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www.ildialogo.org IL GIORNO DELLA MEMORIA DEVE ESSERE SOPRATTUTTO GIORNATA DI STUDIO E CONOSCENZA,<b>di Piero Di Nepi</b>

IL GIORNO DELLA MEMORIA DEVE ESSERE SOPRATTUTTO GIORNATA DI STUDIO E CONOSCENZA

di Piero Di Nepi

Il primo mese dell’anno civile si è ormai trasformato in un periodo di vera e propria fibrillazione per la collettività ebraica nazionale. Ogni anno, nell’imminenza del 27 gennaio –il Giorno della Memoria- gli apparati istituzionali dell’UCEI e delle singole Comunità devono confrontarsi con l’esiguità dei numeri e delle forze per adempiere una missione che la politica sembra aver loro affidato con una sorta di esclusiva. Tra memoria e storia esiste una dialettica complessa. Paradossalmente, l’eccesso di memoria – se così possiamo definirlo - può talvolta pregiudicare la conoscenza razionale dei fatti come sono realmente avvenuti e dunque indiscutibili. Occorre pertanto che l’emotività sia saldamente ancorata alla conoscenza scientifica della storia. Non si dovrà mai dimenticare -non si può dimenticare- che lo sterminio programmato e scientifico degli ebrei nell’Europa occupata è stato soltanto uno dei crimini del nazismo. Dal punto di vista delle vittime ogni omicidio, ogni violenza è uguale alle altre. Le vittime sono tutte uguali, accomunate nella sofferenza e nella impossibilità di difendersi. La sola percettibile distinzione possiamo individuarla nella qualità di chi commette il crimine. Il regime hitleriano poté avvalersi lungamente del sostegno e della collaborazione di uomini illustri, tra i più grandi del XX secolo nel campo delle scienze fisiche ed umane. Soltanto qualche nome: Martin Heidegger, Werner Heisenberg, Ernst Junger, Carl Schmitt, Werner Von Braun. Le vittime del sistema nazionalsocialista, quelle uccise a sangue freddo durante le stragi dei civili e poi dei prigionieri di guerra sovietici, sono state forse sedici, forse diciotto milioni. Nessuno è riuscito a stabilirlo con precisione. Queste le cifre, ma il dettaglio è impossibile: si va per sottrazione, tante persone sappiamo o riteniamo presenti e viventi nel 1939, tante ne furono trovate in vita nell’estate del 1945. Tra queste vittime ci furono quasi sei milioni di ebrei, braccati uno ad uno. Fu loro riservata una sorte speciale. La dimensione, l’enormità dei numeri, è tale che ogni forma di revisionismo storico ha buon gioco nel “contestualizzare”, “ridimensionare”, “riproporre” documenti non sufficientemente “analizzati”. Le virgolette sono d’obbligo. Si parte dunque dalla interessata reinterpretazione dei fatti per approdare infine al negazionismo puro e duro. Occorre dunque scongiurare il rischio che il dibattito sul cosiddetto revisionismo storico (e sui siti WEB del moderno antiebraismo) perda di vista la vera posta in gioco, che per i negazionisti è altissima. Contestare la realtà innegabile dello sterminio degli ebrei implica infatti la negazione della realtà storica del progetto nazista: un progetto di società basato sulla eliminazione fisica, in buona parte realizzata, di quanti fossero ritenuti pericolosi o comunque non necessari per lo “Herrenvolk”, il popolo ariano dei signori guidato dai tedeschi del Reich. La cecità e l’indifferenza sono oggi più gravi: non è in corso, infatti, un confronto militare mondiale, planetario, a differenza di quanto accadde tra il 1939 e il 1945. In questo momento viaggiano nel mondo per testimoniare, ovunque venga loro consentito, i sopravvissuti al genocidio che colpì nel 1994 la popolazione Tutsi del Ruanda (più di ottocentomila vittime in quaranta giorni), ed anche i superstiti delle campagne di massacro condotte per decenni nel Darfur con la responsabilità accertata del regime militare sudanese. “Izcòr”, “Zachòr”, “Zicharòn” sono termini che già nel nucleo più antico della lingua ebraica si riconnettono ad una radice verbale che ha il significato di “ricordare”, “tenere ben presente nella memoria”, tanto individuale che collettiva. Hanno il suono del comandamento irrevocabile: “Ricorda ciò che ti ha fatto Amalèk” (Deuteronomio, 25). Sta qui appunto la ragione degli ammonimenti che tutti conosciamo: “chi dimentica il passato è condannato a riviverlo”, “è ancora fecondo il ventre che ha partorito il nazismo”, “se è accaduto una volta, può accadere di nuovo”. Non esiste, purtroppo, pericolo di smentita. La testimonianza di ciascun sopravvissuto è ormai raccolta ed archiviata presso la Shoah Foundation istituita per iniziativa personale di Steven Spielberg, con mezzi economici propri e con i proventi del film “Shindler List”. Il numero di quanti hanno vissuto gli eventi risulta in costante, naturale diminuzione, ma si comprende ormai benissimo come le nuove tecniche di conservazione e diffusione del ricordo dei testimoni diretti possano consentire un radicale mutamento nelle prospettive della memoria. E le testimonianze dei sopravvissuti italiani sono liberamente accessibili e disponibili in rete: basta registrarsi ed effettuare il login (www.shoah.acs.beniculturali.it). Quello del ricordare ebraico risulta un caso particolare. Ma nel nostro paese sono pochi i giovani che si chiedono cosa abbiano fatto nonni e bisnonni al tempo della Seconda guerra mondiale. Troppo spesso neppure conoscono gli eventi. Durante le lezioni-conferenza nelle scuole dove si viene chiamati per raccontare la storia e la condizione degli ebrei italiani durante quegli anni tragici, è cosa abbastanza normale ascoltare domande di studenti che nei loro riferimenti cronologici confondono l’attacco giapponese a Pearl Harbour con lo sbarco degli alleati in Normandia. E’ soltanto un esempio tra i molti possibili. Anche se le associazioni dei partigiani e degli internati, dunque soprattutto figli e nipoti ai quali si uniscono sempre più spesso giovanissimi volenterosi, svolgono con dedizione ed entusiasmo le proprie attività di studio e di divulgazione, resta ben chiara l’evidenza che viene delegata agli ebrei la responsabilità di conservare il ricordo dei crimini commessi dai nazisti tra il 1933 e il 1945, i dodici anni del Terzo Reich. La nostra capacità di sensibilizzare e coinvolgere scuole, studenti, insegnanti e mezzi d’informazione, finisce per impegnarsi in battaglie di logoramento che vedono da una parte resistenze sorde ma accanite, e dall’altra –la parte degli italiani brava gente davvero, la parte che ignora il razzismo strisciante del “noi” e “voi”, la parte degli onesti e degli entusiasti-- il desiderio di battersi perché quel che è accaduto non sia dimenticato. Per gli ebrei, italiani tra altri italiani, si tratta di una missione certo non impossibile ma forse impropria. Nel senso che non dovrebbero essere le Comunità a sollecitare le istituzioni della Repubblica, bensì l’intera società civile. Vogliamo e dobbiamo dirlo forte e chiaro: tanto più che di recente ai lettori e ai telespettatori italiani sono state somministrate corrispondenze da Gaza infarcite di giudizi e commenti ad effetto contro Israele, che fino a prova contraria resta la sola valida polizza di assicurazione posseduta dagli ebrei sulle proprie vite.

PIERO DI NEPI




Martedì 08 Gennaio,2013 Ore: 22:36
 
 
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