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www.ildialogo.org L’ITALIA POVERA DEL DOPOGUERRA,di Daniela Zini

STORIE D’ITALIA dal 1861 a oggi
L’ITALIA POVERA DEL DOPOGUERRA

di Daniela Zini

L’unità d’Italia fu perseguita e conseguita attraverso la confluenza di diverse visioni, strategie e tattiche, la combinazione di trame diplomatiche, iniziative politiche e azioni militari, l’intreccio di componenti moderate e componenti democratico-rivoluzionarie. Fu davvero una combinazione prodigiosa, che risultò vincente perché più forte delle tensioni anche aspre che l’attraversarono.”

Giorgio Napolitano

Alle scritte in tedesco, che contrassegnavano l’occupazione nazista nelle città, si sostituiscono, ora, i cartelli in lingua inglese. È l’Italia delle am-lire, degli sciuscià, di Tombolo e delle “segnorine”. Ma, è, anche, l’Italia che, sotto il governo formato da Ferruccio Parri, cerca, faticosamente, la propria strada verso la Democrazia.

Quando giunge la Liberazione, gli Alleati non hanno, del tutto, accantonato la diffidenza verso gli italiani, ma debbono riconoscere che tutta l’Italia settentrionale si è liberata da sola. Sicché i rapporti con le forze della Resistenza si ispirano, in genere, a una cautela che, altrove, non hanno usata. In passato, in incontri successivi, gli Alleati hanno promesso che avrebbero rispettato le sanzioni, volute dal CLN, nel campo delle epurazioni dei fascisti e, in generale, dei collaboratori dei tedeschi e avrebbero anche accettato le nomine alle cariche politiche e amministrative fatte dal CLN, da quelle di prefetto, questore, sindaco. Infine, alla fine del marzo 1945, queste promesse hanno trovato la loro codificazione in un protocollo concordato, a Milano, tra il CLN e il sottosegretario alle Terre occupate del governo Bonomi, Medici-Tornaquinci, presente il delegato permanente del comando alleato Max Salvatori.

Allorché arrivano, gli Alleati non fanno che confermare quanto hanno trovato nelle città e nei paesi liberati dai partigiani prima del loro arrivo, consentendo che l’ordine pubblico e il vettovagliamento delle città continuino a essere curati dai CLN, sotto la sorveglianza di reparti partigiani, trasformati, non senza improvvisazioni, in polizia ausiliaria. Gli Alleati, dunque, si tengono discretamente in disparte; lasciano – e lasceranno – a questa polizia estemporanea i compiti dell’ordine pubblico. Uno dei segni della loro presenza sono i cartelli indicatori in lingua inglese, che vengono a sostituire quelli tedeschi. Così vie, piazze si riempiono di cartelli che segnalano dove si trovino i petrol point, l’Allied Screening Commission, l’HO Military Police, come pure di cartelli indicatori delle varie direzioni; è il caso di piazza Duomo, a Milano, su cui si piantano pali fitti di queste segnalazioni. Inoltre, il Comando militare alleato conferma ovunque le nomine alle cariche pubbliche fatte dai CLN, dai reggenti e funzionari delle prefetture e delle questure: saranno gli unici prefetti, gli unici questori nominati direttamente dal basso, vale a dire dagli uomini che rappresentano quel movimento di massa che è stata la Resistenza. Per usare le parole di uno storico, Leo Valiani, che fa parte a quei tempi del Partito d’Azione, nel nord si è svolto un processo che può ben definirsi rivoluzionario, una lotta per l’indipendenza che è divenuta anche una rivoluzione nazionale, esattamente quella che Giuseppe Mazzini aveva sognato centodieci anni prima, per portarsela, quindi, inattuata, fino alla morte.

Al nord, nell’Italia partigiana, a quei tempi, vi è, infatti, una tensione morale e politica straordinaria. Da tempo i comitati di liberazione nazionale chiedono il potere a nome di quelle forze popolari che in Italia settentrionale si sono battute contro i tedeschi, per cambiare l’Italia, per annullare tutte le cause che hanno portato al fascismo e che erano insite nel vecchio Stato pre-fascista. Ora che i tedeschi si sono arresi, ora che vi è da pensare solamente al “dopo” le loro richieste si fanno recise.

Il 27 aprile, sul numero 2 dell’Italia Libera di Milano appare un articolo di Ernesto Rossi. Si intitola Il vento del Nord. Lo slogan è, già, in circolazione da alcuni mesi ed è attribuito a Pietro Nenni. Quindi, il 6 maggio, è lo stesso leader del Partito Socialista a usarlo come titolo per un suo articolo sull’Avanti!: ora che il taglio in due dell’Italia è cessato, che Roma e il mezzogiorno sono nuovamente uniti al nord, il vento rinnovatore del nord, quella lunga Resistenza che ha permesso il precisarsi delle istanze di rinnovamento politico e sociale dell’Italia, dove iniziare a soffiare su tutta la penisola.

Così, i comitati di liberazione, composti dai sei partiti antifascisti che hanno guidato la Resistenza e l’insurrezione nazionale, che hanno diretto la vita economica, amministrato le zone liberate e riorganizzato il tessuto della vita sociale e civile, lacerato dalla guerra, chiedono che il nuovo governo, il governo di questa Italia nuovamente riunificata, sia emanazione della sostanza di rinnovamento sociale e politico che sta alla loro base.

Vi è, tuttavia, un “ma”. Se rispetto alla situazione di Roma e del sud, quanto si è verificato a nord della Toscana rappresenta, infatti, in modo visibile, un ampio tentativo di rivoluzione politico-sociale, nelle capitale e nelle province meridionali sussiste quasi intatto, appena scalfito dalla tregua istituzionale, il vecchio Stato, che conserva ancora i vecchi codici fascisti e tutta la legislazione e la prassi amministrativa fascista in ogni questione di diritto pubblico e privato. A parte, ovviamente, quei diritti negati dal fascismo e, ora, riaffermati, quali la libertà di stampa, associazione politica e sindacale, di sciopero (anche se le disposizioni del codice penale Rocco e del testo di PS non sono state esplicitamente soppresse neppure in tali materie).

Al contrario del centro-sud, dove, dunque, esiste ancora praticamente intatto il vecchio apparato statale, là dove si estende l’autorità dei prefetti nominati dai CLN iniziano ad avere corso i decreti del 25 aprile e dei giorni successivi. Sono decreti che sovvertono, senza dubbio, sia pur con molte improvvisazioni, ma comunque con più che evidenti finalità politico-sociali – che sono, poi, quelle covate dall’antifascismo militante anche prima della Resistenza – quanto vi è di oligarchico nel diritto penale, civile e amministrativo preesistente e nella prassi della vita pubblica che ne deriva.

A maggio, vi è una riunione dei CLN con la partecipazione di delegati dell’Alta Italia; là è posto sul tappeto il problema dell’allargamento della direzione politica del Paese alle forze rappresentate nel comitato di liberazione dell’Alta Italia, che hanno svolto un ruolo essenziale nella Resistenza antifascista.

Così, il secondo governo Bonomi rassegna le dimissioni e, il 19 giugno, si forma un nuovo governo. È presieduto da Ferruccio Parri, il famoso vicecomandante del Corpo Volontari della Libertà. Parri appartiene al Partito d’Azione. È, questo, un partito che è stato presente nella Resistenza con le Brigate Giustizia e Libertà, che si richiama al partito dallo stesso nome che, nel Risorgimento, è stato aperto all’influenza mazziniana e la cui dottrina propone una sintesi tra socialismo e liberalismo.

La forza che esprime, al di là dello stesso partito – cui aderiscono, tra gli altri, Leo Valiani, Ugo La Malfa, Aldo Garosci e un letterato di larga umanità, Carlo Levi – la comune idealità che unirà, ancora per qualche tempo, uomini diversi sia per temperamento sia per opinioni è, appunto, la figura singolare di Ferruccio Parri, rappresentante politico e morale non solo del Partito d’Azione, ma anche espressione tra le più autentiche di quella nuova spiritualità mazziniana, vigorosa e ispirata ad alti ideali di umanità che ha permeato, nelle giornate dell’insurrezione nazionale, tutto il Paese.

Nel nuovo governo, De Gasperi va a reggere il ministero degli esteri, che, già, gli era stato affidato nel secondo ministero Bonomi; a Nenni spetta l’alto commissariato per l’epurazione e il ministero della costituente; Togliatti è nominato ministro di grazia e giustizia; al liberale Manlio Brusio è affidata la responsabilità del dicastero della consulta nazionale.

Parri, comunque, accetta l’incarico con molto coraggio e poche illusioni; sa che il suo governo ha davanti compiti immani, quelli di un’Italia di nuovo riunita ma semidistrutta.

La guerra è finita, quanto durerà ora il dopoguerra?

Il mercato nero?

La disoccupazione?

La crisi degli alloggi?

La miseria?

L’inflazione galoppante?

Dirà, anni dopo, lo stesso Ferruccio Parri:

 

Cercate di capire quale poteva essere il mio stato d’animo quando dovevo, andando in giro, constatare miserie e dolori e rovine – quelle dell’Abruzzo sulla Linea Gustav erano ancora orrende – con le tasche vuote, senza poter fare nulla, distribuendo solo parole di speranze.”

 

Per usare le parole di Benito Mussolini, gli italiani sono davvero arrivati “nudi alla meta”. In quei giorni, vi è ancora molta fame; la borsa nera continua a essere una delle piaghe del Paese: a Roma sono divenuti celebri gli empori di Porta Portese e di Tor di Nona, a Napoli quelli di Forcella e di Monte di Dio. Là, la gente si rifornisce di pane, grassi, medicine, coperte di lana dell’esercito americano – che, poi, tinge e fa diventare cappotti – pagando prezzi da borsa nera.

I treni sono pieni di corrieri che compiono disagiati viaggi di centinaia di chilometri trascinandosi dietro valigie di cartone pesanti come il piombo cariche di pane, olio, frutta, di quei generi, che mancano ovunque. Un posto in treno a sedere viene affittato alla ragguardevole cifra di 1.500 lire agli speculatori da gente che ha adottato, per vivere, il nuovissimo mestiere di occupante di posti: l’arte di arrangiarsi, in quei giorni, pare toccare l’apice.

Percorrere l’Italia in treno è impresa ardua; i treni arrivano e partono quando possono. Sono pochi, il materiale rotabile è danneggiato, ponti e cavalcavia distrutti. Migliaia e migliaia di persone, comunque, si sobbarcano a viaggi estenuanti, su carri bestiame stipati fino all’inverosimile. Infine, in estate, è possibile organizzare con autocarri un raccordo tra i tronconi delle maggiori linee, e i giornali lo annunciano come il primo segno del ritorno alla normalità. Soltanto alla fine di agosto, tuttavia, un treno partito da Roma riuscirà ad arrivare senza trasbordi fino al nord, a Torino, lungo la linea tirrenica, ripristinata a un binario: è un viaggio che dura ventisei ore.

Né solamente le linee ferrate e il materiale rotabile sono ridotti in condizioni terribili; ovunque le distruzioni sono ingenti: le strade statali, il 60%, e le minori, il 20%, sono danneggiate o distrutte, e distrutti sono pure 2.968 grandi ponti e 5.269 ponti su strade minori; porti, ospedali, scuole, tutto è in rovina. E le case: circa 2 milioni di vani risultano distrutti interamente, gravemente danneggiato un milione, danneggiati meno gravemente circa 4 milioni; nasce così una nuova parola: coabitazione. Viene coniata a Milano, nel Commissariato alloggi. Vuol dire levare la gente dalle cantine, dalle baracche, dalle case pericolanti per sistemarla negli appartamenti occupati, ma non stipati da altre famiglie.

In questa Italia, gli stessi bambini sono allo sbaraglio, spesso non hanno vesti, scarpe, né un piatto di minestra. Nel mezzogiorno, la miseria endemica si aggrava fino alla morte per inedia. Per sopravvivere, anche per molti bambini vale, dunque, la legge dell’arrangiarsi, adulti tra gli adulti, e, spesso, più tragicamente adulti dei grandi. In tutta l’Italia, ormai, diventa noto il termine “sciuscià”, da shoeshine, il bambino che segue le truppe alleate, le attende fuori delle caserme, lustra le scarpe, capace di rendere i servizi più vari; Vittorio De Sica li immortalerà in un suo film.

E a Tombolo, intanto, continuano a vivere neri e “segnorine”, come vengono chiamate nel dopoguerra le donne che si prostituiscono agli americani.

Tombolo è il favoloso regno alle spalle di Livorno dove vivono i disertori e dove, per chilometri e chilometri lungo l’Aurelia, si estende una sorta di grande centro di smistamento del materiale sottratto agli Alleati, pronto a essere avviato al traffico illegale. Quanto succede a Tombolo è spesso materia di cronaca nera, quella cronaca nera che la censura fascista ha eliminato dalle pagine dei giornali, senza, peraltro, eliminare i crimini.

La cronaca nera, ora torna alla ribalta. Si parla di una delle tante tragedie, nate dai tempi, del caso di Lydia Cirillo che ha ucciso a Napoli, con un revolver, il capitano Lash, che l’ha sedotta e ha rifiutato, poi, di sposarla. E si parla pure della saponificatrice di Correggio, di Leonarda Cianciulli, che, nel 1946, verrà condannata a trenta anni.

E, su tutto, gravissimo, il problema dell’inflazione, accresciuta dal vertiginoso circolare delle am-lire, lire americane, stampate dal governo militare alleato per pagare gli approvvigionamenti dell’esercito e le paghe dei soldati, al quale torna comodo risparmiare dollari e sterline con l’usare moneta che stampa con la stessa facilità con cui si stampano i volantini. I soldati ne tengono in tasca rotoli voluminosi; non badano ai prezzi; pagano tutto con questa moneta, di cui verranno emessi quasi due miliardi di esemplari – solo il pezzo da 100 lire rasenterà il mezzo miliardo!

In Italia, questa carta moneta dai colori splendenti – azzurro, verde, viola – si vedrà in giro fino al 1949, poi, nel 1950, tornata la normalità, ciò che rimarrà delle am-lire verrà ritirato dalla circolazione e mandato al macero.

La gioia per la ritrovata libertà, comunque, è sempre grande.

A Milano, il 14 luglio, il primo 14 luglio di libertà, diviene la festa simbolica della liberazione, secondo l’idea che ha avuto Antonio Greppi, appena fatto sindaco della città. L’organizzazione è affidata a Paolo Grassi, allora giovane critico teatrale dell’Avanti!. In dieci settimane, Grassi monta un grandioso spettacolo popolare. Al parco vi saranno sette piste da ballo, nove orchestre, fuochi d’artificio, mentre decine di orchestrine improvvisate andranno percorrendo la città in autocarro.

Tutta Milano balla e canta, fino oltre l’alba, sotto i lampioni e le bandiere, cantando la Marsigliese e brindando alla ritrovata libertà. Una grande ansia di rinnovamento pervade in quei giorni tutta la cultura italiana, che vuole rompere i vecchi schemi e recuperare gli anni perduti con l’imbalsamato accademismo fascista. A Milano, in estate, un regista esordiente, Giorgio Strehler, inizia a provare Il lutto si addice a Elettra di Eugene O’Neill; verrà messo in scena in autunno, all’Odeon. Nei cinema si proietta Roma città aperta di Roberto Rossellini, con Anna Magnani e Aldo Fabrizi, un film in cui Rossellini capta acutamente i sentimenti che la popolazione romana ha nutrito durante l’occupazione tedesca: la realtà acquista una nuova dimensione; il documento diventa racconto. Un metro nuovo, veramente inedito, per il film italiano, abituato al cinema di evasione dei telefoni bianchi dell’epoca fascista.

In quei giorni, tutti sono, o sembrano d’accordo sulla tesi che vi è bisogno di creare, attraverso vie democratiche, uno Stato nuovo, e non rimettere in piedi lo Stato pre-fascista, che, già, aveva in sé quelle tare che, poi, hanno portato al fascismo. Tra i tanti, vi è anche un immane provvedimento da prendere: quello dei profitti di regime. Tuttavia, non appena viene impostato incontra fortissime resistenze, quasi non ha vita. E, poi, vi sono le riforme da fare; ma, anche qui, le resistenze sono forti.

Ricorda Parri:

La sensazione che le cose per il governo non si mettessero bene si manifestò sin dall’agosto; i sintomi di tale stato di cose vennero da ambienti di industriali milanesi, i quali sentivano che un governo che insisteva su certi temi, cioè imposta straordinaria, avocazione dei profitti ed altre esigenze di tal fatta, era un governo incomodo, e che un simile governo, emanato e sostenuto dai CLN, poteva diventar pericoloso.”

Le forze conservatrici”,

ricorda Leo Valiani,

godevano del favore di larghi strati della popolazione, timorosa di sovvertimenti sociali. Queste forze si andarono progressivamente riorganizzando, contrastando e vanificando sempre più l’originario programma dei comitati di liberazione nazionale.”

È”,

dirà Parri,

ancora l’Italia fascista che resiste. Abbiamo avuto la disgrazia di un’Italia tagliata in due, di un’Italia meridionale che non ha conosciuto il travaglio di una lotta alla quale i giovani non furono chiamati, che non ha conosciuto il tormento dell’occupazione nazi-fascista, che si è trovata, perciò, in uno stato di relativa atonia rispetto all’altra parte del Paese. Ecco una delle ragioni di freno e di opposizione.”

Soprattutto nel centro-sud, così, prende piede il qualunquismo di Guglielmo Giannini, che si accanisce, con lo scherno e la denigrazione, contro il governo Parri. Giannini ha fondato l’Uomo Qualunque, l’8 agosto; il suo, afferma uno storico americano, Serge Hughes, è un movimento “con evidenti simpatie fasciste e con altrettanto evidenti appelli all’ordine”, portavoce degli epurati, dei burocrati meridionali e romani, che vedono messo in pericolo il loro potere dai decreti dei CLN e dall’immissione di uomini nuovi, della piccola borghesia disorientata dai tempi nuovi e dall’inflazione.

Noi”

scrive Guglielmo Giannini sul primo numero dell’Uomo Qualunque,

non abbiamo bisogno che di essere amministrati e per questo basta un buon ragioniere; non occorrono né Croce, né Nenni, né il pio Togliatti, né l’accorto De Gasperi.”

Giannini interpreta, insomma, rozzamente ma con vigore, uno stato d’animo inespresso ma diffuso; riassume il suo programma politico nella formula:

Non avere rotture di corbelli dal governo.”

Le forze conservatrici, che non possono più contare né sulla monarchia, troppo compromessa e sulla cui sorte ormai si nutrono forti dubbi, si servono, dunque, di questo partito per attaccare a viso aperto i CLN e la Resistenza e il “vento del nord” diventa così, per Giannini, il “rutto del nord”, Ferruccio Parri, “Fessuccio Parri”.

Da questo momento”,

scrive Paolo Murialdi nel suo La stampa italiana del dopoguerra,

l’azione politica di Giannini, tesa alla denigrazione delle forze di sinistra, finisce per catturare buona parte della piccola e media borghesia… Alla ventata di rinnovamento che la Resistenza ha creato e vuol realizzare si contrappone ormai una controspinta, un’ondata che da Roma tenta di salire verso il nord: è un moto che ha vari aspetti, quello legalitario dei liberali, quello conservatore del Vaticano, quello sentimentale e reazionario dei monarchici, quello protestatorio del qualunquismo.”

Il governo, a questo punto, è accusato di inefficienza e di carenza di competenze e i CLN di voler usurpare le prerogative che appartengono allo Stato di diritto; si condannano le epurazioni. Bisogna, si dice, dare un colpo di spugna sul passato; bisogna perdonare. Così, alla fine, si inizia a perdonare:

La politica di conciliazione”,

scriverà Achille Battaglia su un numero del 1946 de La Rivista penale,

mostra come ancora una volta gli alti papaveri se ne restino al sicuro e le restrizioni e i rigori vadano a colpire la minuta gente.”

 

Con l’autunno, la fine del “vento del nord”, e, quindi, del governo Parri, appare, ormai, vicina. Il 22 novembre, il segretario del PLI, Leone Cattani, dichiara di ritirare l’appoggio al governo. Tuttavia, da soli, i liberali non hanno, certo, un seguito di massa che consenta di imporre un orientamento preciso. Quel seguito l’hanno solamente la DC, i socialisti e i comunisti. Parri, allora, reagisce energicamente, dichiara che è sua intenzione di sostituire i liberali dimissionari. A questo punto, tuttavia, sono Alcide De Gasperi e i suoi colleghi che, a loro volta, si affrettano a rassegnare le dimissioni.

Davanti alla sfiducia espressa dal gesto dei democristiani, il 25 novembre, Parri presenta allora le dimissioni davanti al CLN centrale e con un discorso vigoroso denuncia il tentativo in atto di restaurazione del vecchio Stato:

Non c’è dubbio”,

scrive Hughes,

che le sue proposte per le riforme, inclusa una tassa sui redditi e tasse maggiori per l’industria pesante, ebbero un ruolo notevole nel forzarlo a rassegnare le dimissioni.”

Sedici anni più tardi Ugo La Malfa dirà:

Ritenemmo, col governo Parri, di avere aperto la grande via per il rinnovamento totale della vita nazionale… La caduta di quel governo segnò il primo arresto della spinta in avanti che la lotta antifascista, la Resistenza e la Liberazione avevano impresso al popolo italiano.”

Alla fine del 1945, gli Alleati restituiscono al governo di Roma l’amministrazione delle province settentrionali e De Gasperi, divenuto capo del nuovo governo, non tarderà a far sostituire con personale della vecchia carriera i prefetti e i questori nominati dai CLN. E liquiderà, anche, i commissari sequestratari delle grandi aziende, che verranno restituite ai loro proprietari senza alcun abbinamento con le procedure, che già iniziano a insabbiarsi, per l’accertamento e la riscossione dei profitti di guerra e di regime.

Gli interessi di classe”,

scriverà Enzo Forcella sul Mondo del 20 aprile 1954,

si erano mossi e stavano rapidamente travolgendo il mito della Resistenza. La crisi del governo Parri e la formazione del primo gabinetto De Gasperi costituiscono davvero, politicamente, e simbolicamente, il tramonto di una illusione, l’inizio di un nuovo periodo storico.”

Daniela Zini

Copyright © 2 giugno 2011 ADZ

 



Giovedì 02 Giugno,2011 Ore: 20:11
 
 
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