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www.ildialogo.org MILANO 1945,di Daniela Zini

STORIE D’ITALIA dal 1861 a oggi
MILANO 1945

di Daniela Zini

L’unità d’Italia fu perseguita e conseguita attraverso la confluenza di diverse visioni, strategie e tattiche, la combinazione di trame diplomatiche, iniziative politiche e azioni militari, l’intreccio di componenti moderate e componenti democratico-rivoluzionarie. Fu davvero una combinazione prodigiosa, che risultò vincente perché più forte delle tensioni anche aspre che l’attraversarono.”

Giorgio Napolitano

 

Ventisei aprile 1945.

L’Italia chiude la sua tragica partita con la seconda guerra mondiale.

Le truppe tedesche sono in rotta verso il Brennero, i reparti fascisti si sono dissolti.

Il Comitato Liberazione Nazionale Alta Italia prende possesso di tutto il territorio della Repubblica di Salò e istituisce propri organi di amministrazione nelle città, servendosi di forze partigiane.

Trascorrono le ultime cinque giornate di aprile.

Benito Mussolini e Claretta Petacci sono stati uccisi a Giulino di Mezzegra, i gerarchi che li seguivano fucilati a Dongo; le salme esposte in piazzale Loreto a Milano.

Sparatorie contro gli ultimi gruppi di fascisti che rifiutano di arrendersi.

Ecco il maggio della libertà piena.

Almeno questa è l’illusione degli italiani del nord, stanchi di divieti, di paure, di fame.

Milano è ancora il centro nevralgico degli avvenimenti in questo finale della guerra. Un finale che durerà a lungo, troppo a lungo. La popolazione è idealmente divisa in due parti. Vi sono coloro che cercano improvvisati nascondigli nelle stanze più segrete delle case di amici. Preziosi, ma anche rari quelli che hanno credenziali antifasciste. Fascisti della prima e della seconda ora, semplicemente persone che, per ragioni di lavoro, sono rimaste fino al 25 aprile in aziende, uffici, organizzazioni che abbiano avuto rapporti con la Repubblica di Salò e con i comandi tedeschi, si celano, atterriti dai giudizi sommari, in attesa che passi l’ondata di piena rappresaglia. L’altra parte è il popolo anonimo “neutrale”, che si è rovesciato per le strade fino dal primo giorno della liberazione a gridare, ad applaudire, ad abbracciarsi.

Le vie sono piene di folla, di risa, di grida.

È la pace, dicono, la vera pace, senza timori per il domani.

È la libertà di andare dove si vuole senza lasciapassare né controllo.

Le truppe alleate che hanno marciato rapidamente verso il nord, dopo aver varcato il Po, stranamente hanno rallentato la marcia alle porte di Milano. Qualcuno dubita che abbiano voluto attendere la fine del primo regolamento di conti tra italiani delle due barricate. L’ordine pubblico è affidato ai partigiani.

Il 1° maggio, festa dei lavoratori, vede per la prima volta una celebrazione pubblica. Nella notte gli inquilini delle case vicine alle carceri di San Vittore, rigurgitanti di prigionieri fascisti, odono un’intensa sparatoria. Proviene proprio dal recinto delle prigioni.

Che sarà stato?

Al mattino si apprende che non è accaduto nulla di grave; i partigiani di guardia hanno salutato la data a modo loro. La terribile paura dei reclusi, in quella notte, verrà raccontata in seguito da coloro che escono liberi.

Lo stesso giorno gli alleati assumono il controllo militare di tutto il nord dell’Italia, pur lasciando l’amministrazione civile ai delegati del CLNAI, Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia.

Riccardo Lombardi è il nuovo prefetto, Antonio Greppi il sindaco.

Le colonne di sodati anglo-americani, entrate da corso Lodi, sono state salutate da una folla entusiastica. Negli alleati i milanesi vedono la certezza della fine della guerra, della pace, ma soprattutto i portatori di beni troppo a lungo desiderati: pane bianco e carne, sigarette e caffé.

È un’illusione irrazionale, ma per chi ha molto sofferto l’irrazionale è la logica.

Il risveglio è, tuttavia, immediato.

Lo stesso giorno ecco i primi proclami firmati dal generale Harold Alexander.

É un lungo elenco di divieti e di castighi.

Punizioni per i reati contro le forze armate alleate, compresa la pena di morte; divieto di fotografare in pubblico; ordine di denunciare tutti gli apparecchi radio, pezzi, accessori, qualsiasi linea telefonica o telegrafica, perfino i colombi viaggiatori; ordine di denunciare anche macchine fotografiche, cineprese, telescopi. Controllo severo sui mezzi di trasporto privati; norme severe sulle riunioni e le assemblee. Immutati l’oscuramento e il razionamento dei viveri; o blocco dei salari e di tutti i prezzi dei generi alimentari. Vietato stampare o pubblicare libri, opuscoli, circolari; di importare ed esportare giornali, riviste, libri, stampe varie. Divieto di organizzare cortei; di eseguire canti, inni e musiche politici di qualsiasi nazione “che persegua attivamente la guerra contro qualsiasi delle nazioni unite”.

Inizia, intanto, l’inondazione dell’amlire. Sono tagli da una, 2, 5, 10, 500 e 1.000 lire. Tale moneta ha corso legale per i pagamenti di qualsiasi importo e nessuno può rifiutarsi di accertarla. Hanno corso legale anche i dollari degli Stati Uniti a timbro giallo; nonché tutti i biglietti in sterlina con l’iscrizione British Military Authority. Un dollaro USA timbro giallo vale 100 lire; una sterlina BMA 400 lire.

Quello che più colpisce gli italiani è il particolare che i proclami sono emessi in nome dell’AMG, Allied Military Government, ma nel testo si parla di “comando militare alleato del territorio occupato”.

Ma allora, si chiedono, dov’è la liberazione?

Dov’è la pace?

Si cerca una spiegazione nei molti giornali usciti subito dopo il 25 aprile.

La gara è stata vinta dall’Italia Libera, organo del partito d’azione uscito il 26 aprile, seguito immediatamente dall’Unità (PCI), dall’Avanti (PSI), dalla Libertà (PLI), dal Popolo (DC). Gli stabilimenti tipografici del Corriere della Sera e del Popolo d’Italia sono stati subito invasi dalle nuove schiere di redattori che hanno lavorato tutta la notte. Il Corriere della Sera è uscito soltanto il 26, poi, è venuto il divieto del CLNAI; riprenderà soltanto il 22 maggio, ma come Corriere d’Informazione, andrà avanti fino al 22 luglio come edizione del mattino; poi, sarà un giornale del pomeriggio perché il Corriere della Sera, come, a Torino, la Stampa e la Gazzetta del Popolo, anch’essi sospesi, hanno aggirato l’ostacolo mettendo accanto alla testata tradizionale un minuscolo “Nuovo”.

Il 2 maggio esce un quotidiano diverso il Giornale Lombardo formato ridotto; costa una lira. È edito a cura del PWB (Psychological warfare branch, sezione preposta al controllo della stampa), che è l’ufficio propaganda degli anglo-americani. Il primo numero pubblica anche notizie dei mesi precedenti dell’Italia del sud che non sono arrivate fino al nord. La notizia che più interessa è la decisione del consiglio dei ministri (30 gennaio) per la estensione del voto alle donne.

Ma i milanesi cercano soprattutto la spiegazione dei molti divieti e qualche previsione “alimentare” sul prossimo futuro.

Non vi è proprio nulla.

Vi è la cronaca degli arresti, l’arrivo del maresciallo Rodolfo Graziani a San Vittore.

 

Dovette spogliarsi all’ufficio matricola in modo eguale a tutti gli altri detenuti”,

 

la cattura del gerarca Attilio Teruzzi (al suo posto erano state, già, fucilate tre persone che avevano la barba come lui); l’arresto di Nuto Navarrini e del figlio di Starace, Luigi.

 

Le donne fasciste collaborazioniste”,

 

racconta il cronista,

 

sono state rapate e al collo portano un cartello:“Sono una spia fascista.”

 

I lettori scrutano anche gli orari dei treni. Quelli per Como e Lecco sono sospesi; circolano i convogli per le linee di Arona, Porto Ceresio, Luino, Bergamo, Cremona, Codogno e Pavia.

Una notizia senza titolo, ma “minima”:

 

In via Francesco Sforza dai ruderi di una casa sinistrata fascisti appiattati tra le rovine hanno sparato sui partigiani. È seguita una violenta reazione.”

 

Ordinaria amministrazione.

Ed è iniziata l’epoca d’oro del “banditismo”.

Ogni notte si uccide e si spara. Il prefetto di Milano emana un comunicato:

 

In virtù dei poteri conferitimi dal governo militare alleato per la Lombardia, ordino l’immediata sospensione delle fucilazioni arbitrarie disposte in seguito a procedimenti sommari da parte di formazioni di volontari o sedicenti tali. Tutti debbono essere consegnati alle commissioni di giustizia presso il palazzo di giustizia.”

 

Tra i primi provvedimenti del CLNAI, infatti, vi è stata la costituzione di queste commissioni di giustizia che funzionavano da ufficio di istruzione per il rinvio a giudizio dei fascisti, in base alle leggi eccezionali emanate da Roma. A giudicare erano le corti d’assise straordinarie.

I milanesi cercano di dimenticare tutto questo.

Sono avidi di svaghi.

Guardano più volentieri le notizie di spettacoli.

Il 4 maggio, si sono riaperti i cinema; ma i teatri sono ancora chiusi.

Il 6, viene pubblicato il primo elenco completo di spettacoli cinematografici. Sono trentadue i cinema aperti; vecchi film americani e film italiani “non compromessi”; James Cagney e Angelo Musco; Katharine Hepburn e Amedeo Nazzari.

Il 5 maggio, l’ammiraglio Doenitz, al quale Hitler ha trasmesso i poteri prima di suicidarsi, offre la resa agli alleati. Le truppe sovietiche sono entrate per prime a Berlino, hanno dilagato in tutta l’Europa dell’est. Ma agli italiani che hanno tempo e voglia di occuparsi degli avvenimenti al di fuori del problema della sopravvivenza, interessa di più il dramma di Trieste occupata, il 1° maggio, dalle truppe titine con l’esplicito proponimento di annettere la città alla Jugoslavia. Il dramma durerà un mese e dodici giorni. All’epilogo si conoscerà l’orrendo significato delle foibe (http://www.anpipianoro.it/...pdf).

I milanesi sembrano ormai rassegnati a vivere in bilico tra pace e guerra. Cercano di adattarsi come hanno fatto prima del 5 aprile. È finito l’incubo dei bombardamenti, ma la morte è sempre in agguato. La vita trascorre sul ritmo della giornata; ogni programma non può andare oltre le quarantotto ore. L’assillo principale è quello di trovare i generi alimentari. L’attività delle squadre di “vendicatori”, gli arresti, i processi spesso chiusi con condanne a morte sono eventi che non sfiorano la massa. Per le vie passano frequenti veicoli che portano verso le improvvisate prigioni altri fascisti catturati. Di gran moda il motocarro, agevole a manovrarsi e di poco consumo. In piedi, tra uomini armati, sono i prigionieri: le donne hanno il capo rasato. A qualcuno riportano l’immagine di stampe antiche, le carrette della rivoluzione francese avviate verso la ghigliottina.

Per mangiare esiste ancora la borsa nera.

Tutto come prima.

Ma, ora, è un commercio all’aria aperta, non più troppo clandestino.

E nelle esposizioni sono allineati cibi nuovi.

Oltre al pane bianco, vi sono scatole con scritte da decifrare: Meat and vegetable, stew, pineapple, pork and beans e, poi, burro, olio, zucchero, perfino cioccolato, oltre al chewing-gum e alle sigarette da nomi allettanti: Camel, Chesterfield, Raleigh. E ancora il provvidenziale DDT e tessuti di nylon e la Coca-Cola.

A Roma si fa politica, ma Roma è lontana; in Giappone, vi è ancora la guerra, ma il Giappone è dall’altra parte del mondo.

La Germania si è arresa e la guerra è veramente finita.

Tornano i primi reduci dai lager; tornano gli sfollati in cerca della loro casa.

La popolazione aumenta, le case sono diminuite di molte migliaia.

ILCLNAI ha istituito un commissariato per gli alloggi. Si fa conoscenza con un termine nuovo coabitazione. La gente approfitta del clima mite per vivere il più a lungo possibile all’aperto, cercando avidamente svaghi nella città ancora coperta di macerie. Nessuno può allontanarsi dalla città oltre quindici chilometri. È un altro dei divieti alleati, ma tutti possono girare liberamente per le strade. Il primo impulso è la curiosità di vedere cosa è avvenuto nella città, in tutta la città fino allora divisa in piccole isole chiuse per il timore degli abitanti di allontanarsi troppo da casa. Ecco il centro: ai piedi del Duomo teste di santi e merletti di marmo, in alto guglie inclinate; la Galleria ha la tettoia sfondata, scomparsi i vecchi, famosi caffé; la Scala ha la platea a cielo aperto; le macerie sono cadute sui palchi e le poltrone; piazza San Fedele è tutta una rovina; sembra irreale la statua di Alessandro Manzoni, intatta al centro tra gli edifici diroccati; più oltre corso Vittorio Emanuele è un unico cumulo di rovine che ingombrano la strada; così il Palazzo Reale e, dall’altra parte, la Ca’ Granda. Al Parco decine di grossi alberi completamente sradicati. E queste sono le distruzioni più vistose; ma non vi è strada che non presenti enormi squarci nelle file delle case e, accanto alle macerie, famiglie che bivaccano sui marciapiedi; altre che hanno adattato riquadri di stanze chiudendo i varchi con carta o stracci. Ovunque sono al lavoro scalpellini e verniciatori volontari che si danno da fare a eliminare scritte, emblemi, bassorilievi, con i simboli e le immagini del fascismo; altri sostituiscono le targhe stradali dedicate ai martiri fascisti con altre provvisorie che recano i nomi di caduti partigiani.

Le rovine non suscitano grande impressione; ci si vive ormai da anni; tutto sembra come prima quando vi erano i tedeschi. Tuttavia, qualcosa è cambiato: lo stato d’animo.

La fame continua; mancano le case, ma la guerra è finita.

Un tonico per l’animo.

Per dimenticare bisogna inventare i divertimenti.

Il ballo soprattutto.

Vi è una grande sete di ritmi nuovi fino allora soltanto conosciuti nei loro nomi. Sulla scia dei soldati americani, è giunto il boogie woogie, ma non si tralasciano neppure la raspa e lo spirù. Il liscio perde terreno. Si improvvisano balere ovunque. È meglio, si può ballare anche all’aperto. Si spianano le macerie di un edificio bombardato e la pista è pronta. Che sotto, nel fondo delle cantine crollate, vi siano ancora dei morti non importa. Ricercatissimi i neri maestri di boogie (e anche prodighi di viveri di conforto). Poi, vi è il cinema e la radio, utilissima perché vi è ancora il coprifuoco: dalle 22.30 alle 5 del mattino. Programmi modesti per i primi giorni: un’orchestra di musica leggera, notiziario, caleidoscopio da New York nel pomeriggio, alla sera “musica caratteristica” e canzoni napoletane; poi, la voce di Londra. Soltanto alle 23 è trasmesso un programma di musica jazz.

Arrivano canzoni nuove altre ne sono composte in fretta dai maestri rimasti a Milano. A Napoli si canta da un anno:

 

Chi ha avuto ha avuto – chi ha dato ha dato – scurdammece ‘o passato – simme ‘o Napule, paisà.”

 

È il trattato di pace offerto dai napoletani ai soldati fino a ieri nemici. Dal Sud giunge anche la canzone che sintetizza il dramma dell’amore in bianco e nero: Tammuriata nera,

insieme con la canzone della nostalgia: “Cuore napoletano sei sempre tu – anche se a Marechiaro non canto più”. Al nord si canta il Valzer dell’organino di Mascheroni, Ultime foglie di Bertini, Voglio amar di Marchetti, ma si canta anche la vecchia Famiglia Brambilla in vacanza, che alla radio ha avuto una piccola variante; non più “Sulla vecchia Balilla si avanza”, bensì: “Sulla vecchia torpedo s’avanza”. Ma la canzone che interpreta il dramma più angoscioso dell’ora è In cerca di te (Sola me ne vo per la città- cerco tra la folla che jon sa – che non vede il mio dolore), e l’altra ancora più triste “Bianco il volto di cera – torna il reduce in città – Egli è solo – disperatamente solo”.

La voglia esasperata di vivere torna subito dopo sul ritmo di “Un pò di luna – un pò di mare – un pò di musica” di Ravasini, lanciata da Wanda Osiris che abbaglia gli spettatori con le fastose scenografie. Tra le cantanti, nel 1945, esordisce Flo Sandoz in uno spettacolo della Croce Rossa americana, alla radio riprende il posto di guida l’orchestra Angelini. Il jazz è ora uscito all’aperto. Gli appassionati di musica danno la caccia ai dischi americani portati dai soldati. In America, è stato già lanciato il microsolco che tra pochi anni sovvertirà il mercato discografico italiano. Anche i dischi si possono acquistare alla borsa nera in mezzo a sigarette zigrinate, alla benzina, al pane bianco, allo scatolame dalle sigle strane.

Sono le sigle che nella dizione italiana iniziano la trasformazione e l’arricchimento del nostro vocabolario. La parola più curiosa e più originale è certamente “sciuscià”, corruzione dello shoeshine, lustrascarpe. Sono i ragazzini del meridione che si sono dedicati in quantità incredibile a questo mestiere, al servizio quasi esclusivo dei soldati alleati. Ne nasce anche una canzone “E sorrido nel gridare perché – sciuscià della strada io mi sento il re”. Poi, verrà il film di Vittorio De Sica.

Ma i neologismi sono ormai un numero incredibile. Alcuni, come si è detto, corruzione di parole inglesi, altri inventati per esprimere situazioni nuove tipicamente italiane, altri, infine, di origine politica: doppiogioco, epurazione e defascitizzazione; intrallazzo e bidone, repubblichini e bieco ventennio; far fuori e mimetizzarsi, borsanerista e amlire, signorine e coabitazione. E, poi, ancora “pinap” (da pin-up girl) e “bughivughi”, “okey” e “blugin”, “cicca” (chewing-gum).

Le salme di Benito Mussolini e di Claretta Pedacci sono state inumate a Musocco; le salme dei gerarchi fucilati a Dongo sono sepolte nella sezione riservata ai tedeschi. Una corrispondenza racconta l’ultimo viaggio di Mussolini.

Il 2 maggio il Giornale Lombardo pubblica:

 

Milano è pronta ad accendere le luci”,

 

ma si dovranno attendere diversi giorni perché occorre la revisione di tutti gli impianti. Soltanto il 7 maggio la grande notizia:

 

Risplende la Madonnina.”

 

Nella colonna a fianco una notiziola senza rilievo:

 

Trenta morti sconosciuti trasportati dalle lettighe all’obitorio.”

 

I treni, ora, sono più numerosi: si arriva fino a Sesto Calende; i tram sono in servizio fino alle 21.30; il servizio telefonico è ancora sospeso. Da Roma giungono due notizie: epurato il Senato; si prepara la legge per la confisca dei profitti del regime.

Il giorno 10, si riaprono i teatri: Laura Adani al Nuovo con La sorellina di lusso di Birabeau; al Carcano l’Andrea Chenier, al Gerolamo spettacolo di marionette, al Nazionale una compagnia C. Aldrovanti si presenta con Biancaneve i sette nani e le sette sorelline. Tra i cantanti vi sono Arturo Testa e Wilma De Angelis.

Tra gli avvisi economici abbondano le offerte di lezioni di inglese. Nei giornali una rubrica fissa: arresti e fucilazioni. Poi, una notizia più interessante in quel momento: prossimamente pane salato per tutti.

Ora la città è tutta illuminata e la luce esce dalle finestre spalancate. Questa sì che è la pace, anche se nella notte si continua a sparare. Ma sono rapinatori, non più guerra. Unica faccenda che non fa progressi è la mancanza di viveri. A placare lo stomaco in qualche modo vi sono i ristoranti del popolo divisi in tre categorie a prezzo fisso: 55, 45 e 35 lire. Il menù è identico; cambia il servizio; poi, vi sono le mense collettive a 8 lire. Qualcuno ricordando un famoso verso di Quasimodo sintetizza il menù:

 

Minestra ed è subito pera.”

 

Siamo in giugno. La vita della città continua a essere intessuta di piccole vicende umane, ma soprattutto di sensazioni. Le vie del centro e dell’estrema periferia hanno visto una fioritura di cartelli a grappoli. Sono le indicazioni per i reparti e per i soldati alleati. Su tutti primeggia la scritta Off limits. La popolazione inizia a stringere più cordiali contatti con i soldati.

Occupanti?

Liberatori?

Nessuno sa dirlo con esattezza.

Sul piano politico generale è certo che l’Italia avverte l’atmosfera di ostilità dei Paesi cobelligeranti. Soltanto l’America appare veramente amica. Si è appreso, infatti, che fin dal 20 marzo, Alberto Tarchiani ha potuto andare a Washington con le credenziali di ambasciatore; Nicolò Carandini a Londra, invece, è costretto a vivere in albergo come un cittadino privato.

A Roma, tornata capitale d’Italia, sia pure sotto tutela americana, è ripresa la liturgia politica come prima del fascismo.

Con gli stessi uomini.

A Milano gli esponenti della Resistenza vorrebbero innovare il sistema; si parla sempre più violentemente di repubblica, i comunisti premono per conquistare un’area di potere, ma sanno che da Mosca non potranno avere aiuti concreti.

Il trattato di Yalta sulla divisione delle zone di influenza in Europa ha escluso l’Italia dell’area sovietica.

Nella gara per la leadership politica sono in testa la DC e il PSI.

I democratici hanno l’appoggio determinante del Vaticano; vantando meriti resistenziali, anche i preti diventano propagandisti politici. Nella propaganda delle sinistre diventano gli agit-pret in contrapposizione agli agit-prop del PCI. Pietro Nenni si è alleato con i comunisti e perde terreno. Si batte per rinnovare il sistema politico e ha l’appoggio del partito d’azione. Nasce il vento del nord, riprendendo un titolo dell’Italia libera e l’altro slogan divenuto popolare: Politique d’abord.

Il 2 maggio, il principe Umberto, al quale il re ha trasmesso i poteri come luogotenente, compie un viaggio al nord. A Milano, è accolto con ostilità. Nella notte la villa in cui è ospite è fatta segno a scariche di mitra e al lancio di bombe a mano.

Il 4 maggio, i rappresentanti del CLNAI vanno a Roma per una riunione plenaria con il presidente del consiglio Ivanoe Bonomi. La discussione è aspra. Continua per molti giorni senza conclusione.

Il 10 maggio, i socialisti organizzano una riunione di partito al Brancaccio. Sandro Pertini si dimostra il più irruente e si scaglia soprattutto contro il principe Umberto, che si guarderà bene dal ritornare a Milano, finirebbe a piazzale Loreto.

Tra governo e CLNAI non vi è possibilità di accordo.

Per un altro tentativo di conciliazione, il 14 maggio, sono gli esponenti politici di Roma che risalgono al nord. Vi è ancora il divieto alleato di organizzare cortei e comizi. Pietro Nenni che ha voluto parlare alla folla in piazza, a Vercelli, è arrestato dalla Military Police e trattenuto per otto ore. Anche Togliatti viene fermato, ma rilasciato poco dopo.

I giovani seguono con curiosità questi giochi, che per loro sono una novità; gli altri se ne disinteressano.

Ma tutti vivono il dramma di Trieste.

Il 10 giugno Harry S. Truman impone a Tito di sgomberare la città; tuttavia, siamo ancora al primo tempo del futuro assetto nazionale. L’Italia è assediata da richieste di risarcimenti che sono anche richieste territoriali: Jugoslavia, Albania, Grecia, Etiopia, Austria, tutti hanno qualcosa da chiederci.

Se ne discute, ma, poi, ognuno torna ai problemi individuali. E sono problemi angosciosi. Rientrano sempre più numerosi gli sfollati, i prigionieri dal Kenia, gli internati. Per coloro che sono riusciti a salvare il loro confortevole appartamento vi è l’incubo della coabitazione. Si racconterà, poi, di un noto commercialista che si è visto piombare in casa uno sconosciuto napoletano munito di un biglietto del commissariato alloggi. Offerte di denaro non lo smuovono; vuole abitare in quella casa e basta. Inizia una vita difficile; una notte al momento di coricarsi, gli si schianta un piede del letto; al mattino troverà le tasche della giacca piene di segatura. Un’altra notte è svegliato dal passaggio, dietro la porta a vetri, di un fantasma urlante. Scettico, si apposta dietro l’uscio e al passaggio della figura avvolta in un lenzuolo bianco, lo assale vibrandole un’ombrellata sul capo. Conclusione: scambio di querele tra il commercialista e l’inquilino non gradito.

Si racconterà ancora di una signora in stato interessante che, uscita per la spesa, trova al ritorno la porta sbarrata. Un’altra famiglia regolarmente autorizzata ha occupato l’appartamento. Alla fine dovrà intervenire il prefetto, che bloccherà la concessione di permessi in attesa di una revisione. È evidente che gli impiegati rilasciano autorizzazioni senza alcuna indagine preventiva, sulla base delle asserzioni del richiedente. Un pò poco. Tuttavia, la coabitazione risolve una minima parte del problema. La stazione centrale è ormai un immenso dormitorio; le panchine dei parchi, grazie al clima mite, sono altrettanti giacigli improvvisati.

Situazione drammatica anche nelle industrie. Il CLNAI al momento di assumere i poteri aveva nominato commissari di gestione, in sostituzione dei commissari della socializzazione ideati dalla repubblica di Salò. Le sinistre, dopo aver lottato contro i fascisti e i tedeschi, ora hanno preso a bersaglio i grandi industriali. Prima misura: estrometterli dalle grandi aziende. Ma con i comitati operai le fabbriche non marciano, anche perché non trovano i crediti necessari. I lavoratori hanno ricostituito i loro sindacati, i partiti della Resistenza sono stati tutti d’accordo nel creare la CGIL, vale a dire una confederazione unitaria. Iniziano le agitazioni per la revisione dei salari. In Sicilia, già da un anno, vi sono sommosse e occupazioni di latifondi; altri tumulti sanguinosi scoppiano in Puglia. Ad aggravare la situazione vi è in Sicilia l’attività dell’EVIS (Esercito Volontario per l'Indipendenza della Sicilia), il movimento separatista. Si dice che a comandare le truppe vi sia un bandito, Salvatore Giuliano.

Il governo è in mano a una esarchia: sei partiti di tendenze opposte che cercano, invano, di mettersi d’accordo. I sei partiti sono la DC, il PSI, il PCI, il PLI; poi, vi è la Democrazia del Lavoro, qualcosa come un partito nostrano di laburisti e il partito d’azione, il partito di tecnocrati. Il partito repubblicano fa da osservatore.

Il 12 giugno, Bonomi è costretto a dare le dimissioni. Vi è chi trionfalmente grida che è stato spazzato via dal vento del nord. Tutti gli esponenti politici sono, infatti, d’accordo nella designazione di Ferruccio Parri, l’uomo della resistenza. Parri riesce a costituire il nuovo governo, il 20 giugno, le componenti, tuttavia, sono identiche. Compito del nuovo governo è quello di preparare la Consulta, un parlamento provvisorio in attesa delle elezioni, che avranno luogo il 2 giugno del 1946. Accanto a Parri è Nenni come vicepresidente e alto commissario per l’epurazione. A lui spetta anche il compito di esaminare le liste dell’OVRA. Si decide che della consulta facciano parte 156 rappresentanti dei partiti del CLN oltre a venti rappresentanti degli altri partiti (partito repubblicano, partito democratico italiano, concentrazione democratica liberale). Poi, entreranno nell’assemblea gli ex-deputati dell’Aventino e quanti si sono opposti al fascismo; rappresentanti dei sindacati, dei reduci, dei partigiani, dei mutilati, della cultura, delle libere professioni, di tecnici. Infine, gli ex-membri del governo dalla liberazione di Roma in poi, e gli ex-alti commissari.

Si stabilisce la data della prima convocazione: 25 settembre.

Il problema istituzionale sembra prevalente, ma agli italiani interessa molto di più il problema della ricostruzione, vale a dire il ritorno alla normalità. E nel quadro della normalità rientra non soltanto il rifornimento dei viveri, ma anche l’eliminazione del banditismo che è divenuto un incubo ovunque. Banditi di città e banditi di montagna. I valichi appennini della Cisa, del Bracco, di Radicofani sono punti fissi di assalto dei rapinatori.

Nel maggio, in città, vi erano piccoli gruppi che agivano anche di giorno e in pieno centro; poi, le bande si sono fatte più numerose; è iniziato il grande assalto alle fabbriche e ai magazzini, punteggiati da conflitti a fuoco con la polizia. In media, a Milano, si registrano quattro, cinque rapine per notte. I banditi dispongono, perfino, di collegamenti radio, di staffette motociclistiche. Negli scali ferroviari sono all’opera spiombatori.

Diventano popolari i nomi dei grandi del crimine: Ezio Barbieri a Milano, il Gobbo del Quarticciolo a Roma, La Marca a Napoli, Giuliano in Sicilia. Al nord il fenomeno è più complesso. Si uccide per rapinare, ma si uccide anche per vendetta politica.

A metà maggio, il generale Harold Alexander aveva ordinato la smobilitazione dei reparti partigiani. Gli estremisti accolsero l’ordine con sorpresa e indignazione. Parlavano di tradimento; si minacciavano ribellioni contro le truppe alleate.

Togliatti se ne preoccupò.

Sapeva che gli anglo-americani non avevano molta simpatia per i comunisti; una ribellione anche limitata sarebbe stato motivo sufficiente per scatenare una dura repressione militare. Vi era il recente esempio della Grecia dove le truppe inglesi avevano avuto mano libera contro i partigiani comunisti. Sapeva che Mosca non avrebbe mosso un dito; erano i patti di Yalta. E sarebbe stata una inutile decimazione di una forza che doveva, invece, restare intatta per altri compiti futuri. Si rimediò alla smobilitazione immettendo gli elementi di maggiore affidamento nella polizia. Non ottenne, invece, esito, la proposta di fare un esercito solo di partigiani.

Alcuni dei più “estremisti” non si rassegnarono ugualmente; e nacquero così le cronache della Volante Rossa di cui si parlò a Milano, per oltre un anno. Aveva sede presso la casa del popolo di via Conte Rosso a Lambrate.

La comandava un partigiano ventenne, il tenente Alvaro, alias Giulio Paggio.

Sul mitra aveva inciso il motto Non si concedono bis.

I componenti della Volante avevano una divisa, un codice speciale, un vessillo costituito da un drappo rosso con una bomba per emblema e, perfino, un inno ufficiale. Furono attribuite loro esecuzioni che avevano ancora la fulmineità inesorabile della guerra clandestina, ma che i tempi non giustificavano più. La banda agirà fino al 1949, quando una azione massiccia della polizia riuscirà a sgominarla. Alvaro e i due suoi principali collaboratori fuggirono oltre cortina.

Tutto qui?

La storia, dall’Unità d’Italia, non è come ce l’hanno raccontata, ed è giusto quindi riappropriarci di quel che ci spetta.

Il bilancio delle rovine di Milano fu impressionante. La città era sepolta da 4 milioni di metri cubi di macerie; 360mila vani abitati erano andati distrutti, 200mila danneggiati su un totale di 935mila locali. Distrutti 450 tram, altri 200 resi inservibili, 50 addirittura scomparsi.

Nel maggio del 1945, la popolazione era di un milione 90mila abitanti; a fine anno, salì a un milione e 221.154 unità con il ritorno dei reduci e con gli immigrati. E in più vi era la popolazione fluttuante e pendolare che ammontava a 200/259mila unità. Nella situazione squallida un paradosso: un giornale fece un sondaggio per chiedere cosa mancasse a Milano; molti risposero un grattacielo.

Se appena si volgeva lo sguardo oltre la città la situazione era ancora più drammatica. I vani distrutti o comunque inabitabili erano il dieci per cento di quelli esistenti prima della guerra. I senzatetto erano ospitati in edifici pubblici, ex-caserme, scuole, ma era sempre poco. E, poi, vi erano le ferrovie, le strade statali, i ponti, gli edifici portuali distrutti insieme con le scuole, le chiese, gli ospedali, tutto da ricostruire. Nel panorama industriale il complesso delle distruzioni era valutato a circa 450 miliardi di lire; particolarmente colpiti i settori siderurgico, elettrico, cantieristico, chimico. I prezzi che, nel 1944, erano già saliti a dieci volte il livello prebellico, furono aumentati fino a venti volte. Il torchio continuava a stampare carta moneta, ma la spirale prezzi-salari era inarrestabile.

Era la miseria.

E, tuttavia, i locali pubblici erano sempre affollati e la gente era in cerca di sempre nuovi svaghi.

Il giornale costava, ora, 3 lire.

Venne di moda il neorealismo anche nel giornalismo.

Un cronista inventò le inchieste dal vivo; si improvvisò barbone, operaio di una grande fabbrica, ballerino.

I memoriali si moltiplicarono.

Accanto alle storie romanzate su Claretta Petacci, vi erano anche i diari segreti di Roberto Farinacci, fucilato a Vimercate, il 28 maggio; contenevano roventi accuse contro i gerarchi e contro lo stesso Mussolini, insieme a indiscrezioni sui suoi amori segreti. Cronache fosche sui lager tedeschi, delle sevizie a Villa Trieste di Milano, i primi accenni all’oro di Dongo che sarebbe divenuto, poi, un argomento ricorrente insieme con il memoriale di Pedro e Bill, i due partigiani che catturarono Mussolini.

Trascorse il luglio del 1945, terzo mese di “pace”, identico al maggio e al giugno. Sembrava proprio che la situazione di “guerra in tempo di pace” dovesse continuare all’infinito. Le corti d’assise straordinarie continuarono a getto continuo i processi per collaborazione con il tedesco invasore.

Numerose le condanne a morte, poche quelle eseguite; la Cassazione provvide, in seguito, ad annullare le sentenze più “rivoluzionarie”.

Questa era una faccia della situazione.

L’altra, anch’essa immutabile, era la lotta singola per la sopravvivenza.

Mancava il gas, la luce era razionata; era difficile trovare cibo, ancora più difficile cucinarlo.

Intanto, l’inflazione galoppava per lo stimolo delle amlire. Ten, hundred, thousand, sono nuove unità di misura della moneta.

La nostra lira si rincantucciò sempre più.

Il favoloso bigliettone da mille, il lenzuolo, emesso nel 1897, resisteva ancora; fu ritirato soltanto nel 1946. Quando era entrato in circolazione valeva 450mila lire degli Anni Sessanta, quando morì con quelle mille lire si acquistava con 5mila lire. La borsa nera viaggiava più comodamente, sui treni che collegavano le città del nord e sui camions, incredibili veicoli che percorrevano tutta intera l’asse della Nazione.

Gli americani avevano appreso a “commerciare”. Dai depositi scomparivano le merci più pregiate. A Napoli, si calcola che un terzo di tutte le merci in arrivo per le truppe si disperdesse per mille rivoli.

Un cartello all’ingresso della città avvertiva City of Thieves, città di ladri.

É oltraggioso, ma risponde alla realtà.

Al nord i militari sono più cauti, ma le bancarelle di esposizione sono sempre fornitissime. E, poi, vi è il piccolo cabotaggio dei borsari neri che fanno la spola con la campagna, soprattutto lungo l’itinerario Milano-Genova. Quando le linee ripresero a funzionare vi furono i treni occupati quasi esclusivamente da incettatori di merci. I treni della notte. Era un movimento a incrocio. Dal Veneto e dalla Lombardia verso la Liguria e viceversa. A Pavia salivano le pattuglie provenienti dal Piacentino e dal Cremonese. Bressana Bottarone era una tappa d’obbligo, dove il treno veniva preso d’assalto. Donne, uomini, bambini, tutti vestiti miseramente, appesantiti da incredibili bagagli. Valigie di fibra, tenute insieme da funi, sacchi gonfi da straripare, pesanti come macigni, pacchi di carta sapientemente legati, cassette dagli spigolo aguzzi e, soprattutto reti. Salivano in treno a branchi. Il viaggiatore comune era tagliato fuori. Analogo assalto a Lungavilla. Nei corridoi, sui portabagagli, negli spazi tra un sedile e l’altro si accumulavano cataste inverosimili di colli. Sembravano incastrarsi nel soffitto. Così tappa dopo tappa, fino a Genova, e o in senso inverso, fino a Milano. I controllori andavano alla ricerca dei colli che “superassero il peso”, ma era impresa impossibile. Sceglievano una campionatura; una multa ogni cento viaggiatori, tanto per avere la coscienza a posto. Il primo posteggio di vendita era addirittura sui marciapiedi della stazione di arrivo, il secondo sul piazzale antistante; infine la residua merce arrivava ai depositi.

Passata l’ondata di furore, i fascisti iniziarono a uscire dai nascondigli.

Cercarono di mimetizzarsi.

Dire che sembra ieri o che non sembra vero, non è soltanto l’indulgente luogo comune suggerito dall’inganno della memoria.

Per molti, quella situazione di speranze disattese e di novità procrastinate sopravvive, attuale, nelle promesse e nelle incertezze di cui sembra gravida la tensione politica in questi giorni.

Se il primo pensiero è per i partigiani caduti, devo dire che questi vanno onorati non soltanto perché furono coraggiosi, perché sacrificarono la vita per la patria e per la libertà, ma soprattutto perché si batterono per la buona causa.

Anche tra i soldati di Radetzky, durante le cinque giornate di Milano, anche tra i paracadutisti francesi, durante la guerra di Algeria, vi erano uomini animati da grande coraggio. La loro lealtà andava, tuttavia, in senso contrario a quello della storia e il loro valore militare non era illuminato da valori civili, da valori universali.

Che abbiano scelto volontariamente la strada della lotta e abbiano lottato per una causa giusta, vale a dire la cacciata dei tedeschi e l’abbattimento del fascismo, è la nostra fierezza.

Ma è, a questo punto, che l’esperienza degli anni successivi deve portarci a riesaminare le posizioni e le scelte di allora.

Allora a molti era parso che fosse sufficiente prendere la strada della lotta.

Avevano solo venti anni e vi era da combattere contro l’oppressione nazi-fascista, sembrava che non vi fosse tempo né necessità di fare politica, di fare scelte politiche. In realtà, le cose non stavano così; il problema era troppo complesso per essere posto nei termini semplici, come potevano vederlo allora quei giovani di anni e di esperienza.

Incanalata nel moderatismo, disperante luogo di confluenza di ogni nostra rivoluzione nazionale, la Resistenza non aveva attraversato tante bufere per giungere soltanto a questo arido approdo né questa poteva essere la ragione ultima di quanti combatterono o caddero sulle montagne e negli agguati delle città. Accelerare il passo della libertà non poteva rappresentare l’unico obiettivo di tanto sanguinoso sforzo oppure la libertà andava intesa nella sua accezione più ampia, coinvolgente tutti i diritti che non furono riconosciuti.

Anche il Risorgimento aveva fallito tanta parte dei suoi traguardi: i moti popolari, tutti percorsi di spirito repubblicano e liberale, avevano consegnato la penisola a una monarchia ma l’unità nazionale, per travagliata e opinabile che fosse, era stata raggiunta, si era, in altri termini, realizzata, sia pure in forme oblique e innaturali, una finalità primaria.

Con la Resistenza, no: le classi povere vi avevano avuto un ruolo di grande preponderanza, a differenza del Risorgimento, ed era lecito pensare che i braccianti e i metalmeccanici non andassero al muro né si difendessero ferocemente sulle montagne soltanto per consegnare l’Italia alla classe politica prefascista, agli Orlando, ai Nitti, ai Bonomi.

La Repubblica, nata un anno dopo la Liberazione, non poteva bastare a tanta fame di pane e di mutamenti; la Costituzione appariva come un troppo fragile strumento per la difesa di una troppo gracile libertà.

Il maquisard francese, che aveva impugnato i fucili contro i tedeschi, aveva alle spalle secoli di storia nazionale, un orgoglio patriottico che attingeva anche alle mai sopite motivazioni del revanscismo, la solidarietà dei grandi generali e di gran parte della classe militare, la consapevole ambizione di essere allineato con le armate vittoriose che da occidente e da oriente marciavano sull’Elba: il partigiano italiano non ebbe nulla di tutto questo. Quando alle sue inquietudini di povero volontario nel più povero degli eserciti ribelli non mancava altro, arrivavano i bandi melliflui della repubblica di Salò perché si consegnasse senza colpo ferire o le desolanti sollecitazioni di Harold Alexander perché se ne tornasse a casa.

Se il suo “91” di terza mano non gli cadde nella neve, nel gelo di quella solitudine fisica e morale, dovette essere perché il partigiano si era costruito dentro speranze e certezze legate al giorno della liberazione: tutto, oggi, poteva essere sopportato in vista di quello straordinario domani.

I partigiani sono stati abbandonati, quando è stato il momento di fare i governi e le politiche.

È vero che i contadini e i montanari non chiedevano tanto, perché a loro era bastato difendere le loro case dai predoni in divisa nera; ma, per gli altri, il discorso era diverso: se la Resistenza fosse entrata nei governi molte cose in Italia sarebbero andate nella direzione giusta, si sarebbero combinati meno errori e meno soprusi.

Anche per questo ora la commemorazione della Resistenza, per quel tanto di conclusivo e remoto che si accompagna a tutti gli anniversari, deve sembrare impropria a quella generazione di ottantenni che la vissero e le sopravvissero senza vederne realizzate le grandi promesse civili.

Ma la rievocazione, nelle parole e nelle immagini di Massimo Recchioni, vuole tenere conto soltanto del dovere di ricordare: restituire alla storia volti e momenti di un tempo in cui noi non eravamo.

La Resistenza, per lui, è ancora quelque chose de passionnant.

Daniela Zini

Copyright © 9 aprile 2011 ADZ

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Sabato 09 Aprile,2011 Ore: 15:56
 
 
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