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www.ildialogo.org Quel contrappeso della sconfitta che si chiama martirio.,di Aldo Bergamaschi

Giorno della “Memoria”
Quel contrappeso della sconfitta che si chiama martirio.

di Aldo Bergamaschi

27 gennaio 2012 – Nel settantesimo anniversario dell’apertura dei cancelli di Auachwitz, si celebra in Italia il dodicesimo giorno della “Memoria”.
Noi, associazione Aletheia, vogliamo partecipare con un saggio inedito di P. Aldo Bergamaschi, sulla sofferenza della condizione umana, per approfondire le motivazioni che hanno portato alla catastrofe collettiva, scuotere le coscienze a comprendere che “…la ‘vittoria’ non passa attraverso la distruzione del ‘cattivo’, bensì attraverso la distruzione della ‘cattiveria”.
E per i cristiani: “La sconfitta di chi non usa violenza contro qualcuno, è l’affermazione della vittoria della verità nella storia, ed ha un solo nome: martirio”.

Sia santificata la sofferenza

La "sconfitta" dell'uomo giusto è già ipotizzata nel II libro della Repubblica di Platone ("Il vero giusto sarà impalato e crocifisso"). Ma poiché il vero giusto non è Dio, bisogna costruire un mondo in cui egli possa trovarsi a casa sua. Da qui lo sforzo di Platone per costruire la polis perfetta. La quale va ripulita, anzitutto, dai "cattivi" per definizione, e cioè dagli atei; come risulta nel libro X delle Leggi. Questa soluzione si spiega perché non potendo Platone identificare il vero giusto con Dio stesso - e ciò per una ripugnanza mentale che ha afflitto anche gli Apostoli quando Gesù annunciò loro la sua "passione" - ha ipotizzato la eliminazione pedagogica dei "cattivi" mediante il "sofronisterion" (carcere di riabilitazione mentale). E del resto san Tommaso non prevede la distruzione della "zizzania" qualora si riesca a individuarla? Si noti che san Tommaso credeva nella divinità di Cristo.

La sofferenza richiesta per la salvezza dell'uomo è la stessa prevista dall'esame dell'uso della libertà: bisogna rinunciare a mangiare il frutto proibito per essere felici. La libertà di far solo il bene (come Dio) richiede la rinuncia della libertà di fare il male. Cristo paga il prezzo di quella sofferenza richiesta e introduce nel mondo la possibilità della vittoria del bene sul male, almeno tra quelli che accettano di credere in Lui. Ma la "vittoria" non passa attraverso la distruzione del "cattivo", bensì attraverso la distruzione della "cattiveria". E cioè di quel tanto di “marcio” che è in ognuno di noi, mediante metànoia. La "sconfitta" di chi non usa violenza contro qualcuno è l'affermazione della vittoria della verità sulla storia, ed ha un solo nome: martirio.

Le aspettative profonde, delle persone, quali sono? Sono, ahimè, le vittorie etnocentriche dei buoni (noi) sui cattivi (gli altri); dei greci sui barbari, dei romani sui non-romani, di Israele sui gentili, dei musulmani sui cristiani e viceversa, degli americani sui russi e viceversa, degli indiani sui pakistani e viceversa, e persino - come scappa detto a san Paolo - di Cristo che metterà sotto i suoi piedi gli avversari. Ancora oggi, molti cristiani aspettano una venuta trionfale di Cristo per mettere ordine in un mondo sommerso da troppi "cattivi". É l'idea del "messia guerriero" assimilato ai grandi conquistatori. Gesù non è il Dio di un "popolo" ma il Dio-con-noi. Se fosse sceso dalla croce avrebbe dimostrato di non essere il Dio che salva; ma il Dio che vince distruggendo.

C'è il male nel mondo? Tutti lo gridiamo ma dimentichiamo - se siamo cristiani - che l'abbiamo introdotto noi nella storia e nostro è il compito di toglierlo. Gesù ci ha insegnato la metodologia, essendo egli salvatore intrinseco e non estrinseco. Egli, cioè, è una "forza vitale" che fa di ogni credente un grumo di lievito pronto al "martirio" e alla rinuncia di sé, in quanto lievito, perché emerga il "pane", una novità esistenziale che è salvezza per tutti e vittoria della grazia sulla natura. Solo così ogni credente, e tutti insieme, diventa l'anima mundi di cui parla l'autore della lettera a Diogneto.

Il miracolo non è la discesa dalla croce con la clava in mano - la crociata contro i cattivi - ma è il sapore che emerge dall'annullamento del blocco di sale nella pentola della minestra. È il chicco di grano che "morendo" diventa spiga e farina. Non a caso Nietzsche oppone Dioniso al Crocifisso. Infatti, Cristo fermo sulla croce diventa luce, sale, lievito. Dioniso, invece, sgambetta per la foresta senza legge e senza pedagogia; esercita la "volontà di potenza" puntando a essere il superuomo, dominatore degli altri, anziché a essere l'uomo che supera se stesso per porsi come esemplare di perfezione.

Per qualcuno il cristianesimo dà valore alla sofferenza fisica. É purtroppo vero, ma nella misura in cui è diventato "religione": deve allora predicare la "pazienza" a chi soffre a causa delle strutture da lui stesso elaborate (si pensi nel medioevo, alla presenza del ricco e del povero nella civiltà cristiana per volontà divina). E d'altra parte tutte le "religioni" magnificano le sofferenze fisiche quando si tratta di far la "guerra santa". Lo stesso Hegel elogia il musulmanesimo perché l'individuo è sempre pronto a sacrificarsi per il tutto. Il martirio cristiano, invece, è l'affermazione di valori assoluti per i quali, soltanto, sì può mettere in gioco la propria vita. Soprattutto è la via - insegnata da Cristo - per vanificare il dualismo vinto-vincitore, tipico dell'etnocentrismo laico o religioso.

Il cristianesimo - come qualcuno ha suggerito - non discende da una croce, ma da un crocifisso, Non dimentichiamo: Gesù muore (è condannato a morte) per due motivi: 1) Perché contesta il sabato (creduto di istituzione divina); 2) Perché dice Dio suo Padre (negando così il Dio degli eserciti). Gesù, dunque, annuncia la "crisis della religione" e dello Stato nazionale (patria). S. Stefano è ucciso perché contesta il "tempio" e le "istituzioni mosaiche". I martiri successivi perdono quota progressivamente e finiscono per accettare il connubio con uno Stato. Cessano di essere testimoni di "novità esistenziali" e diventano uomini "religiosi" vittoriosi sugli altri uomini "religiosi". Il martirio doveva continuare, almeno per altri dieci secoli, per dare un volto decente alla civiltà occidentale. Ciò non è avvenuto e il cristianesimo è diventato, a sua volta, religione armata come tutte le altre religioni, legate allo Stato nazionale. Sic stantibus rebus, il cristianesimo reale avrebbe potuto dare saggio di essere una "novità", chiedendo, per esempio, di praticare l'obiezione di coscienza ai cristiani presenti in tutte le nazioni implicate nella prima guerra mondiale.

Avrebbe provocato martirio? Ebbene si sarebbe riportato dalla palude "religiosa" al livello di "novità evangelica". Oggi l'obiezione di coscienza è stata inglobata, furbescamente, nelle nervature legislative e, da capo, non ha nulla di profetico. La vera novità sul tema, consiste nel dichiarare illegittimo lo Stato nazionale e sovrano, perché è il primo ostacolo all'attuazione del primo e unitario precetto evangelico "ama Dio... e il prossimo tuo come te stesso". Solo così la morte di Cristo ("sconfitta") avrebbe virtualmente tolto dal mondo tutte le sofferenze fisiche derivanti dalla guerra. Del resto la sofferenza non è mai un valore se non è assunta per un fine. Sia sul piano fisico che sul piano morale la "civiltà" è frutto di rinunce.

Eros e Civiltà sono incompatibili persino per Freud. Demostene, a un ubriacone che si stupiva della sua arte oratoria, rispose: "Plus olei quam vini consumasi" (ho consumato più olio di gomito o di lucerna, che fiaschi di vino). Il 90% delle nostre croci sono dovute alla incapacità di essere cristiani collettivamente e dalla nostra stupidità razionale (il nostro accesso ai bisogni avviene trasformando il mezzo in fine).

Una decente convivenza cristiana è un frutto che nasce dalla rinuncia di sé e cioè dove tutti i battezzati reprimono - in ciò la giusta sofferenza - le richieste dell'Es. Del resto è inevitabile l'insorgenza del classismo tra quelli che soffrono e quelli che fanno soffrire. In questo caso il cristianesimo è già "religione" e tiene il lume. La santità cristiana prevede la "sofferenza" per costruire il Regno e non la sofferenza causata dai fratelli di fede. Ecco perché il Fioretto francescano della "perfetta letizia" non è la celebrazione del colpo di bastone (un male non può rendere felici), ma è una tensione esistenziale finalizzata alla costruzione del Regno, sia pure attraverso la sofferenza. Per il cristiano il senso delle cose è anteriore alle cose stesse. E anche le stimmate sono state chieste da Francesco per assimilarsi a Cristo. E tuttavia noi amiamo pensare che esse siano reazioni della cristianità medioevale alle proposte radicali dell'alter Cristus.

Chiudiamo - senza essere riusciti a dire tutto sul tema - citando una delle più straordinarie intuizioni della "catecumena" Simone Weil: "Nessun avvenimento è un dono di Dio, eccetto la grazia (...) Essere innocente vuol dire sopportare il peso dell'intero universo. Vuol dire gettare il contrappeso. Dunque la purezza non abolisce la sofferenza, anzi la scava infinitamente, ma le dà un significato eterno (...) La grandezza suprema del cristianesimo viene dal fatto che esso non cerca un rimedio sovrannaturale alla sofferenza bensì un impiego sovrannaturale della sofferenza" (L'ombra e la grazia).

Aldo Bergamaschi

- Ordinario di Pedagogia presso l'Uníversità di Verona - 1998



Mercoledì 25 Gennaio,2012 Ore: 14:59
 
 
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