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www.ildialogo.org L'EBRAISMO E' UNA COSA, LO STATO DI ISRAELE UN'ALTRA. Lascio la Comunità ebraica di Milano. Intervista a Moni Ovadia - di Silvia Truzzi, ,a c. di Federico La Sala

PER LA PACE E IL DIALOGO.. "Se Israele vuole assumere l’eredità di quell’ebraismo ridotto in cenere, deve assumerne la piena eredità morale, cessare di vessare ed imprigionare un altro popolo, diventare più piccolo, molto più democratico, abbandonare la mistica della potenza, diventare leader del processo di pace ed assumere la funzione di ponte fra occidente e Medio Oriente" (Moni Ovadia, 2006).
L'EBRAISMO E' UNA COSA, LO STATO DI ISRAELE UN'ALTRA. Lascio la Comunità ebraica di Milano. Intervista a Moni Ovadia - di Silvia Truzzi, 

Moni Ovadia (...) ho deciso di andarmene. Io non voglio più stare in un posto che si chiama comunità ebraica ma è l'ufficio propaganda di un governo. Sono contro quelli che vogliono "israelianizzare" l'ebraismo. Ho deciso di lasciare (...)


a c. di Federico La Sala

Lascio la Comunità ebraica, fa propaganda a Israele

intervista a Moni Ovadia

a cura di Silvia Truzzi (il Fatto Quotidiano, 5 novembre 2013)

Diceva don Primo Mazzolari che “la libertà è l’aria della religione”. Non era ebreo, come non lo era George Orwell che in appendice alla Fattoria degli animali scrive: “Se la libertà significa qualcosa, significa il diritto di dire alla gente ciò che non vuol sentirsi dire”.

L’eco di queste frasi si sente entrando nella casa di Moni Ovadia a Milano. Per dar seguito al nome pacifista, il cane Gandhi si accomoda sul divano insieme a un paio di gatti; il caffè bolle, l’attore con il capo coperto racconta la storia del festival promosso dalla comunità ebraica che si è svolto alla fine di settembre a Milano, Jewish and the city. “Qualcuno, durante una riunione tra gli organizzatori ha posto il veto alla mia presenza. E gli altri hanno ceduto”.

Perché?

Per le mie posizioni critiche nei confronti del governo Netanyahu. Le violazioni del diritto internazionale, mi riferisco all’occupazione e alla colonizzazione dei territori palestinesi, durano da oltre cinquant’anni. Ho imparato dai profeti d’Israele che bisogna essere al fianco dell’oppresso. Io esprimo opinioni, non sono depositario di nessuna verità. Penso però che questa situazione sia tossica. Per i palestinesi, che sono le vittime, ma anche per gli israeliani: non c’è niente di più degradante che fare lo sbirro a un altro popolo. Aggiungo però che io m’informo esclusivamente da fonti israeliane. Non palestinesi: gli ultrà palestinesi sono i peggiori nemici della loro causa. Apprezzo molto due giornalisti israeliani di Haaretz, Gideon Levy e Amira Hass. Quello che dico io, rispetto a quello che scrivono loro, è moderato. Bene: vivono in Israele, scrivono su un quotidiano israeliano, sono letti da cittadini israeliani e pubblicati da un editore israeliano.

È iscritto alla Comunità ebraica di Milano?

Sì, per rispetto dei miei genitori. Ma ho deciso di andarmene. Io non voglio più stare in un posto che si chiama comunità ebraica ma è l’ufficio propaganda di un governo. Sono contro quelli che vogliono “israelianizzare” l’ebraismo. Ho deciso di lasciare, come ha fatto Gad Lerner a causa della mancata presa di posizione dei vertici milanesi dopo l’uscita di Berlusconi al binario 21, nel Giorno della Memoria.

Dicono che le sue critiche a Israele nascono dal desiderio di avere consensi, successo, denaro.

Ma oggi chi è a favore della causa palestinese? La sinistra? Nemmeno più Vendola lo è! E allora dove sarebbe il grande pubblico che mi conquisto? Più ho radicalizzato le mie critiche, più il mio lavoro è diminuito, mi riferisco agli ingaggi e non al pubblico. Il teatro è per tutti, il teatrante è un cittadino e come tale ha diritto alle sue idee.

Lei non è abbastanza “carino”?

Per niente, ma non si parla di cose carine. Il comportamento della comunità internazionale nei confronti del popolo palestinese è semplicemente schifoso. Nel 2000 intervistai per il Corriere della Sera un colonnello della Golani, le teste di cuoio d’Israele. Mi disse: “Se tu hai un bazooka in mezzo ai denti e un mitragliatore tra le chiappe, ci sono almeno due modi per uscirne”. Da militare m’insegnò che se si vuole fare la pace, si riesce. Se io dicessi che il governo Netanyahu è un po’ birichino, ma non così tanto, diventerei immediatamente il più grande artista ebreo italiano. Invece offendono i miei spettacoli.

È vero che riceve minacce?

Appena scrivo qualcosa, sul mio sito arriva di tutto: minacce, insulti, parolacce. I termini sono sempre “rinnegato”, “traditore”, “nemico del popolo ebraico”. Ho criticato l’episodio del bimbo palestinese di cinque anni che aveva lanciato una pietra ed era stato portato via da undici militari israeliani. Mi hanno scritto: “Avesse potuto quella pietra arrivare sul tuo cervello marcio”. Questi sono i termini, mai risposte nel merito. Mia moglie, che gestisce la mia pagina Facebook, spesso non me li fa leggere, li cancella e basta.

Sono ebrei quelli che la insultano?

La gran parte sì.

Aver subito la discriminazione non è servito a nulla?

Si, ma paradossalmente questo ha un aspetto positivo. Significa che gli ebrei sono come tutti gli altri. Si trovano in una condizione in cui il nazionalismo è a portata di mano? Diventano i peggiori nazionalisti, malgrado la Torah condanni l’idolatria della terra. L’ebraismo è una cosa, lo Stato d’Israele un’altra. Qualcuno ha sostituito la Torah con Israele. Il buon ebreo, dunque, non è quello che segue la Torah, ma quello che sostiene Tel Aviv. I sinceri democratici - tipo La Russa - sono amici d’Israele. E non importa se fino a poco tempo fa facevano il saluto romano inneggiando a quelli che hanno sterminato la nostra gente.

Dell’affaire Vauro cosa pensa?

La vignetta su Fiamma Nirenstein prendeva in giro la disinvoltura con cui una donna, appassionatissima della causa israeliana, può sedere in Parlamento accanto a uno come Ciarrapico, che non ha mai smesso di dirsi fascista. Ha fatto benissimo Vauro a querelare chi gli dava dell’antisemita. Non solo perché ha vinto in due gradi di giudizio, ma perché l’accusa di antisemitismo è troppo grave per usarla a sproposito.

Lei cosa chiede?

Vorrei essere criticato - non calunniato o insultato - ma rispettato. Vorrei semplicemente avere il diritto di dire la mia opinione e potermi confrontare.



Martedì 05 Novembre,2013 Ore: 16:38
 
 
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Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 06/11/2013 12.57
Titolo:L’addio di Ovadia che divide gli ebrei milanesi
L’addio di Ovadia che divide gli ebrei milanesi

L’artista: censurato, me ne vado

di Gian Guido Vecchi (Corriere della Sera, 6.11.13)

ROMA — Per capire il clima basterebbe il commento di Walker Meghnagi, presidente della comunità ebraica di Milano, «non mi pare una grande perdita, non credo che nessuno piangerà dopo queste parole incoscienti e pericolose». Moni Ovadia ha deciso di lasciare la comunità, cui era iscritto «per rispetto dei miei genitori», accusandola d’essere diventata «l’ufficio di propaganda» del governo israeliano.

Intervistato dal Fatto quotidiano , ieri, ha parlato di «un veto» che «qualcuno» tra gli organizzatori avrebbe posto alla sua presenza nel festival di cultura ebraica Jewish and the city, che si è svolto a Milano dal 28 settembre all’1 ottobre. E questo «per le mie posizioni critiche del governo Netanyahu».

Parole durissime, quelle del grande attore e drammaturgo, che parla degli insulti («traditore», «nemico del popolo ebraico») ricevuti sul suo sito «in gran parte da ebrei», persone che «diventano i peggiori nazionalisti» perché «qualcuno ha sostituito la Torah con Israele». Ai vertici della comunità, tra l’altro guidata da una «grande coalizione», le reazioni sono altrettanto dure. E arrivano, sul sito Moked , anche da esponenti della sinistra come Daniele Nahum, consigliere della comunità: «L’intervista è piena di falsità, suona come una ripicca per il mancato ingaggio al festival. Noi rappresentiamo l’ebraismo milanese e non siamo l’agenzia di nessuno».

Ovadia, tra l’altro, parla della «mancata presa di posizione» dei vertici alle frasi di Berlusconi (su Mussolini che «fece anche cose buone») nel giorno in cui si inaugurava il memoriale della Shoah alla stazione Centrale. Il presidente Meghnagi respinge l’accusa al mittente, «condannai quelle parole in un’intervista al Corriere». Ma intanto Ovadia rivela che anche Gad Lerner lasciò la comunità milanese in quell’occasione: «Non trovarono le parole necessarie a stigmatizzare quello sproloquio. Quella scelta era l’unico strumento che avevo per esprimere, con discrezione, la mia delusione: sono rimasto iscritto nella bellissima comunità di Casale Monferrato».

Ma il problema denunciato da Ovadia esiste? «In quella forma così esasperata riguarda lui, c’è gente che esulta perché se ne è andato ed è un atteggiamento greve e autolesionista: si misconosce il grandissimo merito che ha avuto nella diffusione della cultura ebraica», dice Lerner.

Il regista Ruggero Gabbai, consigliere pd a Milano, premette: «Come ebreo di sinistra, non potrei immaginare di vivere in diaspora senza Israele, per noi è un’ancora di salvezza». Salvo aggiungere: «Temo che sia vera la storia degli insulti. Posso non essere d’accordo con le sue idee, ma Israele è una società pluralista e l’ebraismo ha sempre insegnato il confronto di idee: quella di Moni sarebbe una perdita grave».

Più severo Guido Vitale, direttore di Pagine Ebraiche : «Non mi pare che nel mondo ebraico italiano manchi il confronto, quelli che se ne vanno sbattendo la porta hanno sempre torto. E non abbiamo bisogno di un nuovo Grillo, anche se più colto».

Emanuele Fiano, già presidente degli ebrei milanesi e ora deputato del Pd, lancia un appello: «Chiedo a Moni di riconsiderare la sua decisione. E vorrei una comunità capace di accogliere il dissenso».
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 08/11/2013 13.09
Titolo:Perché lascio la «mia» comunità ebraica ...
Perché lascio la «mia» comunità ebraica

di Moni Ovadia (il manifesto, 8 novembre 2013)

Lunedì scorso tramite un’intervista chiestami dal Fatto Quotidiano, ho dato notizia della mia decisione definitiva di uscire dalla comunità ebraica di Milano, di cui facevo parte, oramai solo virtualmente, ed esclusivamente per il rispetto dovuto alla memoria dei miei genitori. A seguito di questa intervista il manifesto mi ha invitato a riflettere e ad approfondire le ragioni e il senso del mio gesto, invito che ho accolto con estremo piacere. Premetto che io tengo molto alla mia identità di ebreo pur essendo agnostico.

Ci tengo, sia chiaro, per come la vedo e la sento io. La mia visione ovviamente non impegna nessun altro essere umano, ebreo o non ebreo che sia, se non in base a consonanze e risonanze per sua libera scelta. Sono molteplici le ragioni che mi legano a questa «appartenenza».

Una delle più importanti è lo splendore paradossale che caratterizza l’ebraismo: la fondazione dell’universalismo e dell’umanesimo monoteista - prima radice dirompente dell’umanesimo tout court - attraverso un particolarismo geniale che si esprime in una "elezione" dal basso. Il concetto di popolo eletto è uno dei più equivocati e fraintesi di tutta la storia.

Chi sono dunque gli ebrei e perché vengono eletti? Il grande rabbino Chaim Potok, direttore del Jewish Seminar di New York, nel suo «Storia degli ebrei» li descrive grosso modo così : «Erano una massa terrorizzata e piagnucolosa di asiatici sbandati. Ed erano: Israeliti discendenti di Giacobbe, Accadi, Ittiti, transfughi Egizi e molti habiru, parola di derivazione accadica che indica i briganti vagabondi a vario titolo: ribelli, sovversivi, ladri, ruffiani, contrabbandieri. Ma soprattutto gli ebrei erano schiavi e stranieri, la schiuma della terra». Il divino che incontrano si dichiara Dio dello schiavo e dello Straniero. E, inevitabilmente, legittimandosi dal basso non può che essere il Dio della fratellanza universale e dell’uguaglianza.

Non si dimentichi mai che il «comandamento più ripetuto nella Torah sarà: Amerai lo straniero! Ricordati che fosti straniero in terra d’Egitto! Io sono il Signore!» L’amore per lo straniero è fondativo dell’Ethos ebraico. Questo «mucchio selvaggio» segue un profeta balbuziente, un vecchio di ottant’anni che ha fatto per sessant’anni il pastore, mestiere da donne e da bambini. Lo segue verso la libertà e verso un’elezione dal basso che fa dell’ultimo, dell’infimo, l’eletto - avanguardia di un processo di liberazione/redenzione.

Ritroveremo la stessa prospettiva nell’ebreo Gesù: «Beati gli ultimi che saranno i primi» e nell’ebreo Marx: «La classe operaia, gli ultimi della scala sociale, con la sua lotta riscatterà l’umanità tutta dallo sfruttamento e dall’alienazione».

Il popolo di Mosé fu inoltre una minoranza. Solo il venti per cento degli ebrei intrapresero il progetto, la stragrande maggioranza preferì la dura ma rassicurante certezza della schiavitù all’aspra e difficile vertigine della libertà.

Dalla rivoluzionaria impresa di questi meticci «dalla dura cervice», scaturì un orizzonte inaudito che fu certamente anche un’istanza di fede e di religione, ma fu soprattutto una sconvolgente idea di società e di umanità fondata sulla giustizia sociale.

Lo possiamo ascoltare nelle parole infiammate del profeta Isaia. Il profeta mette la sua voce e la sua indignazione al servizio del Santo Benedetto che è il vero latore del messaggio: «Che mi importa dei vostri sacrifici senza numero, sono sazio degli olocausti di montoni e del grasso dei giovenchi. Il sangue di tori, di capri e di agnelli Io non lo gradisco. Quando venite a presentarvi a me, chi richiede da voi che veniate a calpestare i Miei Atri? Smettete di presentare offerte inutili, l’incenso è un abominio, noviluni, sabati, assemblee sacre, non posso sopportare delitto e solennità. I vostri noviluni e le vostre feste io li detesto, sono per me un peso sono stanco di sopportarli. Quando stendete le mani, Io allontano gli occhi da voi. Anche se moltiplicate le preghiere, Io non ascolto. Le vostre mani grondano sangue. Lavatevi, purificatevi, togliete il male delle vostre azioni dalla mia vista. Cessate di fare il male, imparate a fare il bene, ricercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova».( Isaia I, cap 1 vv 11- 17). Il messaggio è inequivocabile. Il divino rifiuta la religione dei baciapile e chiede la giustizia sociale, la lotta a fianco dell’oppresso, la difesa dei diritti dei deboli. Un corto circuito della sensibilità fa sì che molti ebrei leggano e non ascoltino, guardino e non vedano. Per questo malfunzionamento delle sinapsi della giustizia, i palestinesi non vengono percepiti come oppressi, i loro diritti come sacrosanti, la loro oppressione innegabile.

Qual’è il guasto che ha creato il corto circuito. Uno smottamento del senso che ha provocato la sostituzione del fine con il mezzo. La creazione di uno Stato ebraico non è stato più pensato come un modo per dare vita ad un modello di società giusta per tutti, per se stessi e per i vicini, ma un mezzo per l’affermazione con la forza di un nazionalismo idolatrico nutrito dalla mistica della terra, sì che molti ebrei, in Israele stesso e nella diaspora, progressivamente hanno messo lo Stato d’ Israele al posto della Torah e lo Stato d’Israele, per essi, ha cessato di essere l’entità legittimata dal diritto il internazionale, nelle giuste condizioni di sicurezza, che ha il suo confine nella Green Line, ed è diventato sempre più la Grande Israele, legittimata dal fanatismo religioso e dai governi della destra più aggressiva. Essi si pretendono depositari di una ragione a priori.

Per questi ebrei, diversi dei quali alla testa delle istituzioni comunitarie, il buon ebreo deve attenersi allo slogan: un popolo, una terra, un governo, in tedesco suona: ein Folk, ein Reich, ein Land. Sinistro non è vero? Questi ebrei proclamano ad ogni piè sospinto che Israele è l’unico Stato democratico in Medio Oriente. Ma se qualcuno si azzarda a criticare con fermezza democratica la scellerata politica di estensione delle colonizzazioni, lo linciano con accuse infamanti e criminogene e lo ostracizzano come si fa nelle peggiori dittature.

Ecco perché posso con disinvoltura lasciare una comunità ebraica che si è ridotta a questo livello di indegnità, ma non posso rinunciare a battermi con tutte le mie forze per i valori più sacrali dell’ebraismo che sono poi i valori universali dell’uomo.

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