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www.ildialogo.org NELL’OSSOLA VI ERA UNA COSA CHE NON ANDAVA AGLI ALLEATI: LA REPUBBLICA,di Daniela Zini

STORIE D’ITALIA - dal 1861 a oggi
NELL’OSSOLA VI ERA UNA COSA CHE NON ANDAVA AGLI ALLEATI: LA REPUBBLICA

di Daniela Zini

"L'unità d’Italia fu perseguita e conseguita attraverso la confluenza di diverse visioni, strategie e tattiche, la combinazione di trame diplomatiche, iniziative politiche e azioni militari, l’intreccio di componenti moderate e componenti democratico rivoluzionarie. Fu davvero una combinazione prodigiosa, che risultò vincente perché più forte delle tensioni anche aspre che l’attraversarono.”

Giorgio Napolitano

 

 

Gruppo partigiano della Brigata Partigiana “Filippo Beltrami” Val d’Ossola, 1944

È impossibile fornire una qualsiasi valutazione del contributo dato dagli Alleati alla Resistenza italiana senza avere rilevato in via preliminare l’ipocrisia di fondo che caratterizzò i loro rapporti con il movimento di liberazione nel nostro Paese. Ufficialmente la posizione alleata di fronte ai problemi politici posti dalla Resistenza, a iniziare dai governanti e via per la scala gerarchica fino ai generali e agli ufficiali incaricati di tenere i contatti con le formazioni, era che – fatto salvo il diritto del popolo italiano di determinare il proprio futuro mediante libere elezioni – la loro discussione avrebbe dovuto avere luogo soltanto a guerra finita.

Ma proprio per la natura essenzialmente politica del movimento di resistenza italiano, questo non poteva essere e di fatto non fu: è noto, infatti, che gli Alleati operarono scelte politiche fino dal primo manifestarsi di quel glorioso fenomeno di riscatto morale e civile che fu la lotta di liberazione in Italia. Su queste scelte giocò un ruolo determinante la volontà di conservazione politica degli anglo-americani.

Per quanto riguardava le alte sfere, secondo quanto scrive Gaetano Salvemini (1873-1957), le cose stavano nel seguente modo:

Il Re, Badoglio e Churchill si trovarono d’accordo a non volere sapere di formazioni volontarie: i primi perché non ammettevano che soldati regi; e il terzo perché non voleva nessuna forza regolare armata italiana, poco importa se regia o no, con cui si dovesse fare i conti nel giorno della pace: ammetteva solo vuotacessi e sabotatori. Roosevelt avrebbe accettato reparti militari, ma dovette assentire a Churchill e al cardinale Spellman, che lavorava per conto del Papa, che, a sua volta, lavorava d’accordo con il Re e con Badoglio.”

Questo sfavorevole atteggiamento iniziale era destinato a rimanere travolto da quello che stava, ormai, diventando un inarrestabile movimento di popolo, eppure qualcosa di esso sarebbe rimasto, sotto diversa specie, a condizionare, in vario modo, i rapporti tra i quadri alleati e le formazioni partigiane. In particolare, per quello che concerne gli ufficiali inglesi della Special Operations Executive (meglio nota con il nome di Special Force), operante in Italia, è cosa risaputa come si lasciassero influenzare dai loro sentimenti monarchici e che intrattenessero rapporti di particolare cordialità con i badogliani delle Formazioni Autonome.

Quanto agli americani si sarebbe potuto pensare a una maggiore apertura sia per le posizioni più avanzate del Presidente Franklin Delano Roosevelt (1882 -1945), sia perché a capo della loro organizzazione a contatto con il movimento clandestino – l’Office of Strategic Services – vi era il generale William Joseph Donovan (1883-1959) (amico del Presidente e suo associato nella gestione del New Deal, politicamente ancora meno “chiuso” a sinistra), sia, infine, per la loro formazione repubblicana.

In pratica, gli ufficiali statunitensi, molti dei quali provenienti da famiglie italo-americane, si mostrarono, invece, spesso più carichi di pregiudizi dei loro colleghi britannici. Agì in questo senso la loro educazione cattolica, opera di sacerdoti di origine italiana o irlandese, dai quali avevano assorbito l’idea che Benito Mussolini (1883-1945), avendo fatto la Conciliazione, dovesse essere veramente un grande uomo. Così gli ufficiali dello O.S.S. (Office of Strategic Services) preferirono trattare con gli elementi filo-clericali e i dirigenti delle Brigate del Popolo, organizzate dalla Democrazia Cristiana. Americani e britannici videro, costantemente, come il fumo negli occhi le Brigate Garibaldi, organizzate dai comunisti e mostrarono scarsa simpatia per le formazioni Matteotti, organizzate dal Partito Socialista, e per le formazioni Giustizia e Libertà, organizzate dal Partito di Azione. Entrambi, inoltre, avevano, in comune, una particolare valutazione negativa della rinascente democrazia italiana: si basava su troppi partiti, “too many parties”, accusa che ci viene buttata in faccia, ancora oggi, e che costituisce, tuttora, costante motivo di incomprensione, non solo delle sfumature, ma anche della realtà stessa della vita politica italiana.

Partendo da premesse di questo genere è abbastanza naturale che molte delle iniziative alleate durante la lotta di liberazione in Italia si siano esplicate in modo diverso da quanto avrebbe voluto il nostro movimento di Resistenza e ciò con conseguenze, a volte, assai gravi.

Sono sufficienti, a tale proposito, pochi esempi: va, innanzitutto, ricordato come nel 1943 e, poi, per alcuni mesi, nel 1944, lo S.O.E. e l’O.S.S. ebbero la pretesa di tenere contatti con le forze partigiane, tramite il ben conservato apparato badogliano del S.I.M. (Servizi Informativi Militari). Era, invece, intuitivo che, per la gran parte degli appartenenti alla Resistenza, gli ufficiali del S.I.M. rappresentavano una categoria politicamente compromessa con l’agonizzante regime fascista, con la quale era altamente auspicabile non aver più nulla da spartire. Solo con l’instaurazione di rapporti diretti tra Alleati e C.L.N. (Comitato di Liberazione Nazionale) fu possibile l’apertura di collegamenti più efficaci.

Va, poi, ricordato il criticato comportamento degli Alleati nei confronti della Val d’Ossola insorta. Se fu, forse, un’illusione sperare che questo primo lembo d’Italia, liberato da italiani diventasse una testa di ponte, dalla quale le forze alleate potessero irradiarsi per prendere alle spalle i nazisti, certamente, in quel settembre del 1944, così carico di speranze, non era una pretesa assurda quella dei partigiani aspettare lanci di armi e di munizioni, che, tuttavia, non sarebbero mai giunti.

Senza rifornimenti il destino della Val d’Ossola, che pure disponeva di un buon campo di atterraggio, era segnato: in proposito, è stato, più volte, scritto che la condanna era venuta da parte del S.O.E., al quale era risultato sgradito l’ordinamento repubblicano che la valle si era voluta dare. E, infine, il famoso proclama del generale Harold Alexander (1891-1969), con il quale, il 10 novembre, si invitavano i partigiani a “smobilitare” per l’inverno, fu una infelice mossa, che mise in grave crisi il movimento di Resistenza. Fu il frutto di una totale ignoranza della condizione politica del momento e di una erronea valutazione dei motivi ideali, per i quali i nostri volontari morivano sulle montagne.

Tutto ciò premesso, vanno dati alcuni chiarimenti sulle due organizzazioni alleate cui si è accennato.

Lo S.O.E. britannico fu un ente esclusivamente militare, formato da personale distaccato dalle tre armi, con compiti di collaborazione operativa con i movimenti clandestini sorti nelle zone in mano nazista. Era comandato dal generale Sir Colin McVean Gubbins (1896- 1976). In Italia operò anche l’Intelligence Service che, peraltro, aveva come unico scopo lo spionaggio: le iniziative dello S.O.E. e quelle dell’Intelligence Service si intralciarono, spesso, a vicenda, per mancanza di adeguata collaborazione. Identico inconveniente accadde anche con l’O.S.S. americano, che era un organismo con un effettivo, composto sia da civili sia da militari; il suo scopo principale era la raccolta di informazioni e, in via subordinata, i contatti con la Resistenza. Come si è detto l’O.S.S. aveva a capo il generale Donovan. Disponeva di più larghi mezzi, in materiali vari e finanze, che non lo S.O.E., tuttavia, i materiali lanciati o sbarcati clandestinamente da quest’ultimo in territorio, ancora in mano tedesca, furono più consistenti di quelli provveduti dallo O.S.S.: oltre 2mila tonnellate, dal gennaio del 1944 all’aprile del 1945, contro un totale di 4mila tonnellate, fornito complessivamente da inglesi e americani durante l’intera campagna d’Italia. Una parte non trascurabile di questi invii finì, tuttavia, nelle mani dei nazifascisti, a causa dei difetti di comunicazioni tra partigiani e Alleati e per la imperfetta preparazione dei piloti.

In definitiva, l’apporto alleato alla causa della Resistenza fu considerevole, ma non determinante: lo sfaldamento dell’esercito regio, avvenuto dopo l’8 settembre 1943, costituì, infatti, la fonte principale di approvvigionamento delle armi; altro materiale bellico fu procurato mediante azioni di guerra o arrivò tramite i disertori.

Così su un teatro di guerra, ormai di ridotta importanza per gli Alleati, dopo l’apertura del “secondo fronte”, avvenuta nel giugno del 1944, con lo sbarco di Normandia e per la concorrenza dei movimenti di Resistenza dei Paesi dell’Europa orientale per i quali – dopo il proclama Alexander – era stata stabilita la priorità dei rifornimenti, la Resistenza italiana apprese a fare conto sulle sue sole forze.

Fu certo anche per questo spirito di indipendenza, tanto duramente conquistato, che l’ultima operazione alla quale congiuntamente parteciparono lo S.O.E. e l’O.S.S. si risolse in un completo insuccesso. Si allude al disperato tentativo, effettuato dal maggiore Max Corvo dell’O.S.S. e dal colonnello Vincent del S.O.E., per ottenere la consegna di Benito Mussolini, caduto nelle mani dei partigiani, il 27 aprile 1945, mentre cercava scampo nella fuga.

Quasi presagendo che la speranza di un’Italia nuova e migliore, nutrita durante i venti lunghi mesi di fame, di morte e di terrore, sarebbe andata, ben presto, in gran parte delusa, i dirigenti della Resistenza furono irremovibili nel voler compiere un ultimo atto di giustizia. Mentre ancora ufficiali dell’O.S.S. si affannavano in una missione ormai impossibile sulle rive del lago di Como, la sentenza di morte, emessa dal C.L.N., veniva eseguita a Giulino di Mezzegra, il 28 aprile 1945.

Daniela Zini

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Venerdì 11 Marzo,2011 Ore: 19:05
 
 
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