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www.ildialogo.org DALL’EMOZIONE ALLA STORIA: il momento del passaggio delle consegne,di Piero Di Nepi

Le iniziative del Giorno della Memoria
DALL’EMOZIONE ALLA STORIA: il momento del passaggio delle consegne

di Piero Di Nepi

(Piero Di Nepi, Catanzaro/Provincia, 27 gennaio 2010)

Non si deve mai dimenticare -non si può dimenticare- che lo sterminio programmato e scientifico degli ebrei nell’Europa occupata dalle armate naziste è stato soltanto uno dei crimini del regime hitleriano. Ed è cosa sempre difficile, e forse anche arbitaria ed immorale, stabilire qualche graduatoria nella gravità di una serie di crimini, se molti e terribili ve ne sono stati. Dal punto di vista delle vittime ogni omicidio, ogni violenza è uguale alle altre. Le vittime sono tutte uguali, accomunate nella sofferenza e nella impossibilità di difendersi. La sola percettibile distinzione possiamo individuarla nella “qualità” di chi commette il crimine. Il regime nazista potè avvalersi del sostegno e della collaborazione di uomini illustri, tra i più grandi del XX secolo nel campo delle scienze fisiche ed umane. Soltanto qualche nome: Martin Heidegger, Werner Heisenberg, Ernst Junger, Carl Schmitt, Werner Von Braun. Queste considerazioni sono preliminari, a mio avviso, rispetto a qualsiasi discorso attuale sul significato, sul valore ed anche sul futuro di incontri come questo al quale ho l’onore di partecipare. E vorrei subito, intanto, ringraziare l’Amministrazione Provinciale di Catanzaro, e la Dott.ssa Pietragalla, che hanno con grande cortesia richiesto la partecipazione di un rappresentante del CDEC (Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea) e del “Progetto Memoria” della Comunità Ebraica di Roma.

Le vittime del nazismo, intendo quelle uccise “a sangue freddo” durante le stragi dei civili e poi nei campi della morte, sono state forse sedici, forse diciotto milioni. Nessuno è riuscito a stabilirlo con precisione. La dimensione, l’enormità dei numeri, è tale che ogni forma di revisionismo storico ha buon gioco nel “contestualizzare”, “ridimensionare”, “riproporre” documenti non sufficientemente “analizzati”. Le virgolette sono d’obbligo. Si parte dunque dalla strisciante, interessata, “reinterpretazione” dei fatti per approdare infine al negazionismo puro e duro.

Quasi quattro milioni di soldati sovietici prigionieri di guerra ma non protetti dalla Convenzione di Ginevra, due milioni forse di civili polacchi, poco meno di un milione di Rom, circa cinquemilioniottocentomila ebrei, e poi tutti gli altri: omosessuali, oppositori politici, soldati italiani che rifiutarono di combattere per la “Repubblica Sociale” di Mussolini, partigiani e resistenti, fedeli di religioni non ammesse nel Terzo Reich come per esempio i Testimoni, invalidi e diversamente abili… Queste le cifre, ma il dettaglio è impossibile: si va per sottrazione, tanti ne sappiamo o riteniamo presenti e viventi nel 1939, tanti ne furono trovati in vita nell’estate del 1945.

E’ su questi numeri, e sul senso che dobbiamo attribuire al ricordarli, che si gioca oggi e si giocherà negli anni a venire, il significato di queste giornate del 27 gennaio. Tuttavia il peso, l’onere e la responsabilità della memoria sembrano ormai, allo stato attuale, ricadere soprattutto sugli ebrei, sulle Comunità Ebraiche, e più in generale su quanti ritengono la condizione e l’esperienza degli ebrei assolutamente simboliche nella tradizione dell’Occidente. Ed anche su tutto ciò vale forse la pena di ragionare con calma. Ma ci sono anche, naturalmente, amicizia, simpatia ed empatia, come pure meditata devozione all’obiettività storica.

Izcòr”, “Zachòr”, “Zicharòn”: sono termini che già nel nucleo più antico della lingua ebraica si riconnettono ad una radice verbale che ha il significato di “ricordare” , “tenere ben presente nella memoria”, tanto individuale che collettiva. Compaiono più volte nel Pentateuco, l’Antico Testamento. Per la tradizione hanno il suono del comandamento irrevocabile: “Ricorda ciò che ti ha fatto Amalèk” (Deuteronomio, 25). A 65 anni di distanza dall’arrivo dei soldati dell’Armata Rossa sovietica nei lager del sistema Auschwitz-Birkenau ci si può dunque legittimamente domandare quale sarà il futuro della memoria, quale il significato profondo di ogni testimonianza, e contemporaneamente si potrà fare il punto sulla storiografia del ricordare. E si avvicina anche il sessantacinquesimo anniversario della fine della guerra, qui in Europa e poi sui fronti del Pacifico. In fondo, a questo servono gli anniversari, se non vogliamo ridurli a nuda cerimonia delle pubbliche istituzioni. Già è possibile intravedere le linee di evoluzione di una “storia delle storie” relative ai fatti della Seconda Guerra Mondiale come anche alla stessa percezione dei crimini nazisti. Nel processo di Norimberga del 1946 si procedette per “Crimini contro l’Umanità”. La cosiddetta “Soluzione finale del problema ebraico” non fu ritenuta una sequenza di eventi giuridicamente individuabile rispetto alle altre che venivano affrontate. Ma la parola genocidio era stata introdotta quindici anni prima da un giurista ebreo di origine polacca –Raphael Lemkin- che per conto della Società delle Nazioni si era occupato della condizione degli Armeni e poi a Norimberga fu consulente dell’accusa militare americana.

Oggi forse sono maturi i tempi per inizare la stesura di una vera e propria storia del “testimoniare”. Testimonianze del genocidio programmato, memorie di sopravvissuti. Memorie scritte e memorie registrate con le tecniche moderne di conservazione della parola e delle immagini. Ed esistono memorie e ricordi, scritti e registrati, anche degli aguzzini. Franz Stangl, il comandante di Treblinka, fu intervistato per settimane, nel 1970, dalla giornalista Gitta Serenyi. Sembrerebbe dunque di particolare importanza, in queste occasioni, ricordare a tutti che in questo momento viaggiano nel mondo per testimoniare, ovunque venga loro consentito, i sopravvissuti ai massacri che colpirono nel 1994 la popolazione Tutsi in Ruanda (più di ottocentomila vittime in quaranta giorni), ed anche i superstiti del vero e proprio genocidio che da quaranta anni si consuma nel Darfur sudanese (i morti sono probabilmente oltre un milione e mezzo). E’ con grande sconforto e tristezza che si deve ammettere che la cecità e l’indifferenza sono oggi tanto più gravi in quanto non è in corso un confronto militare mondiale, planetario, a differenza di quanto accadde tra il 1939 e il 1945. Ma sta qui appunto la ragione degli ammonimenti che tutti conosciamo: “chi dimentica il passato è condannato a riviverlo”, “è ancora fecondo il ventre che ha partorito il nazismo”, “se è accaduto una volta, può accadere di nuovo”. Non esiste, purtroppo, pericolo di smentita.

Dunque, sembrerebbe davvero opportuna, forse indispensabile, questa “storia del testimoniare” alla quale si accennava. Consideriamo i dati di fatto. I sopravvissuti ai campi di sterminio sono naturalmente molto pochi. La testimonianza di ciascun sopravvissuto è ormai raccolta ed archiviata per sempre, si deve sottolineare “per sempre”, con metodi scientifici e sistematizzati presso la “Visual History Foundation” di Los Angeles. Questa Fondazione, i cui archivi sono perfettamente accessibili in rete, è stata istituita per iniziativa personale del regista Steven Spielberg, con mezzi economici propri e con buona parte dei proventi del Box Office di “Shindler List”. Il lavoro di studio ed archiviazione informatica si avvia alla conclusione, poiché le interviste sono state effettuate negli anni tra il 1994 e il 1999. Ma si continua tuttora a lavorare, con i sopravvissuti del Ruanda, del Darfur, e credo anche della Cambogia.

In Italia e nell’Europa intera, a partire dalla fine degli anni Ottanta dello scorso secolo, si è fortunatamente sviluppato una sorta di “protocolllo della memoria” che ha posto fine una volta per tutte alla fase dell’amnesia postbellica. In occasione di anniversari e giornate di studio, presentazione di libri, di film, di programmi radiofonici e televisivi, c’è un reduce che racconta, un giornalista che commenta e presenta, uno storico che spiega e contestualizza. C’era stata infatti, ed appariva urgente rimediare prima che fosse troppo tardi, amnesia da trauma, innanzitutto, ma anche la deliberata volontà di cancellare, negare, seppellire nell’oblio. L’oblio definitivo costituiva la dichiarata volontà dei nazisti e dei loro complici reclutati nell’Europa occupata dalla impressionante macchina da guerra tedesca.

Oggi il numero di quanti hanno vissuto gli eventi risulta di certo in costante, naturale diminuzione, ma si comprende ormai benissimo come le nuove tecniche di registrazione del ricordo dei testimoni diretti abbiano implicato un radicale mutamento di prospettiva nella conservazione della memoria, e non è un caso che si debba proprio ad un grande regista come Spielberg il passaggio dalla occasionalità alla “sistematicità”. Tra il 1960 ed il 1980 erano stati raccolti in modo episodico i ricordi personali di quanti avevano partecipato alle battaglie più memorabili della Seconda Guerra Mondiale, anche in vista della realizzazione di film spesso “colossali”: Pearl Harbour, El Alamein, Midway, Stalingrado, lo sbarco in Normandia, Okinawa. Se il coinvolgimento attivo dei giovani cui ormai le consegne verranno affidate, dovesse fondarsi sui mezzi e gli strumenti che la tecnologia dell’informazione mette a disposizione di tutti, e a costi assolutamente accessibili, potremnmo stare tranquilli, anzi restarcene addirittura inattivi, rispetto al problema grave del futuro dei ricordi e della memoria. Possiamo immaginare senza difficoltà programmi informatici che saranno in grado di far interagire con gli spettatori ogni testimone e la sua testimonianza registrata. Forse lo spettatore diventerà presto interlocutore di una immagine olografica in tre dimensioni. Non si tratta di fantascienza, sappiamo che forse sarà possibile, ma abbiamo soprattutto la certezza che non sarà più la stessa cosa. Già in giornate come questa odierna sono appunto persone come me coloro che rievocano e commentano. Ma siamo nati dopo, anzi secondo il progetto nazifascista neppure dovevamo nascere.

Personalmente, classe 1949 come si diceva un tempo, porto con me i ricordi di due famiglie di ebrei romani decimate dalle deportazioni, di parenti passati per i camini di Birkenau dopo le lunghe settimane di attesa nel campo di Fossoli e il viaggio nei carri bestiame. Faccio parte dunque della “seconda generazione”. Il primo passaggio di consegne ha costituito per molti, per tanti come me, un’esperienza decisiva. Ho partecipato in qualità di insegnante accompagnatore a due Viaggi della Memoria: il primo in assoluto, organizzato dalla Provincia e dal Comune per due Istituti di Roma e di Pomezia, nell’ottobre del 1992, e poi con il Sindaco Rutelli nel 1998. In entrambi i casi c’era con noi Settimia Spizzichino, e così c’è stata anche la possibilità di ascoltare i suoi ricordi nel luogo stesso dove aveva subìto per lunghissimi mesi la tortura di ogni internato. Nel 1998 i ragazzi e le ragazze che accompagnavo hanno ascoltato Shlomo Venezia raccontare del Sonderkommando Ausschwitz, tra le rovine di una delle camere a gas. “Infandum iubes renovare dolorem”: poiché ci riconosciamo nella tradizione dell’Occidente, nonostante Hitler, mi sia permesso citare Virgilio.

Siamo arrivati così al terzo passaggio di consegne, alle generazioni dei nipoti e dei pronipoti. C’è un lavoro in particolare che vorei suggerire, scritto e curato da Raffaella Di Castro, pubblicato nel 2008 presso l’editore Carocci di Roma: “Testimoni del non-provato. Ricordare, pensare, immaginare la Shoah nella terza generazione”. Alla luce di questi momenti di vera e propria analisi ed autoanalisi con giovani e giovanisssimi appartenenti alla comunità ebraica italiana, occorre forse di nuovo un mutamento ragionato nelle prospettive, negli assetti, nelle strutture stesse del ricordare, che è cosa diversa dalla conservazione della memoria e delle testimonianze, ormai affidate a strumenti di archiviazione che possono riprodurla praticamente all’infinito.

Sono stati pubblicati libri e raccolte di saggi che affrontano il problema con lucidità, intelligenza, chiarezza. Cito soltanto qualche nome, e tutti gli altri non me ne vorranno: David Bidussa, Saul Meghnagi, Micaela Procaccia. Storici, sociologi, tecnici dell’archiviazione della conservazione, filosofi, giornalisti, registi e documentaristi hanno messo in gioco tutte le risorse dei rispettivi mestieri: e il giudizio è pressoché unanime. Nella tradizione e nella percezione degli ebrei e delle famiglie ebraiche al ricordo specifico della Shoah resterà indissolubilmente legato il senso della perdita irrimediabile e del lutto, accompagnato dal dovere della memoria storica, che è di tutti. E dico questo non per istituire assurde distinzioni e differenze, in quanto un soldato italiano appena diciottenne assassinato a Cefalonia è stato ovviamente vittima della furia nazista quanto una ragazza ebrea di Kiev o di Vilna: bensì, e con molta umiltà, per ricordare ancora una volta che tra le specificità della Shoah, quella forse più significativa va ricercata e riconosciuta nella natura simbolica che ha finito per assumere rispetto alla ricostruzione storica dei crimini del nazismo, e che al di là delle dimensioni numeriche, per sconvolgenti che siano, ha costretto e costringe ogni ebreo, non importa se per nascita o per scelta di conversione, ad una continua riflessione sulla propria identità e sul rischio esistenziale che questa identità comporta.

Vorrei, per concludere, ritornare su quelle che sono state le vicissitudini della memoria, del gesto stesso del raccontare. Il termine “Shoah”, che è biblico e può approssimativamente tradursi con “catastrofe”, è entrato nel patrimonio comune della memoria storica grazie a Claude Lanzmann e al suo documentario girato quasi trent’anni fa, un documentario sull’assenza di sei milioni persone dal cuore geografico dell’Europa. Le voci fuori campo degli scampati descrivevano la vita degli ebrei del tempo che fu, in luoghi ormai spopolati o trasformati: foreste, villaggi, quartieri. La parola “Olocausto” qui da noi, giustamente, in qualche modo disturba col suo rinviare ai sacrifici di animali sugli altari degli antichi dei della Grecia classica. Per molti, moltissimi anni –quasi quattro decenni- i sopravvissuti non hanno parlato. Già nel 1946 non avevano tardato ad accorgersi che i loro ricordi, perfino la loro presenza fisica, creavano imbarazzo e talvolta disturbo. L’Europa e l’Italia in ricostruzione pensavano ad altro. C’era poi fortissima la reticenza, per alcuni perfino un sentimento irrimediabile di vergogna ad evocare l’innominabile, il male assoluto, la sofferenza assoluta. Nella storia terribile dell’umanità, solo i nazisti, per quel che ne so, hanno deliberatamente torturato anche i bambini più piccoli. Alla scuola elementare della Comunità Ebraica di Roma per cinque anni sono stato compagno di banco ed amico del figlio di un sopravvissuto tra quelli oggi più presenti e più conosciuti. Ho compreso che questa persona è il padre del mio amico Umberto, quando per la prima volta li ho visti insieme nel vecchio ghetto di Roma. Ma era il 2006, ed era anche trascorso mezzo secolo da quando avevo conosciuto Umberto.

Oggi non sono in molti a sapere che nel 1946 il libro più famoso di Primo Levi, “Se questo è un uomo”, venne rifiutato dalla casa editrice Einaudi e poi pubblicato nel 1947 dall’editore De Silva di Torino, con una tiratura di 2.500 copie. Buona parte di questa tiratura, scrive Alberto Cavaglion, “finì in un magazzino di Firenze, e nel novembre del 1966, quando Se questo è un uomo era ormai divenuto un libro-simbolo, nessun volontario si precipitò in quel magazzino fiorentino per salvare dall’alluvione dell’Arno le 600 copie rimaste invendute.”. Anche un altro libro celebre, “Il fumo di Birkenau” di Liana Millu, uscì nel 1947 a Milano per le Edizioni La Prora e conobbe la stessa sorte, peraltro comune a quasi tutta la letteratura di testimonianza di quei primi anni, fino alla ristampa presso Mondadori nel 1957. Dalla emotività negativa degli anni del Processo di Norimberga siamo fortunatamente passati alla emotività positiva di questi due ultimi decenni. Si tratta ora di passare dall’emotività alla storia, al di là dell’atto soggettivo del ricordare che può essere, e così è stato, soltanto dei testimoni sopravvissuti al naufragio della civiltà europea avvenuto nei campi di sterminio. I quali furono sei, e riservati esclusivamente agli ebrei, e infine anche agli zingari. Noi possiamo ancora vedere Auschwitz-Birkenau che fu l’ultimo, soltanto perché le SS non ebbero né il tempo né i mezzi per distruggerlo come avevano fatto con gli altri cinque. Tutti situati in Polonia, mentre il sistema concentrazionario nazista aveva coperto di campi di internamento e transito l’Europa intera, dalla Norvegia fino a Trieste, da Drancy presso Parigi fino alla Bielorussia.

Piero Di Nepi



Martedì 07 Febbraio,2012 Ore: 17:21
 
 
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