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www.ildialogo.org MILANO 1898 una città sotto accusa,di Daniela Zini

STORIE D’ITALIA dal 1861 a oggi
MILANO 1898 una città sotto accusa

di Daniela Zini

L’unità d’Italia fu perseguita e conseguita attraverso la confluenza di diverse visioni, strategie e tattiche, la combinazione di trame diplomatiche, iniziative politiche e azioni militari, l’intreccio di componenti moderate e componenti democratico-rivoluzionarie. Fu davvero una combinazione prodigiosa, che risultò vincente perché più forte delle tensioni anche aspre che l’attraversarono.”

Giorgio Napolitano


 

Pare di essere al campo!”,

esclama l’inviato del giornale I tribunali, la mattina del 16 giugno 1898, entrando nel grande cortile del Castello Sforzesco di Milano, brulicante di soldati, ufficiali a cavallo, carabinieri e sentinelle armate fino ai denti; e scuote la testa, seguendo il filo di ricordi recenti: sette anni, tre mesi e cinque giorni di carcere comminati al litografo Antonio Barengo per “oltraggio alla Forza Pubblica”; nove imputati minorenni, di età compresa tra i quattordici e i diciotto anni, condannati a decenni di reclusione con un processo durato una breve mattinata; due anni e mezzo di reclusione, inflitti all’operaia ventiduenne Enrichetta Proverbio per aver avuto parte “nell’eccitamento allo sciopero per far cessare dal lavoro gli operai”...

Quando finirà la gragnola di simili condanne?”,

si chiede perplesso il cronista.

Intanto, davanti al portone centrale del Castello, alcune centinaia di persone attendono silenziose e immobili sotto la pioggia quasi autunnale. Vorrebbero poter entrare anche loro nella fortezza, ormai strappata alla completa demolizione dell’architetto Luca Beltrami, che ha pensato di destinarla a usi pacifici e civili, facendone la sede di numerose istituzioni culturali e sociali: la Società Storica Lombarda, il Museo Civico, la Pinacoteca, il Museo del Risorgimento, la Società Ginnica Mediolanum e, perfino, la Camera del Lavoro. Ma un serrato sbarramento militare ne blocca le entrate: da una ventina di giorni, per la precisione dal 23 maggio, lo storico monumento ha riacquistato l’aspetto cupo e minaccioso di un tempo, quando era il simbolo di un potere spietato ed estraneo, confitto nel cuore della città.

Qui, infatti, nella sala a pianterreno tra la Torretta e i locali della Società Ginnica, tiene le sue udienze il Tribunale Speciale di Guerra, che giudica e condanna, con straordinaria celerità e durezza, i responsabili dei tumulti, scoppiati tra il 6 e il 10 maggio, durante “le cinque giornate di Milano alla rovescia”, quando la città è stata messa a ferro e fuoco dai 20mila uomini del generale Fiorenzo Bava Beccaris, giunto addirittura a ordinare di sparare sulla folla dei dimostranti di Porto Ticinese, senza neppure il rituale preavviso dei tre squilli di tromba o della prima scarica a salve. Ma l’operato di Bava Beccaris, che “non sta minimamente in rapporto con la gravità e con l’indole dei tumulti”, provocati dalla fame e dal profondo disagio economico dei ceti popolari, varrà al “vecchio soldato piemontese” il conferimento della croce di grand’ufficiale dell’Ordine Militare di Savoia, deciso con motu proprio da Umberto I, il 6 giugno, perfino con la motivazione di “rimeritare il grande servizio reso alle istituzioni e alla civiltà”.

L’assembramento agli ingressi del Castello è dovuto al fatto che alle otto precise deve iniziare il primo processo clou dello stato di assedio, quello che l’opinione pubblica ha subito, a ragione, identificato come “il processo dei giornalisti”. Tra i ventiquattro imputati presenti, sottoposti a giudizio, vi spiccano, infatti, i nomi della più qualificata intellighenzia lombarda di opposizione, peraltro, già duramente colpita da Bava Beccaris con la soppressione d’autorità di ben sei quotidiani e periodici (La lotta di classe, Il popolo sovrano, L’uomo di pietra, L’Italia del popolo, Il Secolo, L’Osservatore cattolico) e con un sistema di censura preventiva sulla stampa, affidato al cavaliere Giuseppe Alliney d’Elva, tanto rigoroso da riempire di spazi bianchi le colonne dei giornali, là ove riportano non solo alcuni resoconti processuali troppo precisi, ma perfino le requisitorie del pubblico ministero. Quindi, non ci si stupisce quando lo stesso conservatore Eugenio Torelli-Viollier, il 10 giugno, si dimette, in segno di protesta, da direttore del Corriere della Sera, non essendogli permesso di “manifestare per mezzo della stampa le sue opinioni in merito all’attuale situazione del Paese”.

Si badi bene, questo del 16 giugno è il 59° processo che si celebra davanti al Tribunale di Guerra di Milano; mentre analoghe Corti di Giustizia sommaria funzionano da tempo anche a Napoli e a Firenze, ovunque allestite, in fretta e furia, per colpire i responsabili dei disordini esplosi in modo drammatico, tra la fine di aprile e i primi di maggio. Sono, anzi, ormai fin troppo note le procedure spicciative, le violazioni statutarie, le mancate garanzie giuridiche degli imputati, l’uso parziale e fazioso delle testimonianze e l’estrema severità dei giudizi emessi da questi tribunali speciali con sentenze “feroci fino al ridicolo”, come dirà dai banchi di Palazzo Madama, il 13 luglio successivo, il senatore meridionale Francesco Siacci, certo non sospettabile di simpatie rivoluzionarie o di sinistrismo.

Ma proprio qui a Milano, ove maggiore è stato il terrore dei tumulti, più forte si è fatta sentire la volontà di cieca reazione. Proprio qui a Milano, a esempio, oltre alle sentenze che tormentano tanto la memoria del povera resocontista de I tribunali, vi è anche da ricordare il caso di Luigi Caimi, condannato a ben due anni di reclusione e 500 lire di multa perché riconosciuto “colpevole di aver rotto il 7 maggio a colpi di pietra un fanale del gas nei giardini pubblici allo scopo di aiutare la rivolta, che era già scoppiata”, nonostante le testimonianze contraddittorie in proposito e la disperata autodifesa del malcapitato fromboliere:

L’è minga vera. Son propi minga staa mi a tirà i sass.”

(“Non è vero. Non sono stato io a tirare i sassi.”)

Ma, oggi, sui banchi degli imputati sono allineati non solo umili popolani spauriti, capaci a malapena di esprimersi in dialetto. Oggi, vi sono ben tre direttori di quotidiani (il repubblicano, Gustavo Chiesi, direttore dell’Italia del popolo, fondata da Dario Papa; il radicale Carlo Romussi, succeduto a Ernesto Teodoro Moneta nella direzione de Il Secolo; e don Davide Albertario, portavoce dalle colonne de L’Osservatore cattolico del più battagliero intransigente cattolico); senza contare il nutrito drappello dei giornalisti di varia estrazione politica (dai repubblicani Bortolo Federici, Stefano Lallici e l’ex-deputato Giuseppe Pietro Zavattari, inconfondibile per la lunghissima barba candida, al radicale Emilio Girardi, ai socialisti Costantino Lazzari e Paolo Valera, futuro memorialista quest’ultimo delle Terribili giornate del maggio ’98). L’unica donna del gruppo, con la sua esile figura tutta vestita di nero, è “la dottoressa russa” Anna Kuliscioff, instancabile animatrice della Critica sociale e paladina dell’emancipazione femminile.

Un tratto comune li unisce. Sono intellettuali e militanti politici, tutti fermamente decisi a non mollare sul terreno dei principi e consci di dover assumere un ruolo di guida morale per il Paese disorientato, assolvendo all’imperativo categorico di resistere con tutte le forze alla ondata autoritaria, che sembra sommergere la penisola e la sua classe dirigente, se non si vuole perdere anche l’ultimo rimasuglio di Stato di diritto e il rispetto dei più elementari diritti civili individuali.

Il loro sarà, pertanto, un processo esemplare.

Da una parte, infatti, i pubblici poteri – rappresentati dal presidente del Tribunale, il colonnello Pietro Parvopassu, da poco nominato commendatore mauriziano, e dal sostituto avvocato generale militare Emilio Bacci, fatto venire appositamente da Roma e presentatosi in aula con il petto coperto di decorazioni da suscitare la sottile ironia di Achille Beltrame – credono che, per ristabilire l’ordine, basti far tacere con pugno di ferro e pene severissime le proteste che salgono dal Paese, che contestano le istituzioni politiche troppo esclusiviste e assestano poderosi scossoni alla classe dirigente corrotta e incapace di mettersi al passo dei tempi. In loro vi è l’antistorica illusione, che, zittite le punte più avanzate dell’intellettualità lombarda, diverrà più facile imbavagliare ogni forma di critica, e, in primis, quella libera critica che è, invece, stimolo continuo e indispensabile agli sviluppi di una società libera, alla ricerca di più avanzate conquiste democratiche.

Vi è tutto un castello di accuse rivolte ai pubblicisti arrestati e presenti in aula, mentre altri trenta (tra i quali i repubblicani Giuseppe Rensi, Giovanbattista Pirolini, Eugenio Chiesa e i socialisti Angiolo Cabrini, Carlo Dell’Avalle, Dino Rondani ed Emilio Caldara – futuro sindaco della città – l’anarchico Pietro Gori e il sacerdote don Ernesto Vercesi) sono riusciti a riparare in tempo oltre confine. Agli occhi di Bacci, sono colpevoli di aver perseguito “scopi criminosi, mirando a sovvertire gli attuali ordinamenti politici con un’opera di propaganda e sobillazione all’odio di classe, svolta attraverso i giornali, gli opuscoli, le riunioni, le conferenze, i comizi, creando così l’ambiente dal quale scaturirono i recenti disordini”. In altre parole, la tesi di fondo della pubblica accusa è che tutti i disordini avvenuti in Italia non siano un fatto spontaneo e disaggregato, “dovuto a quell’eterna sobillatrice che è la miseria” – secondo la formula precisa usata dal difensore di Carlo Romussi –, quanto piuttosto una serie di episodi tra loro collegati in un piano insurrezionale da tempo preparato da radicali, repubblicani, socialisti e cattolici e destinato a far scoppiare la rivoluzione e la guerra civile nel Paese.

A suffragare simile tesi alquanto cervellotica – che non tiene conto, a esempio, delle profondissime fratture ideologiche esistenti tra i vari gruppi politici, con troppa approssimazione messi insieme sotto l’unico cartello di un generico “sovversivismo” – la pubblica accusa accrediterà ipotesi anche più fantasiose, non ultima quella di alcune migliaia di uomini armati pronti a varcare il confine per prestare man forte agli insorti. Ma una simile madornale “montatura” viene presa sul serio solo dalla Perseveranza, organo del più retrivo codinismo nazionale, già famosa fino dai tempi di Carlo Cattaneo con il soprannome di “Donna Paola”.

Dalla parte degli accusati, invece, vi è la piena intenzione di non lasciarsi fiaccare l’animo dalle minacce né dall’umiliante esperienza della carcerazione preventiva (subita, in attesa del giudizio, nelle medesime “antiche carceri, che, già, rinchiusero i rivoluzionari del ’48 e del mazziniano 6 febbraio 1853”) ma, al contrario, di dare battaglia, approfittando del processo per trasformarsi da accusati in accusatori, facendo esplodere le contraddizioni interne del sistema politico vigente (il gruppo liberal-democratico di Zanardelli, a esempio, deve essere posto di fronte all’aut aut di stare con il governo, appoggiandone la politica repressiva illiberale, o di passare all’opposizione uscendo dall’ambiguo atteggiamento finora tenuto e duramente schernito dal vignettista dell’Avanti!).

Di più.

Partendo dal loro caso personale, e restando, quindi, nel campo di una documentazione a tutta prova, si tratta di mostrare, una volta per tutte, a quali vette assurde di arbitrio, di falsificazione della verità e di violazione dei principi fondamentali del diritto si giunga là ove la libertà è conculcata e il dissenso criminalizzato.

Ed ecco allora l’irredentista dalmata Stefano Lallici, smantellare i capi di imputazione fino al colpo magistrale dell’ultima battuta:

Lallici: Mi si spieghi perché l’atto di accusa in un punto dice che fui arrestato alla redazione de L’Italia del popolo, dove si pretende sedessi in un comitato rivoluzionario, e in un altro che m’han preso in casa mia.

P.M. Bacci: Ella fu arrestata a casa sua.

Lallici: Quindi, niente appartenenza al comitato rivoluzionario.

Per la Corte è troppo.

Non potendolo più condannare – come richiede Bacci – per cospirazione (art. 246 CP) a due anni di reclusione e a mille lire di multa (una somma enorme, specie per Lallici, che riusciva a stento a mettere insieme il pranzo con la cena e che, periodicamente, veniva sfrattato perché inquilino insolvente), lo condanna a quarantacinque giorni di detenzione e 50 lire di multa “pel fatto della costituzione del Circolo Adriatico Orientale, di indole prettamente repubblicana e per discorsi in pubbliche riunioni.” Proprio come si legge nel dispositivo della sentenza: l’appartenenza a un circolo irredentista e l’avere idee politiche sono reati.

Il 17 mattina è il turno di Carlo Romussi. Colletto inamidato impeccabile, occhiali a stringinaso, che gli danno l’aria di intellettuale melanconico: è elegantissimo fino nei gesti. Parla, con logica stringente e tono pacato e mette subito in difficoltà la pubblica accusa, dimostrando quanto sia arbitrario sostenere la sua colpevolezza, adducendo quali prove a carico un fascicolo di scritti risalenti addirittura a due anni prima, o alla guerra d’Africa e alla “questione morale” anticrispina.

Romussi ha, così, buon gioco nel dimostrare come i casi siano due: o questi articoli e opuscoli non contenevano nulla di penalmente perseguibile e le accuse odierne sono, pertanto, destituite di fondamento, o nel caso contrario bisogna chiamare sul banco degli imputati anche le pubbliche autorità del tempo, che ne hanno permesso la circolazione. Da ultimo, poi, impartisce alla Corte una lezione di diritto, esemplare per concisione e chiarezza:

Nessuna legge permette che i reati di stampa siano sottoposti a un tribunale di guerra; tanto più che il mio giornale fu sequestrato e soppresso prima della pubblicazione ufficiale dello stato d’assedio. Dichiaro, quindi, che ritengo illegale il mio arresto, illegale la soppressione del giornale, illegale il presente giudizio.”

Io sono socialista da quasi venticinque anni.”

esordisce a sua volta con voce ferma Anna Kuliscioff, che è tra gli ultimi interrogati ed è accusata di esercitare “molto ascendente sulle donne operaie” e di aver organizzato una lega di resistenza tra le dipendenti dello stabilimento Pirelli.

Se verranno fuori dei fatti a mio carico, io me ne assumo fin d’ora la responsabilità.”,

e, impavida, non rinuncia a far serpeggiare tra i giudici un brivido di “sovversivismo”, proseguendo:

Io qui devo citare di volo una mia inchiesta fatta sul lavoro delle donne e dei fanciulli. Ho dovuto constatare come donna e come dottoressa in medicina che le donne sono anemiche e malaticce. Lavorano dalle dodici alle quattordici ore al giorno con un salario da 40 centesimi a lire 1,20 al giorno.”

Stia in carreggiata.”,

la interrompe agitato il presidente,

non posso permetterle di fare una confidenza su questo argomento.”

Promossi un’agitazione”,

imperterrita continua la fragile Signora del Socialismo,

affinché si presentasse una legge sul lavoro delle donne e dei fanciulli, e mi appoggiai ai deputati socialisti perché questa legge venisse presentata e approvata. Ecco la mia azione per spirito umanitario e per l’interesse e la tutela dell’igiene.”

Analoga fermezza viene dimostrata da tutti gli altri accusati; che non smentiscono la loro militanza politica e, a turno, lanciano una sfida ai poteri costituiti:

Sono repubblicano (o socialista o radicale democratico); se si deve condannare il pensiero, mi condannino pure.”

Più loquace, don Davide Albertario concluderà, invece, la sua autodifesa dicendo:

Se io sono cattolico intransigente, lo sono perché questo è il mio dovere e il mio sentimento: ciò lo dico con soddisfazione, e questo mio dovere, colla grazia di Dio, io l’adempirò sino alla morte.”

La conclusione in ogni caso è scontata.

A poco più di una settimana dall’inizio del dibattito, nonostante gli sforzi dei difensori (Giglio, Ponti, Massa, Amantea, De’ Capei, de Renzi, Forzani, Corselli), scelti dagli imputati “fra gli ufficiali presenti che non abbiano il grado superiore a quello di capitano”, secondo il dettato dell’art. 544 del Codice di Procedura Penale Militare, il 23 giugno, le condanne cadranno pesantissime: sei anni di reclusione e uno di sorveglianza a Gustavo Chiesi, quattro anni e due mesi di reclusione e un anno di sorveglianza a Carlo Romussi, tre anni di detenzione e mille lire di multa a don Davide Albertario, due anni di carcere e 100 lire di multa ad Anna Kuliscioff, un anno e sei mesi di detenzione e 500 lire di multa a Paolo Valera e via di seguito.

Grande è lo sconforto dei condannati per la battaglia perduta.

Intanto, il loro atto di accusa trova una eco potente in parlamento, dove il deputato Nicola Badaloni, il 17 giugno, con altri deputati della sinistra, propone un ordine del giorno, in cui condanna il Governo per avere messo in atto una “repressione sproporzionata” nei confronti dei tumulti manifestatisi in diverse parti del Paese, in conseguenza dell’aumento del prezzo del grano, per non aver tenuto conto che quei moti erano frutto dello stato di miseria in cui versava la parte più povera della popolazione e non aver saputo provvedere alla eliminazione delle cause del fenomeno, e invita il Governo a inaugurare un nuovo indirizzo politico.

Sapevate che l’alimentazione delle plebi rurali e cittadine è insufficiente; che a Napoli, dopo il risanamento, la mortalità è accresciuta nei quartieri popolari, perché ivi, se non si muore più di colera e di tifo, si muore di morte bianca, cioè si muore d’inedia; che il contadino dell’Emilia, ove da mesi avete mandato i vostri soldati, i contadini del Mantovano, del Polesine e di gran parte del Veneto e della Lombardia, nella stagione invernale e nella primavera, a guisa degli animali ibernati, deggiono perdere della propria compagine organica, dei propri tessuti, della propria carne brandelli vivi, perché per mantenere la vita devono ogni giorno consumare del proprio corpo più di quanto non siano in grado di restaurare con l’alimento deficiente per la mancanza di lavoro e per la bassezza delle mercedi: e invece di metterli in grado di procacciarsi il pane ed il lavoro; invece di richiamare, nello stesso vostro interesse di conservatori, le classi dirigenti al compimento del dovere che la civiltà e la proprietà loro impongono verso la classe lavoratrice, avete negata, di fronte alla miseria ed al caro pane saliente, l’abolizione da noi reclamata del dazio sui grani, che alle nostre classi lavoratici avrebbe permesso almeno di non assottigliare ancora di più la già scarsa fetta di pane; e la negaste non per sopperire a supreme necessità pubbliche, ma per non togliere ai grandi proprietari di cui siete i rappresentanti il superfluo...” (p. 135)

I tumulti e le rivolte, cui abbiamo assistito in questi giorni, sono le convulsioni di una società che, tra gli spasimi dell’inedia, attraversa una di quelle crisi di crescenza che attestano, nella storia, la necessità di nuove istituzioni sociali a soddisfare i nuovi bisogni creati dallo sviluppo e dalla civiltà...” (p. 139)

Ma dite: del presente malessere sociale è il socialismo la causa? E se, all’opposto, come non potete non riconoscere, esso non ne è che la conseguenza, tutto il vostro sistema di repressione non si sfascia esso contro la illogicità e la inutilità sua?” (p. 143)

Mentre Giovanni Bovio, con la sua oratoria abituale fin troppo ricercata, sarcastico, apostrofa il presidente del consiglio:

Quando si è fatto quello che avete fatto, messo le mani sui deputati, ridotte le libertà civili a passatempo di scherani, ridotta la stampa al bisbiglio, bisogna osare il resto. Fatevi dittatore, un dittatore che all’inno dei lavoratori sappia sostituire un inno al canape.”

E il ministero di Antonio Starabba marchese di Rudinì verrà travolto.

Certo, è ancora presto per considerare superato il tentativo reazionario di fine secolo. Altre spropositate condanne saranno erogate; e almeno un altro clamoroso processo dovrà essere celebrato, sempre a Milano, contro i deputati Luigi De Andreis e Filippo Turati, ambedue condannati a dodici anni di reclusione e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici.

Quando si giungerà alla fine, il tribunale speciale milanese, in 122 processi, avrà giudicato 803 imputati (dei quali 224 minorenni e 26 donne), condannandone 694 a un totale di 1.488 anni, 4 mesi e 8 giorni di pena carceraria, 307 anni di sorveglianza e 33.952 lire di multa.

L’opinione pubblica ambrosiana reagirà contro una severità così draconiana. E non saranno pochi i milanesi che ripeteranno con amaro sarcasmo questa beffarda boutade:

Contro i sobillatori e i sovversivi ci vorrebbe la pena di morte! Ma come, nella patria di Beccaria? Ma che Beccaria! Noi siamo ormai nella terra di Bava Beccaris.”

Per fortuna, di là a poco sarebbe, invece, arrivata la svolta liberale di Giuseppe Zanardelli e di quel mago di Giovanni Giolitti.

Daniela Zini

Copyright © 20 marzo 2011 ADZ



Domenica 20 Marzo,2011 Ore: 16:24
 
 
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