- Scrivi commento -- Leggi commenti ce ne sono (0)
Visite totali: (219) - Visite oggi : (1)
Questo giornale non ha scopo di lucro, si basa sul lavoro volontario e si sostiene con i contributi dei lettori Sostienici!
ISSN 2420-997X

Canali social "il dialogo"
Youtube
- WhatsAppTelegram
- Facebook - Sociale network - Twitter
Mappa Sito

www.ildialogo.org Il progetto europeo dai primi ideali al Trattato di Lisbona,a cura di COMUNITA' DELL'ISOLOTTO

Il progetto europeo dai primi ideali al Trattato di Lisbona

a cura di COMUNITA' DELL'ISOLOTTO

COMUNITA' DELL'ISOLOTTO – ASSEMBLEA COMUNITARIA
domenica 25 febbraio 2018

Il gruppo Sergio, Elena, Maria, Giulia, Gianpaolo e Roberto propone di discutere il seguente argomento:
"Il progetto europeo dai primi ideali al Manifesto di Ventotene"
A questo scopo si allega il documento che verrà presentato domenica prossima

Il progetto europeo dai primi ideali al Trattato di Lisbona
L'assetto istituzionale europeo dopo il Trattato di Westfalia (1648)
Col Trattato di Westfalia, firmato a Münster il 24 ottobre del 1648 si conclude la guerra dei Trent'anni e viene a delinearsi il sistema politico europeo basato su una pluralità di Stati sovrani. Si tratta di una sovranità assoluta, nel senso che lo Stato non riconosce limiti giuridici all'esercizio del proprio potere sovrano e quindi tende ad unificare sotto la sua legge il territorio statale. Rispetto ai rapporti con gli altri Stati, la sovranità si declina in due direzioni. Da un lato lo Stato è sovrano in quanto non subisce interferenze provenienti dall'esterno, per cui sul suo territorio l'unico potere esistente ed operante è quello proprio. La sua sovranità è attestata dal monopolio legale della forza. Nei riguardi degli altri Stati, l'assolutezza della sovranità statale consiste nel diritto di fare guerra, il quale appunto esprime la piena autonomia della volontà sovrana che non riconosce alcun vincolo esterno al proprio agire. Sulla base di tale premessa è evidente che i rapporti interstatali europei continuano ad essere contrassegnati da un alto tasso di conflittualità, con gli antagonismi che sfociano spesso in scontri armati.
Un ulteriore elemento di modernità è la formazione di un nuovo sistema economico, l'economia capitalistica, il cui sviluppo si intreccia strettamente con la realtà dello Stato sovrano. Prima di tutto perché lo Stato sovrano tende ad unificare economicamente il proprio territorio con l'eliminazione progressiva delle vecchie cinture protettive locali, aprendolo quindi ad un sistema di scambi generalizzato. Inoltre diventa preziosa per lo Stato l'attività della nuova classe borghese mercantile che dirige questo processo di crescita economica, indispensabile anche ai fini di una politica estera espansionistica sostenuta e praticata con impiego di strumenti militari. Come scrive il De Montchréstien nel suo “Trattato di economia politica” (1619) - in cui per la prima volta è usata la formula “economia politica” - “il denaro è il nervo della guerra” per cui “la ricchezza del mercante è la potenza dello Stato”. L'economia si configura perciò immediatamente in termini politici per cui lo Stato interviene direttamente nel settore economico per favorirne la crescita. Prendono così avvio le politiche “mercantiliste” che vogliono realizzare lo sviluppo economico interno mediante la difesa delle proprie attività produttive, la conquista di mercati esteri, anche per via militare, in modo da realizzare una bilancia commerciale attiva che introduca moneta nel paese, con cui finanziare poi nuove intraprese economiche. Si tratta quindi di una politica altamente competitiva ed aggressiva nei confronti dei paesi concorrenti, che alimenta una generale conflittualità che sfocia alla fine in vere e proprie guerre. Ormai i conflitti, oltre ad interessare i territori europei, si distendono in scala mondiale per accaparrarsi a fini commerciali regioni extra-europee, comprese quelle americane di recente scoperta. In sostanza questa prima fase della modernità mostra già in maniera inequivocabile l'intreccio profondo fra l'agire politico e l'economia capitalistica, un intreccio che accompagnerà l'intera storia europea fino ai giorni nostri. Del resto, lo stesso liberale Adamo Smith identifica ricchezza e potenza quando scrive che “il grande obiettivo dell'economia politica di ogni paese è quello di incrementare la ricchezza e la potenza del paese stesso” [Indagine sulla natura e la causa della ricchezza delle nazioni – Ed. Isedi 1973 – pag.367].
Un altro elemento importante di qualificazione della sovranità statale, è la “nazione”, della cui realtà è testimone la stessa indagine smithiana. Già con i regimi monarchici dei grandi Stati unitari, l'unificazione territoriale unifica anche culturalmente l'intera popolazione, ad esempio con una lingua dominante che diventa quella di tutto il paese. Ma è soprattutto con la Rivoluzione francese e le vicende storiche dell'Ottocento che l'elemento nazionale acquista un rilievo sempre maggiore.
Il patriottismo rivoluzionario dei giacobini, porta infatti ad identificare la Repubblica con la Nazione ed, alla fine, quest'ultima con la Francia intera. Il conseguente scivolamento nazionalistico assume inizialmente un carattere difensivo di fronte alle coalizioni monarchiche antirivoluzionarie, ma la nazione in armi finisce inevitabilmente per uscire dai confini nazionali per espandersi nelle conquiste napoleoniche, sostenute dall'ideologia rivoluzionaria di diffondere in Europa le conquiste civili, economiche e sociali della Rivoluzione.
D'altro canto però, proprio questa pretesa di supremazia nazionale determina la reazione degli altri popoli, e quindi lo sviluppo di una loro coscienza nazionale, che, con la Restaurazione e la cultura romantica, cerca di legittimarsi andando a ricercare le proprie radici nel lontano passato, in cui pretende rintracciare gli elementi costitutivi della cultura e della identità della Nazione. Il risultato finale è la configurazione dello Stato sovrano assoluto come Stato nazionale.
Si può infine osservare che l'idea di nazione come valore etico-politico sviluppatosi nel corso dell'Ottocento, nasce in aperta contrapposizione al cosmopolitismo della cultura settecentesca, ed ha per soggetto portatore di questa nuova idea politica la classe borghese, come classe dirigente. D'altra parte è evidente che l'idea nazionale si associa necessariamente a quella della forza, sia perché là dove già esiste uno Stato nazionale, la deriva nazionalistica ed espansiva diventa inevitabile soprattutto quando la Nazione è coniugata col principio di una sua missione esterna, nel mondo. Comunque, quando si è sotto un governo straniero, l'azione rivoluzionaria prende necessariamente la configurazione di guerra contro l'oppressore esterno allo scopo di raggiungere appunto l''indipendenza nazionale.
In conclusione gli Stati europei moderni arrivano alla soglia del Novecento con i tre caratteri prima accennati e cioè:
-sovranità assoluta;
-Stato nazionale,
-economia nazionale modellata sul “modo di produzione capitalistico”.
I problemi interni e quelli della convivenza fra Stati sovrani
La società civile ad impronta borghese presenta una vistosa frattura sociale di classe. Su questo versante lo Stato svolge un ruolo di disciplinamento anche duro e violento delle classi pericolose, in modo da assicurare la stabilità dell'ordinamento sociale. Ma c'è anche l'altro problema della convivenza fra soggetti proprietari in forte competizione fra loro. In proposito, la nascente teoria economica di indirizzo liberale, che ha per presupposto l'idea di una società di proprietari retta da un ordine economico razionale, si fronteggia col problema dell'armonia sociale. La soluzione è quella di Smith. Ogni individuo “mira solo al suo proprio guadagno”, però mentre persegue il suo personale interesse “è condotto da una mano invisibile”, per cui mentre opera per i suoi affari privati “spesso persegue l'interesse della società in modo molto più efficace di quando intende effettivamente perseguirlo” [op.cit. Pag. 444]. In altre parole, un sistema economico concorrenziale in cui l'azione degli operatori economici è mossa dall'interesse al profitto, non degenera mai in un conflitto, non solo, ma è proprio questo agire individuale per scopi personali che realizza l'armonia sociale e promuove il benessere di tutti. Da qui esce l'obiettivo della politica economica liberale di togliere all'iniziativa individuale ogni vincolo, in modo che possa espletarsi in tutta la sua potenzialità: “laissez faire, laissez passer”.
Per quel che riguarda i rapporti internazionali fra gli Stati, il principio della sovranità assoluta sembra però impedire la possibilità di una loro convivenza pacifica. Ad accentuare poi questa conflittualità contribuisce lo stretto legame fra Stato moderno ed economia capitalistica, declinata in dimensione nazionale, per cui la competizione economica internazionale si pone come contenuto di quella politica.
Nonostante ciò, nella cultura economica del Settecento, così come si teorizza l'armonia fra gli interessi individuali sul piano interno (Smith), si attribuisce al libero commercio la capacità di attuare un ordine economico mondiale pacifico e progressivo. A farne le spese sono inevitabilmente le politiche mercantiliste. Si sostiene che il commercio è fattore di pace, in quanto richiede rapporti pacifici fra gli Stati. La guerra di conseguenza interrompe queste pacifiche relazioni, che sono anche fattore di progresso per tutti i popoli che vi sono coinvolti. Appare così il motivo, ancora oggi invocato, che il libero commercio sia fattore di stimolo della crescita economica dei paesi e quindi del loro stesso benessere, in quanto favorisce l'apertura di sempre nuovi mercati dove collocare una produzione crescente. Contro lo spirito conquistatore del mercantilismo, si sostiene quindi il principio che proprio nel libero commercio gli Stati trovano il fattore trainante della loro espansione economica. Questa idea del “douce commerce”, del “dolce commercio”, viene inoltre presentata come veicolo di civilizzazione e di pacificazione fra gli Stati ed attraversa tutto il Settecento fino alla Rivoluzione francese. Se queste sono le idee che godono di grande prestigio, è difficile non scorgervi una idealizzazione progettuale molto ideologica, rispetto alla quale la realtà politico-economica presente una faccia ben diversa. Proprio nel Settecento l'economia inglese inizia infatti la sua travolgente ascesa che la innalza in una posizione dominante in scala mondiale, fino agli inizi del Novecento.
Le prime proposte federaliste
Il Settecento si chiude con due grandi rivoluzioni: quella delle colonie inglesi in Nord America, da cui esce la formazione di un nuovo Stato, gli Stati Uniti d'America, e la rivoluzione francese.
A segnalare l'importanza della prima è la costituzione federale del nuovo Stato, che si propone come modello universale di coesistenza pacifica di una pluralità di realtà statali. Come sostiene il Federalist – un'opera che vede impegnati alcuni politici di rilievo, come Jay, Hamilton, Madison ed altri – la causa delle guerre non è il regime monarchico o repubblicano, bensì la sovranità assoluta degli Stati. Lo Stato federale, quindi, riesce a superare le conflittualità inter-statali, come pure assicurare la coesione sociale sulla base di principi liberal-democratici.
Anche all'inizio della Rivoluzione francese compaiono ideali federalisti, che progettano il superamento della divisione fra gli Stati e l'unificazione dell'Europa ed addirittura del mondo, in modo da assicurare la pace con una comunità di popoli liberi ed associati. Non solo, ma si procede anche ad una traduzione politica concreta di questo obiettivo con la Costituzione del 1790, in cui è dichiarata la rinuncia della Francia alle guerre di conquista, perché il genere umano costituisce un'unica società.
Le vicende successive della Rivoluzione soffocano questi intendimenti federalisti, a causa dello scatenarsi della conflittualità sociale e politica interna, a cui si aggiunge l'aggressione alla Repubblica delle monarchie europee. Di conseguenza anche gli stessi “diritti dell'uomo e del cittadino”, pur mantenendo una universalità ideale, di fatto finiscono per radicarsi nello Stato nazionale.
Ovviamente il problema di assicurare la pace all'Europa dopo gli sconvolgimenti rivoluzionari e le guerre napoleoniche, si presenta con grande urgenza alle monarchie riunite nel Congresso di Vienna. Oltre alla loro solidarietà per contrastare qualsiasi ritorno rivoluzionario, l'idea che vi predomina è quella di assicurare la pace europea mediante accordi fra i sovrani da tessere per via diplomatica. Nella Restaurazione, quindi, non trova cittadinanza alcun progetto di limitazione di sovranità degli Stati monarchici, preoccupati soltanto di ripristinare l'Ancien Régime e quindi proprio a questo scopo di evitare guerre che avrebbero indebolito l'ordine politico delle monarchie per grazia divina.
Le istanze liberali e democratiche non vengono però completamente soffocate dalla Restaurazione. Saint-Simon (1760-1825) lancia il progetto di una pace europea su base democratica. Occorre quindi il controllo popolare della politica internazionale e quindi dei governi, in modo da “riunire i popoli europei in un solo corpo politico, conservando ciascuno la sua indipendenza nazionale”. A questo scopo è necessario, perciò istituire un parlamento europeo, “posto al di sopra di tutti i governi ed investito del potere di giudicare le loro controversie”.
Chi si cimenta in un vasto allargamento dell'orizzonte tematico è Proudhon (1809-1865).
Nella sua riflessione si intrecciano due temi fondamentali, quello della sovranità statale e della sua limitazione e quello dell'ordinamento scio-economico e politico della società. Proudhon prende criticamente la distanza dagli esiti giacobini della Rivoluzione francese, in quanto se da un lato è stata riconosciuta la sovranità popolare, dall'altro si è accentrato il potere politico in base al principio della unità della Repubblica. Di conseguenza sono state soffocate le autonomie locali e le loro libertà. Ma anche il principio dell'unità nazionale deve essere respinto. Mettendo sotto accusa l'unità nazionale italiana e quella tedesca, Proudhon osserva che il principio nazionale si identifica con lo Stato unitario, e non favorisce la pace e la democrazia ma è fonte di rivalità e di violenza fra gli Stati. Di fronte al centralismo statale Proudhon pone il “comune” come principale centro di organizzazione della vita collettiva, al quale spettano i poteri legislativi, la polizia, la tassazione e via dicendo.
Da questo rovesciamento di rapporto fra locale e centro, deriva anche la visione di una Europa che non deve realizzarsi uno Stato unitario, in una Confederazione unica, ma deve configurarsi come federazione di confederazioni.
In Italia i temi dello Stato, della nazione e dell'Europa, rientrano nella riflessione di alcuni importanti personaggi del nostro Risorgimento. Uno di loro è Mazzini. Nel suo pensiero è centrale il concetto di nazione unita, che non vede come antitetico a quello di umanità, in quanto ogni nazione ha un compito da svolgere per realizzare l'unità dei popoli del mondo. All'Europa della Santa Alleanza contrappone perciò la Giovane Europa, che deve nascere dalla emancipazione delle nazioni.
Una riflessione che, nel turbine delle vicende nazionali italiane dell'Ottocento, si distanzia nettamente dal progetto unitario mazziniano, è quella di Cattaneo (1801-1869). Cattaneo vede nello Stato nazionale unitario i germi dell'autoritarismo e del soffocamento della libertà. Di conseguenza non può essere considerato come la forma più alta di organizzazione politica dell'umanità, in quanto il suo centralismo comprime l'autonomia e la libertà dei popoli, tanto da rendere indifferente il regime monarchico o repubblicano in presenza del centralismo statale. La convivenza pacifica è possibile solo in una organizzazione democratico-liberale decentrata, per cui lo Stato nazionale è un'unità pluralistica e quindi ha struttura federale. Pertanto, questa limitazione del potere politico centrale conduce a subordinare una pluralità di Stati indipendenti ad un centro di potere superiore, secondo il modello statunitense e svizzero. Ciò vale anche per l'unità italiana che non può essere realizzata che in uno Stato federale che rispetta le collettività regionali e le loro specificità. Lo stesso dicasi per l'Europa, perché, osserva Cattaneo nello scritto “Insurrezione di Milano 1848”, “Avremo pace vera quando avremo gli Stati Uniti d'Europa”.
Il Novecento
I
La prima guerra mondiale ed il dopoguerra
All'affacciarsi del Novecento rimangono tutti i problemi già manifestatisi nei secoli precedenti. Gli Stati europei, e non solo, continuano ad agire politicamente secondo il principio della Ragion di Stato che ha nella sovranità assoluta il suo presupposto basilare. Per di più, come effetto soprattutto della storia politica dell'Ottocento, l'assolutismo della sovranità statale si coniuga ora col principio della nazionalità che sfocia spesso in esasperati nazionalismi. Ad accrescere ulteriormente i pericoli di uno scontro generalizzato, contribuiscono poi politiche espansionistiche richieste dallo stesso sviluppo raggiunto dall'economia capitalistica. Colpito dalla Grande Depressioni di fine Ottocento, il capitalismo riesce ad uscire dalla crisi con la seconda rivoluzione industriale, la ristrutturazione produttiva che vede ora la formazione di grossi complessi produttivi in grado di controllare i mercati, lo sviluppo del sistema bancario e finanziario ed, infine, con la grande espansione coloniale che mette spesso gli interessi economici delle grandi potenze europee, ed anche degli Stati Uniti, in rotte di collisione che porteranno alla fine alla rottura bellica.
Sul nuovo secolo, quindi, precipita tutta l'eredità del passato, per di più aggravata dal nazionalismo e dalle necessità espansive del sistema economico capitalistico. L'imperialismo coloniale è il frutto di questo processo ed è utilizzato dalle classi dirigenti anche per smorzare la conflittualità di classe fra capitale e lavoro che sta montando all'interno degli Stati nazionali e che pone problemi non indifferenti per la stabilità sociale interna. Non è un caso che lo sfruttamento economico delle colonie serva anche a fornire risorse per allentare la tensione sociale interna con miglioramenti salariali e riforme a favore del lavoro (assicurazioni per le malattie e gli infortuni sul lavoro, per coprire la disoccupazione, le pensioni e via dicendo). In breve, il problema che viene a manifestarsi in dimensione sempre più ampia, nasce sostanzialmente da una contraddizione strutturale. Da un lato, infatti, lo Stato nazionale è necessario per il capitalismo, e quindi si deve mettere a disposizione del sistema economico per sostenerlo. Però il sostegno richiesto in questa nuova fase di sviluppo economico non è più contenibile entro i confini politici dello Stato nazionale, per cui diventa assolutamente necessario dilatarli attraverso le conquiste coloniali, con tutte le conseguenze conflittuali nei rapporti fra le grandi potenze .
Dato questo contesto storico, non è un caso che il tema dell'imperialismo divenga centrale non solo nella riflessione di politici di ispirazione socialista, ma anche di intellettuali che guardano con attenzione critica al preoccupante scenario che si va delineando, come l'economista inglese Hobson (1858-1940) che usa fra i primi il concetto di “imperialismo”. A suo parere la grande espansione coloniale è lo sbocco inevitabile del capitalismo a causa di un eccesso di capacità produttiva a fronte di una domanda deficitaria. In ogni caso è soprattutto nell'area socialista che questa nuova stagione dell'economia capitalistica diventa oggetto di analisi approfondite. Per limitarci ai testi più noti ancora oggi, è obbligatorio il richiamo a Rosa Luxemburg ed al suo studio su “L'accumulazione di capitale” ed a Lenin nel famoso saggio su “L'imperialismo come fase suprema del capitalismo”, scritto nel 1916 a guerra ormai in corso. L'idea che li accomuna è la convinzione che l'imperialismo e la guerra non siano altro che la più rilevante manifestazione delle insanabili contraddizioni del capitalismo nella fase più alta del suo sviluppo, a cui seguirà il suo crollo imminente.
È inevitabile che lo scoppio del conflitto nel 1914, solleciti anche una riflessione concentrata sulla situazione europea. Per rimanere ancora fra i teorici del socialismo, merita in proposito richiamare l'attenzione su uno scritto del 1915 di Lenin e Zinov'ev pubblicato a Ginevra sulla rivista socialdemocratica “Sozialdemokrat”, dal significativo titolo “Sulla parola d'ordine degli Stati Uniti d'Europa”. Ovviamente si tratta di un articolo datato (ad esempio si ritiene imminente una rivoluzione socialista in tutta l'Europa), tuttavia contiene spunti interessanti per l'attualità del tema europeo. Vi si sostiene che se l'unificazione europea dovesse avvenire sotto l'egida della dominazione capitalistica e, quindi, imperialistica, o fallirebbe o sarebbe necessariamente una costruzione reazionaria. Interessante poi è la considerazione sul principio di nazionalità. Se in Europa, è andato degenerando in un nazionalismo aggressivo, per i due rivoluzionari russi il rilancio di questo principio nelle colonie darà vita ad uno sconvolgimento che colpirà a morte gli imperi coloniali europei e quindi faciliterà la vittoria della rivoluzione socialista. Per quel che riguarda poi il problema dei rapporti con la pluralità dei popoli presenti nell'ex impero zarista, Lenin ed i bolscevichi fanno proprio il principio del diritto all'autodeterminazione nazionale, andando però incontro alla critica di Rosa Luxemburg (La rivoluzione russa. Un esame critico). A parere di quest'ultima, infatti, tale diritto non fa altro che condurre ad un estremismo nazionalistico usato dalle borghesie nazionali contro la Rivoluzione.
Anche Trotskij all'inizio della guerra affronta il tema europeo nell'opuscolo “La guerra e l'Internazionale”. Secondo la sua opinione, le cause della guerra vanno rintracciate nella sfera economica, nel senso che lo sviluppo delle forze produttive del capitalismo rompe la forma statale nazionale della loro utilizzazione. Insomma, i vecchi Stati nazionali sono superati, tanto che La guerra del 1914 costituisce prima di tutto la crisi dello Stato nazionale come area economica autosufficiente”. Di conseguenza, conclude Trotskij, il compito del proletariato europeo non è la difesa della patria nazionale, ormai freno allo sviluppo economico, ma è quello di creare una nuova patria più progressiva, “gli Stati Uniti d'Europa come fase transitoria verso gli Stati Uniti del Mondo”.
Dopo la guerra il tema degli Stati Uniti d'Europa interessa l'Internazionale Comunista. Sulla Pravda del 23 giugno 1923 viene pubblicato in proposito un articolo di Trotskij come base per una più ampia discussione. L'idea dell'allora dirigente bolscevico è che le due parole d'ordine, Stati Uniti d'Europa e governo operaio-contadino, devono combinarsi l'una con l'altra. Dato che la borghesia europea è incapace di affrontare tali problemi, occorre che sia il proletariato a farsi carico dell'obiettivo europeo, all'interno di una prospettiva politica che non può essere subito socialista, e comunque sotto un suo forte ruolo di direzione .
In campo liberale una posizione significativa è quella di Einaudi (1874-1961). In alcuni articoli pubblicati nel 1918 su “Il Corriere della sera” sostiene che la causa della guerra risiede nell'anarchia internazionale dovuta alla divisione dell'umanità in Stati sovrani nazionali. Della sovranità si denuncia quindi il principio di assolutezza che trova la sua espressione specifica nel diritto di fare guerra. Ad accentuare questa tendenza aggressiva sta poi la fusione fra Stato e nazione, che comporta un forte centralismo statale e la soppressione dei legami sociali spontanei e liberi degli individui.
Anche la cultura liberale prende atto quindi della crisi dello Stato nazionale resa esplosiva proprio dalla prima guerra mondiale. Ne discende una progettualità politica che mira a superare, almeno in dimensione europea, questa pluralità di entità statali, da unificare in una istituzione unitaria superiore. L'obiettivo è quello di impedire al nostro continente di precipitare di nuovo nel baratro di una guerra. Sulla base di questi presupposti comincia a prendere consistenza l'idea federalista di orientamento liberal-democratico. Si denuncia l'anarchia internazionale come fonte di conflitto e quindi si propone il superamento degli Stati sovrani anche a struttura democratica, dal momento che “la guerra non può essere prevenuta in un mondo di Stati sovrani”, indipendentemente dal loro regime politico interno, come sostengono i federalisti inglesi. Neppure la Lega delle Nazioni ed i patti internazionali costruiti per via diplomatica possono prevenire la guerra e salvaguardare la civiltà e la pace.
Dato che le cause della guerra sono attribuite alla sovranità degli Stati nazionali, si respinge decisamente l'idea che debba ricercarsi nei processi e nei meccanismi dell'economia capitalistica l'insorgere di interessi antagonisti che portano alla fine ad uno sbocco militare. In definitiva, la contraddizione fondamentale della nostra epoca non è neppure l'opposizione di capitalismo e socialismo, ma quella fra nazionalismo e federalismo.
La crisi degli anni Trenta e le politiche di azione statale in materia economica non passano inosservati ad un pensiero di impostazione liberista. Ne è uno dei massimi esponenti l'economista inglese Lionel Robbins. Nel suo scritto “L'economia pianificata e l'ordine internazionale” del 1937 denuncia l'intervento dello Stato all'interno dei processi economici a cui attribuisce la responsabilità di esasperare il nazionalismo economico e quindi di rafforzare lo Stato nazionale col conseguente inasprimento delle tensioni internazionali.
Se le linee di riflessione appena viste riguardano il pensiero liberal-democratico e quello liberista, anche il movimento socialista rimane interpellato dalla realtà dello Stato nazionale. Ciò soprattutto alla luce del fallimento della Seconda Internazionale e della impotenza della classe operaia ad impedire la guerra con lo sciopero generale. Di fronte alle dichiarazioni di guerra ed al conflitto crolla la solidarietà internazionale della classe operaia indipendentemente dalla appartenenza nazionale. In realtà prevale il principio nazionale, per cui i principi del socialismo rimangono declinati nei termini della politica interna allo Stato nazionale che costituisce già, e lo sarà ancor più nel futuro dopo la seconda guerra mondiale, lo spazio politico per le realizzazioni del riformismo socialista. Il problema delle relazioni internazionali fra Stati sovrani rimane ancora irrisolto.
II
La seconda guerra mondiale
Il ventennio circa che separa la prima dalla seconda guerra mondiale è teatro di avvenimenti straordinari, sia sul piano politico che su quello economico e sociale. Già ancora a guerra in corso, in Russia la Rivoluzione sovietica guidata dai bolscevichi dopo un lungo conflitto interno, crea una nuova entità politica ed economica – l'URSS – contrapposta ai regimi liberal-democratici e capitalistici occidentali. Con la rivoluzione russa inizia il “Secolo breve”, ridotto a poco più di un settantennio, ma densissimo di tragici avvenimenti. Gli eventi che hanno caratterizzato questo periodo con la loro peculiarità vedono l'ascesa del fascismo in Italia e del nazismo in Germania e la Grande crisi economica del 1929 che proietta i suoi effetti sull'intero decennio Trenta, per trovare infine nella guerra il suo superamento. Si può parlare di un secolo che assegna alla politica statale un ruolo primario, anche all'interno delle economie capitalistiche travolte dal grande crollo. In breve, comunismo sovietico, fascismo e nazismo, New Deal statunitense, registrano tutti, ovviamente con le proprie specificità, la forte presenza statale che penetra capillarmente nel tessuto della società.
Dalla guerra gli Stati europei escono ridimensionati sotto il profilo del loro ruolo internazionale, benché le potenze coloniali si illudano ancora di continuare con le vecchie politiche. Per quel che riguarda l'assetto continentale europeo, il Trattato di Versailles e gli altri Trattati di pace, non segnalano alcuna correzione degli estremismi nazionalistici che hanno portato alla guerra. Keynes, nel suo profetico libro “Le conseguenze economiche della pace” del 1919, sottopone ad una critica radicale la condotta punitiva dei paesi vincitori nei confronti della Germania sconfitta. Anziché superare i vari nazionalismi in una superiore visione di cooperazione e concordia europee, la tesi keynesiana è che i Trattati di pace in realtà esasperano le tensioni nazionalistiche e gettano le premesse di un futuro conflitto. In breve, le vecchie classi dirigenti europee mostrano tutta la loro inconsistenza ed incapacità. Non sono infatti all'altezza degli scenari internazionali che si vanno delineando con l'ascesa degli Stati Uniti d'America e la formazione dell'Unione Sovietica, e non riescono a governare le tensioni interne dovute al mancato rispetto delle promesse di promozione sociale per le classi lavoratrici ed i ceti subalterni per i loro sacrifici ed il loro sostegno alla guerra, ed aggravate dalla crisi economica, culturale e psicologica della piccola borghesia. Peraltro, specialmente in alcuni paesi come l'Italia ed anche la Germania, il ritorno alla pace si dimostra particolarmente difficile sia sul piano politico che su quello economico, con la vecchia dirigenza liberale incapace di gestire situazioni contrassegnate da radicali fratture sociali e politiche. Si pensi alla nascita ed all'avvento al potere del fascismo in Italia nel 1922 e nel 1933 del nazismo in Germania.
In conclusione si può dire che le tematiche finora viste rimangono tutte ed anzi ancor più esasperate e cioè l'anarchia internazionale data la pluralità di Stati sovrani, il nazionalismo coltivato specialmente dal fascismo e dal nazismo, l'economia capitalistica la cui crisi riversa sul tessuto sociale effetti devastanti. Con gli anni Trenta il mondo entra quindi in una deriva critica che ha nella guerra il suo sbocco finale e tragico. Non è più soltanto una guerra europea, perché coinvolge l'umanità intera.
Il Manifesto di Ventotene
Lo scatenarsi della seconda guerra mondiale, ancor più devastante e distruttrice della prima, ripropone con una urgenza ed una necessità sempre maggiori le tematiche dello Stato nazionale sovrano, del sistema politico e sociale e di quello economico. Insomma, si tratta di definire le condizioni che consentano all'Europa ed a tutti gli altri paesi di realizzare un mondo di pace. Con le due guerre mondiali questa problematica rimane sostanzialmente inalterata, per quanto notevolmente cresciuta nelle sue dimensioni. Un tentativo di dare una risposta a queste questioni, naturalmente sullo sfondo dell'evento bellico, ci è fornito dal Manifesto di Ventotene.
Ventotene è un'isola del Tirreno nella quale vengono confinati alcuni antifascisti, condannati dai tribunali del regime in quanto suoi oppositori. All'interno di questa comunità di oppositori al fascismo si accendono importanti dibattiti sulla situazione europea e mondiale, se non altro per la presenza di diverse impostazioni politiche. Come frutto di queste discussioni e con il contributo importante di Eugenio Colorni e Ursula Hirschmann, Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi redigono nel 1941 il “Progetto di un manifesto per un'Europa libera ed unita”. Diffuso all'inizio clandestinamente in copie ciclostilate, il testo viene poi pubblicato nel 1944 a Roma sempre in clandestinità da Eugenio Colorni che ne cura la redazione e lo presenta con una propria densa prefazione. Questa edizione porta il titolo “Problemi della Federazione Europea”, si diffonde negli ambienti della Resistenza italiana, con traduzione poi in diverse lingue, fino a divenire il programma del Movimento Federalista Europeo, fondato da Spinelli a Milano il 28 agosto 1943.
Dei tre principali autori, Spinelli, Rossi e Colorni, è da rimarcare la diversità culturale, essendo rispettivamente un ex comunista, un liberale ed un socialista, il che non ha impedito, in quanto accomunati dalla condizione di vittime del regime fascista, di trovare convergenze ideali nella lettura della tragica realtà della guerra e delle prospettive future.
Ad illustrare sinteticamente le linee maestre che presiedono alla stesura del Manifesto, provvede già la Prefazione di Colorni alla pubblicazione clandestina del 1944. Emerge subito il concetto chiave di imputare allo Stato nazionale sovrano la causa dei mali più profondi della nostra epoca: “La contraddizione essenziale, responsabile delle crisi, delle guerre, delle miserie e degli sfruttamenti che travagliano la nostra società, è l'esistenza di Stati sovrani geograficamente, economicamente, militarmente individuati, considerati dagli altri Stati come concorrenti e potenziali nemici viventi gli uni rispetto agli altri in una situazione di perpetuo bellum omniuum contra omnes”. In una parola, lo Stato sovrano nazionale viene considerato la causa unica della grande crisi di civiltà del nostro tempo, di cui la guerra è l'espressione più eclatante e violenta, ma che ha la propria radice appunto nella sovranità statale. Ne discende l'impraticabilità di qualsiasi progetto politico anche di riforma sociale che abbia per orizzonte i confini nazionali. Già in questa prefazione emerge immediatamente il motivo conduttore della elaborazione del Manifesto e cioè la condanna senza appello dello Stato nazionale quale unico responsabile delle guerre e delle loro nefaste conseguenze. In questo approccio non è difficile individuare l'influsso della cultura liberale degli anni Venti e Trenta, di cui si è prima parlato, dalle cui coordinate esce la inderogabile necessità del progetto federale. Si tratta di una tematica che richiama anche la riflessione di Carlo Rosselli. L'ascesa del fascismo in Italia e del nazismo in Germania sono considerate dal nostro antifascista l'espressione di una vera e propria crisi della civiltà europea. In queste due barbare forze politiche viene vista l'estrema manifestazione dello Stato sovrano nazionale, per cui dalla loro sconfitta non può che uscire necessariamente un nuovo ordine europeo sovranazionale e cioè uno Stato federale europeo.
Nel Manifesto incontriamo le stesse coordinate. Il titolo del primo capitolo evoca subito il problema cardine del nostro tempo e cioè “La crisi della civiltà moderna”, cioè di una civiltà che ha a suo principio base la libertà, per cui ogni uomo è un centro autonomo di vita e non può essere “un mero strumento altrui”. Questa libertà individuale si è inizialmente coniugata con “l'uguale diritto di tutte le nazioni di organizzarsi in stati indipendenti” che è stato un potente fattore di progresso in quanto ha permesso di superare “i meschini campanilismi”, gli ostacoli che bloccavano la circolazione di uomini e merci, in una più vasta solidarietà che ha consentito di superare anche l'oppressione del dominio straniero. Tuttavia questo diritto portava in sé i germi del nazionalismo imperialista, in quanto ha assolutizzato il principio della sovranità statale nazionale da cui è scaturita la tendenza a dominare altri Stati e popoli. Non solo ma è stata anche compromessa la libertà dei cittadini, diventati sudditi di uno Stato militarizzato, in cui l'intera organizzazione politica ed economica è funzione della potenza bellica. Il riferimento al fascismo ed al nazismo è evidente.
Con la vittoria del totalitarismo la vittima più illustre è lo Stato democratico, le sue libertà ed i diritti politici, il suo riformismo politico e sociale contro i vecchi privilegi di classe, tanto che i ceti privilegiati hanno difeso la propria posizione appoggiando le dittature fascista e nazista. Si tratta di uno Stato di polizia, accentratore, burocratico, autarchico in cui si pratica un forte sfruttamento del lavoro. D'altra parte a facilitarne la vittoria è stato anche il particolarismo di interessi corporativi, non solo dei grandi complessi bancari ed industriali, ma anche dei lavoratori e dei loro sindacati, unito al fallimento della classe dirigente liberale che non ha saputo trovare la mediazione che potesse ricomporre in una unità superiore questi interessi settoriali. Sotto lo Stato totalitario l'ordinamento sociale vede così “assicurata l'esistenza del ceto assolutamente parassitario dei proprietari terrieri assenteisti, e dei redditieri che contribuiscono alla produzione sociale solo col tagliare le cedole dei loro titoli, dei ceti monopolistici e delle società a catena che sfruttano i consumatori...”. Si denuncia in sostanza un capitalismo parassitario che sostiene il regime fascista per salvaguardare i propri interessi. L'autarchia è lo strumento economico basilare per la difesa di questo capitalismo, con “i più evidenti concetti della scienza economica” considerati un anatema, sostituiti dai “ferrivecchi del mercantilismo”. Traspare in questa critica una ideologia economica che ha nel liberismo fondato sulla teoria marginalista la sua fonte di ispirazione, peraltro richiamata ed approvata apertamente da Carlo Rosselli nel suo “Socialismo liberale”.
Naturalmente questo totalitarismo statalista si nutre di ideologie razziste, di soppressione di ogni spirito critico, di feroce violenza. Occorre perciò la sua definitiva sconfitta, di cui l'andamento della guerra fornisce motivi di speranza.
Il secondo capitolo delinea i compiti del dopoguerra ed il progetto dell'unità europea. Si osserva preliminarmente che la sconfitta della Germania non porta automaticamente ad istituire il riordino dell'Europa secondo gli ideali di civiltà proposti. Ci sono forze reazionarie che cercheranno di difendere la supremazia finora goduta, magari presentandosi in vesti camuffate: i quadri superiori delle forze armate, le monarchie, il capitalismo monopolista, i grandi proprietari fondiari e le gerarchie ecclesiastiche. Quello che esse cercheranno di fare è la restaurazione dello Stato nazionale, entro il quale cercheranno di controllare le masse popolari, catturandole ai loro fini con un falso pacifismo, con promesse di benessere. Ma il loro vero scopo è quello di mantenere la loro posizione dominante politicamente, socialmente, economicamente. Insomma, se venisse mantenuto lo Stato nazionale sovrano, verrebbe meno la possibilità di qualsiasi progresso sociale e miglioramento economico. La risposta da dare è allora la definitiva abolizione della divisione dell'Europa in stati nazionali sovrani e quindi la prospettiva di una organizzazione federale del nostro continente, resa possibile proprio dalla caduta del nazi-fascismo. D'altra parte anche il progetto di istituzioni come la Società delle Nazioni si dimostra inutile e dannoso. Ciò perché è incapace di creare un ordine internazionale proprio perché rispetta la sovranità assoluta degli Stati partecipanti e non possiede una forza militare in grado di imporre le sue decisioni.
Al contrario, con la formazione degli Stati Uniti d'Europa si riuscirebbero s risolvere molteplici problemi altrimenti insolubili, come i confini di Stati a popolazione mista, la questione irlandese, quella balcanica e via dicendo. Non solo, ma lo stato federale europeo consentirebbe di trovare basi di accordo per una sistemazione europea dei problemi coloniali. Di conseguenza “la federazione europea è l'unica garanzia concepibile che i rapporti con i popoli asiatici e americani possano svolgersi su una base di pacifica cooperazione, in attesa di un più lontano avvenire, in cui diventi possibile l'unità politica dell'intero globo”.
Se tutto ciò concerne il quadro internazionale, è evidente che lo Stato federale europeo rimette in discussione gli assetti istituzionali tradizionali, come le monarchie, per cui gli Stati Uniti d'Europa “non possono poggiare che sulle costituzioni repubblicane di tutti i paesi federati”. Ma è altrettanto evidente che anche la lotta politica interna dovrà subire trasformazioni radicali, nel senso che la nuova linea di separazione è quella fra coloro che rinchiudono l'obiettivo della conquista del potere politico entro lo Stato nazionale, favorendo anche involontariamente il gioco delle forze reazionarie, e coloro che useranno anche il potere politico nazionale “come strumento per realizzare l'unità internazionale”. E per essere effettiva questa unità europea dovrà disporre “di una forza armata al posto degli eserciti nazionali” e dovrà spazzare via “decisamente le autarchie economiche, spina dorsale dei regimi totalitari...”.
Naturalmente a rendere efficace la riforma istituzionale europea sarà necessaria anche la riforma della società, che dovrà eliminare “la disuguaglianza ed i privilegi sociali”. PerciòLa rivoluzione europea, per rispondere alle nostre esigenze, dovrà essere socialista, cioè dovrà proporsi l'emancipazione delle classi lavoratrici e la creazione per esse di condizioni più umane di vita”. Ma di che tipo di socialismo si tratta? A quale modello di economia ci si riferisce?
Il principio basilare è che “le forze economiche non debbono dominare gli uomini ma – come avviene per le forze naturali – essere da loro sottomesse, guidate, controllate nel modo più razionale, affinché le grandi masse non ne siano vittime”. Questo significa forse praticare una pianificazione economica centralizzata ad opera di uno Stato proprietario dei mezzi di produzione? Il collettivismo messo in atto dall'esperienza sovietica viene respinto radicalmente e drasticamente, in quanto si tratta di un sistema burocratico, a cui si è cercato di mettere riparo con l'incentivo di salari differenziati. Qual è allora l'agente che mette in moto le forze del progresso economico, che è la premessa necessaria per la produzione di risorse di cui dovrà beneficiare largamente la classe lavoratrice? La risposta è netta: l'interesse individuale, quindi un modello di economia in cui la proprietà privata e la corrispondente iniziativa economica siano garantite e libere. Un problema comunque rimane, ed è quello di impedire che il pieno dispiegamento delle forze economiche mosse dall'interesse privato, sottometta a questa logica gli esseri umani, ma, al contrario, possa essere utilizzato per il bene comune. In breve, “Quelle forze vanno esaltate...ed estese offrendo loro una maggiore possibilità di sviluppo ed impiego” e tuttavia “contemporaneamente vanno perfezionati e consolidati gli argini che le convogliano verso gli obiettivi di maggiore utilità per tutta la collettività”.
In questa formula è racchiuso il progetto della riforma sociale da realizzare nello Stato federale europeo. L'obiettivo è la “formazione di una vita economica europea liberata dagli incubi del militarismo e del burocraticismo nazionali. In essa possono trovare la loro liberazione tanto i lavoratori dei paesi capitalistici oppressi dal dominio dei ceti padronali, quanto i lavoratori dei paesi comunisti oppressi dalla tirannide burocratica”. L'economia così genericamente delineata viene poi articolata il alcuni punti fondamentali. Le grosse imprese che, per la loro dimensione possono ricattare il governo devono essere nazionalizzate, come pure i settori necessariamente monopolistici che devono essere tolti ai privati e nazionalizzati. Qui traspare chiaramente il pensiero liberista imperante fino agli anni Settanta del '900 per il quale il mercato concorrenziale è caratterizzato dalla molteplicità degli agenti economici sia dal lato della domanda che da quello dell'offerta. Quando però alcune attività si svolgono trecnicamente in forma monopolistica, allora devono trasformarsi in servizi pubblici. In questo senso si esprime Luigi Einaudi Nelle sue “Lezioni di politica sociale”.
Si progetta anche la riforma agraria in modo che la proprietà della terra passi a chi la coltiva, come pure una riforma industriale in modo da estendere la proprietà dei lavoratori, facilitando il cooperativismo e l'azionariato operaio. Un'attenzione particolare è riservata all'uguaglianza nei punti di partenza, che è classico obiettivo schiettamente liberale. A questo scopo si attribuisce un ruolo importante alla scuola pubblica che deve consentire ai soggetti idonei di proseguire gli studi fino ai gradi superiori. Contro i rischi di povertà si respingono soluzione caritative ma si esalta la solidarietà che trova la sua primaria espressione nella previdenza sociale, la cui istituzione peraltro è già in fase avanzata nello stesso Stato nazionale. Naturalmente si difendono i fondamentali diritti di libertà, compreso il diritto alla libera associazione sindacale, per difendere il quale si denunciano i sindacati monopolistici. Comunque i sindacati sono sollecitati a cooperare con gli organi statali ma devono rimanere esclusi da qualsiasi funzione legislativa, che richiama il sistema corporativo. Insomma, la politica deve porsi su un piano superiore in modo da svolgere la funzione di sintesi, permettendo la coesistenza degli interessi particolari. Ovviamente si difende la divisione dei poteri con l'indipendenza della magistratura e con organi rappresentativi per la formazione delle leggi. Per quel che riguarda infine il rapporto fra Stato e Chiesa, viene respinta ogni ipotesi di concordato – è evidente il peso negativo di quello fra Chiesa cattolica e regime fascista – in base al principio della completa laicità dello Stato.
Nell'ultimo capitolo La situazione rivoluzionaria: nuove e vecchie correnti – si sottolinea il trionfo delle tendenze democratiche in tutte le loro sfumature. L'obiettivo è quello di convocare un'assemblea costituente dei democratici in cui il popolo liberamente decida quale costituzione darsi. Per raggiungere questo scopo vengono definiti i punti qualificativi che devono individuare la rivoluzione federalista rispetto ad altre correnti politiche. Preso di mira è soprattutto il movimento comunista. Subito si respinge drasticamente l'idea di ridurre tutti i problemi politici alla lotta di classe. Quando vengono messe in questione le istituzioni della società, il pericolo è che le rivendicazioni classiste non riescano a connettersi agli interessi degli altri ceti, oppure che aspirino alla dittatura di classe per realizzare l'utopistica collettivizzazione dei mezzi di produzione. Inoltre si imputa ai comunisti la loro dipendenza dallo Stato russo “che li ha ripetutamente adoperati senza scrupoli per il perseguimento della sua politica nazionale”. Si constata comunque che nella crisi rivoluzionaria essi sono più efficienti dei democratici, perché riescono a catturare il consenso dei proletari. In ogni caso si auspica che i comunisti collaborino con le varie forze democratiche, senza però essere egemoni. Infatti, qualora fossero “forza politica dominante il risultato sarebbe “il fallimento del rinnovamento europeo”.
Ma, secondo il Manifesto, rimane radicata nelle vecchie impostazioni anche la politica degli Stati nazionali che hanno pianificato profondamente le loro economie, col rischio che gli interessi di una classe riescano a “detenere le leve del comando del piano”. La classe, infatti, è intesa come gruppo sociale particolare volto a difendere i propri particolari interessi e quindi tendente ad alterare le condizioni di uguaglianza di opportunità, ovviamente dei singoli individui, nei punti di partenza e, sul piano economico a porsi in posizione dominante con l'eliminazione della concorrenza. In questo concetto rientrano sia il sindacalismo rivendicativo, sia i grandi trust monopolistici ed oligopolistici. Il rischio è quello di precipitare di nuovo o in un regime reazionario, oppure comunista. La vera forza politica nuova è invece quella che ha per obiettivo la rivoluzione europea. Essa deve necessariamente svolgere la propria iniziativa di reclutamento e di alleanza verso la classe operaia ed i ceti intellettuali. Deve sapere sintetizzare l'apporto di queste due forze. Se si limita ai soli intellettuali, manca la forza di massa necessaria per vincere le resistenze reazionarie. Se si regge solo sulla classe operaia rimane priva di quella chiarezza di pensiero che non può venire che dagli intellettuali. Durante il rivolgimento rivoluzionario spetta quindi a questo partito del cambiamento il compito di organizzare e dirigere le forze progressiste verso la realizzazione della federazione europea, gli Stati Uniti d'Europa.



Sabato 24 Febbraio,2018 Ore: 18:10
 
 
Ti piace l'articolo? Allora Sostienici!
Questo giornale non ha scopo di lucro, si basa sul lavoro volontario e si sostiene con i contributi dei lettori

Print Friendly and PDFPrintPrint Friendly and PDFPDF -- Segnala amico -- Salva sul tuo PC
Scrivi commento -- Leggi commenti (0) -- Condividi sul tuo sito
Segnala su: Digg - Facebook - StumbleUpon - del.icio.us - Reddit - Google
Tweet
Indice completo articoli sezione:
Storia

Canali social "il dialogo"
Youtube
- WhatsAppTelegram
- Facebook - Sociale network - Twitter
Mappa Sito


Ove non diversamente specificato, i materiali contenuti in questo sito sono liberamente riproducibili per uso personale, con l’obbligo di citare la fonte (www.ildialogo.org), non stravolgerne il significato e non utilizzarli a scopo di lucro.
Gli abusi saranno perseguiti a norma di legge.
Per tutte le NOTE LEGALI clicca qui
Questo sito fa uso dei cookie soltanto
per facilitare la navigazione.
Vedi
Info