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www.ildialogo.org VENEZIA 1945,di Daniela Zini

STORIE D’ITALIA dal 1861 a oggi
VENEZIA 1945

di Daniela Zini

L’unità d’Italia fu perseguita e conseguita attraverso la confluenza di diverse visioni, strategie e tattiche, la combinazione di trame diplomatiche, iniziative politiche e azioni militari, l’intreccio di componenti moderate e componenti democratico-rivoluzionarie. Fu davvero una combinazione prodigiosa, che risultò vincente perché più forte delle tensioni anche aspre che l’attraversarono.”

Giorgio Napolitano

Quando la miccia della Liberazione inizia a bruciare lungo l’Italia del Nord, vi è una città alla quale tutti guardano con particolare apprensione: Venezia (http://www.youtube.com/watch?v=rcBdHZYTPoQ). Militarmente parlando, Venezia è un cul de sac, dove non vi può essere sfogo per combattimenti in campo aperto.

Tedeschi e fascisti la presidiano saldamente: la città ne rigurgita, capi della Resistenza venuti da Milano per rendersi conto della situazione, confessano ai compagni veneziani che, mai, hanno visto, nello stesso luogo, tante divise naziste e repubblichine. La topografia della città, così chiusa e intricata, la delicatezza del suo tessuto urbanistico, il valore inestimabile dei suoi monumenti: tutti dati di fatto di cui l’azione insurrezionale deve tener conto, che rischiano di trasformare la lotta partigiana in una strage, in una specie di massacro della popolazione civile, in un rogo divampante da San Marco alla Giudecca, da Cannaregio a Dorsoduro. Non è difficile appiccarlo, se i tedeschi lo vogliono.

In Francia ci si chiedeva:

Parigi brucerà?”

Nell’Italia del Nord, a poco a poco che viene liberata, la domanda angosciosa è:

Venezia brucerà?”

La zona portuale, a esempio, è, capillarmente, minata e si sparge la voce che le mine siano anche altrove, che la vendetta nazista possa punire la città che, mai, aveva risparmiato ai tedeschi e ai loro complici italiani avventurosi colpi di mano, episodi di guerriglia e, perfino, una incredibile beffa, che aveva bruciato lungamente l’amor proprio dei despoti, mentre al Teatro Goldoni si recitava Pirandello, Vestire gli ignudi: nelle prime fila, boriosi, vi sono i militi e gli ufficiali della Decina Mas, i tedeschi pettoruti e mondani pur nelle loro tetre divise. Tre partigiani, tre gappisti, appaiono, improvvisamente, sul palcoscenico. Imbracciano il mitra, lo puntano sui nemici, che, armati come sono, non osano muovere un dito. La beffa è stata ideata dal comunista Giuseppe Turcato e ha la grazia di una recita goldoniana, per le parole ironiche pronunciate dai partigiani, che sfottono e dileggiano la repubblichina di Salò, per il loro muoversi quasi teatrale, da attori, sulle tavole del palcoscenico. Se ne vanno nel nulla, dal quale sono venuti. E fascisti e tedeschi si guardano ammutoliti in faccia, a leggere il reciproco sbalordimento, mentre il pubblico della platea, del loggione, dei palchi ha assaporato una sorsata di libertà.

Ma, a Venezia, non vi sono stati solo momenti distensivi (per la Resistenza) come questo. Prima dell’insurrezione, la città piange i sette martiri della riva degli Schiavoni, i tredici di Ca’ Giustiniani, i cinque di Cannaregio. Zani, Pepi e Cafiero sono i nomi dei fascisti più crudeli, quelli che infieriscono, maggiormente, sui patrioti caduti in loro mano. Ecco perché, all’alba della Liberazione, si teme il peggio.

Nonostante l’immigrazione di ministeri e di polizie politiche di ogni tipo, Venezia resta sostanzialmente antifascista. Ricordiamo, sui muri dell’Accademia di Belle Arti, appena giù dal ponte dell’Accademia, nel giugno del 1940, delle grandi scritte dipinte, nottetempo, da qualche ignoto, che maledivano i tedeschi e la nostra alleanza con Hitler.

La città, pur risparmiata dagli imponenti bombardamenti, salvo qualche episodio sporadico, fu considerata tacitamente dagli Alleati una specie di città aperta; ma arrivò all’insurrezione stremata e provata.

A condurre, veramente, la resistenza, a Venezia, vi erano poche centinaia di uomini: gli altri si aggregarono, trascinati dal Vento del Nord, negli ultimi giorni, ingrossando, smisuratamente, le fila di quella che era stata una piccola pattuglia, o poco più, di punta, sia pure agevolata dalla convivenza della città, ovattata nei lunghi mesi invernali dalla sua coltre di nebbia, serrata nel suo gelo quasi nordico.

A queste poche centinaia di spericolati, costretti ad agire in una città che era un vicolo cieco, presidiata da imponenti forze nazifasciste, che facevano sventolare la bandiera con la svastica in piazza San Marco, toccò preparare uno dei piani insurrezionali più complessi e delicati, cercando complicità e aiuti dappertutto, perché alla fine non si dovesse gridare:

Venezia brucia!”

Quando gli Alleati dilagano finalmente nel Nord, liberando una città dopo l’altra, tutto il Veneto attende il suo momento e, in particolare, Venezia, emarginata dalle grandi avanzate, dalle più vistose operazioni belliche, collegata con la terraferma solo dal ponte translagunare.

Il Comitato di Liberazione Nazionale e il Corpo Volontario della Libertà, in questo frangente, cercano di stringere i tempi: quinte colonne erano, già, state cercate nei gangli nevralgici della vita politico-amministrativa, a esempio, il vice-podestà Salazar era stato contattato dagli uomini della Resistenza e aveva lavorato di intesa con i patrioti.

Questi tengono una riunione decisiva, nella notte del 27 aprile 1945: Venezia deve insorgere?

È giunto il suo momento?

Alle 23 della stessa notte, viene stilato un proclama che, dopo poche ore, è, già, sui muri della città, firmato da Luigi Pasetti per il Partito d’Azione, da Pietro Benedetti per il Partito Comunista, da Eugenio Gatto per la Democrazia Cristiana, da Pio Malgarotto per il Partito Liberale e da Sante Listato, per il Partito Socialista. Si dichiarava testualmente che:

Il Comitato di Liberazione della Provincia di Venezia, espressione unitaria delle forze che hanno collaborato alla lotta di liberazione nazionale, per volontà ed elezione di popolo, in forza del mandato conferito dal Governo Democratico Italiano al Comitato di Liberazione Nazionale per l’Alta Italia (C.L.N.A.I.), rappresentante legittimo del Governo stesso e come tale riconosciuto dalle Autorità Alleate, assunti tutti i poteri di Governo e di Amministrazione nel territorio della Provincia di Venezia, dichiara iniziata da questo momento anche nella provincia di Venezia l’insurrezione nazionale per la liberazione del Paese dal giogo degli invasori tedeschi e dei traditori fascisti.”

Il decreto, che portava il numero d’ordine 1, proseguiva, invitando la popolazione a insorgere compatta e decisa contro le forze nazifasciste.

Come a Milano, pochi giorni prima, anche a Venezia, si erano condotte delle trattative per evitare inutili spargimenti di sangue. Nello stesso giorno del 27, il comandante del Corpo Volontari della Libertà, Mario Coccon, azionista, aveva contattato il comandante tedesco della piazza. Era presente, per il patriarcato, un sacerdote, padre Giulio. Ma il crollo del fronte del Po, evidentemente, non aveva ancora persuaso i tedeschi che si avvicinava l’ora della resa dei conti. La risposta, da parte nazista, era stata negativa: niente resa. Così, nella stessa notte, era nato il decreto insurrezionale.

Già, in quella notte del 26, vi era stato un assaggio nelle carceri di Santa Maria Maggiore, dove vi erano i detenuti politici. Questi sapevano perfettamente quel che accadeva fuori. Si ribellarono. Tedeschi e fascisti cercarono con la forza di riprendere in pugno la situazione, ma furono respinti. Il tentativo, fu ripetuto, invano, all’alba. Il 27 i “politici” riuscirono a liberarsi e a unirsi ai partigiani. Anche i prigionieri politici che si trovavano all’ospedale civile riuscirono a fuggire, nel pomeriggio del 27. Il tallone nazifascista iniziava a gravare un po’ meno su Venezia. Sempre nello stesso giorno, vi era stata da parte dei partigiani un’irruzione nella caserma di San Zaccaria, dietro la riva degli Schiavoni, e le forze comandate dal famigerato capitano Zani, circa duecento uomini, si erano lasciate catturare.

Ma, dopo il decreto che invitava la città intera, con la sua provincia, alla ribellione, il nemico iniziò a rendersi conto che ne aveva, ormai, il fiato corto: alla mattina del 28, alle 6, deposero le armi il segretario federale e il comandante della guardia repubblicana. Tra i fascisti dilaga il caos: alcuni, convinti che il loro destino sia, comunque, segnato, non vogliono consegnarsi ai partigiani e danno inizio a una guerriglia feroce, fatta di cecchinaggi dai tetti, sparando contro tutto e tutti, colpendo anche civili inermi.

Si combatte in piazzale Roma e in Marittima, due punti chiave di Venezia: rispettivamente, la possibilità di fuga via terra e quella via mare, la possibilità a ogni modo di distruggere ogni collegamento con il resto del Paese, dove i nazifascisti sono in rotta, incalzati dagli alleati; i più fanatici vagheggiano ancora l’idea di una fuga in forze, lasciandosi dietro macerie fumanti. Ma, ormai, il loro progetto si rivela impossibile. Anche al Lido, dove i tedeschi avevano effettuato un tentativo di blocco portuale, i partigiani hanno la meglio e salvano dalla distruzione la motonave Zara. Sempre al Lido, racconta in una sua relazione Gino Scarso, che fu uno dei comandanti militari dell’isola, nella quale fino a qualche anno prima, in occasione della mostra del cinema, approdavano, per consumarvi i loro ozi dorati, i gerarchi italiani e tedeschi, ancora il 30 aprile mattina, e vale a dire a Venezia ormai liberata, vi erano “dei tedeschi che, malgrado gli accordi presi, circolavano con le armi pronte al fuoco”. Allora Gino Scarso, con il suo gruppo di partigiani, rastrellò la zona, eliminando gli irriducibili, circondando l’albergo Wagner e l’hotel Bortoli per impedire l’uscita di quanti di essi vi fossero, ancora, asserragliati, infine, consegnati alle sopraggiunte truppe inglesi.

Furono, dunque, giorni lunghi e insidiosi, tanto più se, al quadro generale, si aggiungono episodi isolati, ma non per questo di minore rilievo. Naturalmente, a mordere il freno più degli altri, erano stati i comunisti, che avrebbero preferito anticipare i tempi della Liberazione per presentare alle forze anglo-americane una Venezia già liberata. Il partigiano “Marco”, al secolo Giuseppe Turcato, vale a dire l’uomo che abbiamo visto progettare e realizzare con altri compagni la beffa del teatro Goldoni, racconta che la brigata della quale era commissario, una brigata garibaldina, la Francesco Biancotto (che aveva preso il nome da un partigiano adolescente caduto nella lotta, già nel pomeriggio del 24 aprile – quindi, con congruo anticipo sul decreto ufficiale di insurrezione – aveva rotto gli indugi. Addirittura il 25 mattina formazioni partigiane avevano occupato le sedi della Società Telefonica delle Venezie e delle Poste e Telegrafi. I garibaldini avevano, inoltre, disarmato, in Lista di Spagna, nei pressi della stazione ferroviaria, alcuni militi della Decima Mas.

Nella notte tra il 25 e il 26, anche se le decisioni ufficiali non erano ancora state prese, avvenne il coordinamento tra le squadre di azione patriottica e i cittadini, che iniziarono ad arruolarsi presso le sedi di sestiere. Il Partito Comunista dimostrò in questo il suo tempismo, che rispose, certamente, a un preciso calcolo politico (la speranza di precedere gli anglo-americani), ma anche una più organica e decisa volontà di appiccare il fuoco alle polveri.

In questo dilagare di iniziative, mentre i fascisti, dopo la iniziale arroganza, in parte si arrendono, in parte si abbandonano a una sparatoria disperata, i tedeschi, più forti anche come armamento, danno luogo a un genere di guerriglia atipico, non riscontrabile, per ovvi motivi, nelle altre città che vengono liberate negli stessi giorni. Servendosi di micidiali pontoni armati di mitragliere e robustamente blindati, i nazisti iniziano a percorrere le principali vie d’acqua di Venezia, falciando chi passa lungo le rive con raffiche micidiali. Il disegno essenziale è quello di raggiungere la zona portuale, la marittima, per farvi brillare le mine, trasformandola in una “tabula rasa”. Ai Magazzini Generali, si accende una lotta cruenta: i partigiani hanno la meglio, i pontoni tedeschi sono costretti a ritirarsi.

Adesso questi “carri armati acquei” sono ancorati davanti alla riva degli Schiavoni, alla Dogana, all’imbocco del Canal Grande. La minaccia su Venezia è ancora grave, perché i tedeschi insistono: faranno saltare i pochi ponti minati, le polveriere, il grande complesso dell’Arsenale, le navi che sono rimaste in porto. Non vogliono arrendersi, chiedono un lasciapassare.

L’incubo è spaventoso: lo sarebbe per qualsiasi altra città, ma, a Venezia, esplosioni di questo tipo, con le case a ridosso l’una dell’altra, potrebbero cancellare l’intera faccia della città. In compenso, Chioggia è, già stata liberata. Oltre ai telefoni e alle porte, i partigiani hanno, già, in mano la radio e la stazione ferroviaria. Anche l’isola di Pellestrina, poco lontana dal Lido, è insorta con successo. Sempre, il 28, prosegue la liberazione delle isole lagunari: a Milano, vengono catturati da partigiani e patrioti gli equipaggi tedeschi delle petroliere Mantova I e Mantova II.

Anche la Decima Mas, asserragliata nel collegio navale di Sant’Elena, finalmente si arrende: senza condizioni. Se si calcola che a Venezia, durante l’occupazione, esistevano ben quattordici tipi diversi di politiche e militari tedesche e fasciste, ci si rende conto come l’azione partigiana abbia dovuto, contemporaneamente, fare i conti con forze molteplici, ciascuna delle quali, in quei giorni di emergenza, tendeva a comportarsi come un piccolo esercito autonomo: dove uno cedeva, l’altro, per l’ottusa tenacia o ferocia di un comandante, continuava a rimanere in armi, a ostacolare, seriamente e drammaticamente, il setacciamento della città, opponendo improvvise sacche di resistenza, con rapide, ma non per questo meno pericolose, fiammate di estrema bellicosità.

Il distaccamento del battaglione partigiano Vivian espugna assieme agli uomini di punta del I° battaglione un distaccamento di polizia tedesca rimasto alle Zattere, nella pensione “Calcina”. Intanto i prigionieri nazifascisti vengono condotti nelle aule dell’Accademia di Belle Arti.

Sono queste, anche a Venezia, giornate plumbee, grigie, come in quasi tutto il Veneto: piove sovente, la città è battuta da un’acquerugiola fastidiosa, che intralcia le operazioni militari. Ogni tanto il cielo scatena acquazzoni torrenziali: la primavera bella e soleggiata può sembrare lontana, anche se siamo alle soglie di maggio. E in questa città tetra e aggrondata si gioca una delle ultime partite con il nazifascismo.

All’albergo Regina continuano, intanto, frenetiche le trattative tra il Comitato Nazionale e i tedeschi. Dicono le cronache che fu un incontro spossante, con punte di alta drammaticità. Quando già sembrava che i tedeschi fossero disposti a cedere, eccoli opporsi alla consegna della mappa sulla quale erano segnalate punto per punto le mine del porto. Ciò rischia di far ricadere Venezia in quella zona oscura in cui era vissuta, per un anno e mezzo, con le calli trasformate in budelli micidiali, luoghi da agguati, dove si sparava e moriva, mentre le fondamenta, sferzate dall’acqua, erano trasformate in palcoscenici per la fucilazione di cittadini, e la popolazione veniva costretta dai mitra degli aguzzini, come una platea, ad assistere al massacro.

Eppure i fatti stavano rotolando verso il loro più naturale epilogo, che se le forze della Liberazione pagarono assai salato (non erano soldati professionisti, ed erano anche male armati), i nemici pagarono più onerosamente. Nelle giornate insurrezionali, le perdite del Corpo Volontari della Libertà, dipendenti dal Comando di Piazza di Venezia, assommarono a 21 morti e 118 feriti. Di contro, i tedeschi, che si opposero più concretamente dei disperati cecchini della Repubblica di Salò, ebbero 139 morti, 69 feriti e lasciarono 819 prigionieri, 57 dei quali erano ufficiali. Il numero dei fascisti caduti nella rete fu, comunque, ancora più rilevante: 2.930, a quanto risulta. Le fonti discordano lievemente: tuttavia, le cifre rispondono sostanzialmente alla verità.

Ma prima della firma della resa tedesca, le scaramucce si susseguono: nella notte del tormentatissimo 28 aprile, altri pontoni tedeschi vorrebbero impadronirsi di una nave, la Sergio Laghi. Tuttavia, i partigiani li mettono in fuga. Anche la nave Gradisca è nelle mani dei patrioti, ma uno di questi, nello scontro, perde la vita.

Poi, le trattative dell’hotel Regina arrivano a essere perfezionate: viene stabilito che tra la notte del 28 e le prime ore del 29, a parte i prigionieri già lasciati sul campo, i nazisti leveranno le tende. Ma, mancando alla parola data, disseminano di altre mine i punti strategici, continuando, nelle ore dell’esodo, a compiere selvagge anche se limitate distruzioni.

I partigiani sono ben determinati a non lasciare impuniti questi ultimi crimini, e nelle prime ore del 29, quando ormai la svastica, che aveva sventolato, per tanti mesi, in piazza San Marco davanti alla Platz-Kommandantur, è stata rimossa, quando l’ultimo presidio tedesco su due motovelieri armati con mitragliere da venti millimetri a canna multipla e cannoncini, più due motobarche, tre grandi motoscafi e altre imbarcazioni, lascia definitivamente la zona dell’Arsenale, i partigiani decidono di far pagare gli ultimi misfatti, sbarrando il passo ai fuggiaschi tra il Macello e il forte di San Secondo. Gli insorti sono pochi, con poche armi, ma, ormai, anche il tedesco più fanatico si rende conto che è meglio rinunciare a resistere.

Venezia è veramente libera solo il mattino del 30 aprile, anche se ancora qualche fascista ostinato, deciso a consumare, fino in fondo, il suo destino sbagliato, si nasconde sui tetti per sparare alla gente che si riversa nelle strade a festeggiare la fine del lungo incubo imposto dai persecutori. Il documento della resa era stato firmato, esattamente alle 4 del mattino del 29, presente il capo della missione militare inglese. Il 30, entrano in città le forze alleate, precedute nel pomeriggio del giorno avanti da alcuni nuclei neozelandesi, arrivati in una Venezia che tornava a essere rallegrata, dopo tanta pioggia, dal sole. Era terminato l’incubo di quella Venezia trasformata dai fascisti e dai tedeschi in una città di faide e delazioni.

Qualche giorno dopo, un messaggio del generale Mark Clark, destinato al popolo veneziano, suggella questa lunga vicenda:

Invio ai cittadini di Venezia le mie congratulazioni per l’insurrezione, coronata da pieno successo, che ha portato alla liberazione della loro città dalla morsa e dal controllo degli invasori. Possiamo dichiarare, per la verità, che la vostra città è stata liberata dall’interno, da forze armate del Corpo Volontari della Libertà, con l’aiuto e l’incoraggiamento dell’intera popolazione...”

In realtà, le forze del Quindicesimo Gruppo di Armate, quando raggiunsero Venezia, poterono passeggiare sul velluto. Un anno e mezzo di lotta spesso misconosciuta, crudele, apparentemente senza remunerazione, permise agli alleati un ingresso incruento in una città che molti soldati videro solo con gli occhi dei turisti. E fu in piazza San Marco che iniziarono a scattare le prime foto ai colombi e alle biondine.

Daniela Zini

Copyright © 26 luglio 2011 ADZ



Marted́ 26 Luglio,2011 Ore: 19:29
 
 
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