vaticano II, l'illusione di una Chiesa definitivamente salva e l'allarme per una Chiesa totalmente turbata, in cui si bloccavano le riforme. Aveva cercato di fugare il malinteso per cui il modello della riforma era un adattamento borghese del Vangelo. Era convinta che l'umanesimo cristiano o sarà un ascetismo o un semplice naturalismo, alla caccia di un'ascetica del meno e del negoziato: «Quanti s'illudono che il nuovo corso sia una manica larga che chiude un occhio e permette evasioni hanno torto di esaltare questa nuova stagione della Chiesa: non sarebbe stagione feconda. Ma il Concilio non incoraggia nulla di tutto questo».
Una frase l'aveva commossa, nei documenti conciliari: «Ignoriamo, non sappiamo». Le sembrava che la Chiesa ammettesse la sua sprovvedutezza, avendo molto sbagliato lungo i secoli: «Quell'ammissione di ignoranza ci ha depurato il sangue da secoli di presunzione teologica, ci ha reso più umili e poveri di fronte alla grandezza del mistero».
Anche nei romanzi (Quaestio 98: nudi senza vergogna, 1994) le sua militanze religiose, i suoi stessi leggendari furori polemici versavano trame paradossali di storie di monaci che s'inebriano di sessualità come via maestra per la palingenesi cosmica e sociale. E sull'onda di queste leggende ritroviamo negli anni una mistica che difende la legge sull'aborto come strumento di difesa da pratiche abortive clandestine, reagendo allo zelo intollerante e all'astratta morale del sabato. E resta il suo monito contro le richieste e quasi le pretese di una legislazione civile che avalli una posizione teologica parziale. In pagine amare, le ultime, ripeteva la domanda: «Perché tante cattoliche e cattolici sono ormai degli ex? E perché, sconfessandoci, i vescovi rendono sterile la nostra evangelizzazione? Perché tagliano l'ultimo ponte da cui tanti potrebbero passare?».



Venerd́ 19 Novembre,2010 Ore: 14:56
 
 
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