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www.ildialogo.org Giulio Andreotti,di Paolo Corsini

Storia
Giulio Andreotti

di Paolo Corsini

Su sollecitazione dell'amico e collaboratore Carlo Castellini di Brescia, pubblichiamo questa commemorazione ufficiale di GIULIO ANDREOTTI, ad un anno dalla morte, che lui ha ricevuto dal senatore del PD Paolo Corsini, prof. di storia a Parma, e due volte sindaco di Brescia dopo Martinazzoli. Carlo Castellini spera che questa pubblicazione possa "suscitare commenti e reazioni critiche di tipo costruttivo". Riflettere su Andreotti è in realtà riflettere sulla storia d'Italia, su ciò che siamo oggi e su cosa occorre fare per uscire dalla situazione nella quale ci troviamo. E' un po' fare i conti con se stessi, cosa di cui oggi abbiamo tremendamente bisogno. Rimane durissimo e immutato il nostro giudizio critico su Giulio Andreotti e sulla sua politica. Abbiamo deciso di pubblicare questa nota, pur non condividendola, per far si che il dibattito sulla nostra storia esca dalle stanze chiuse dei palazzi del potere e coinvolga quante più persone possibili. In questo testo c'è un giudizio su Andreotti, ci aspettiamo che possano giungerci altri testi con giudizi di segno diverso. Di seguito il testo dell'email con il quale il senatore Corsini ha fatto conoscere la sua relazione.

 

Cara amica, caro amico,
essere parlamentare comporta assumersi qualche responsabilità. Mi è toccato persino commemorare in Senato, su incarico del mio gruppo parlamentare, Giulio Andreotti che non è stato propriamente rappresentante di una componente della Dc da me apprezzata. Ne è uscito il testo che mi permetto di inviarti.
Con molte cordialità, Paolo Corsini

Paolo Corsini
Commemorazione di Giulio Andreotti
Aula del Senato - 17/9/2013
1. Delineare un ritratto, per quanto conciso, di una personalità controversa e discussa come quella di Giulio Andreotti, certamente il personaggio più longevo della storia politica italiana dei decenni successivi alla IIa guerra mondiale, costituisce un’impresa ardua, da affidare alla ricerca degli storici. Essi potranno, così, sine ira ac studio, definire i tratti salienti di una presenza che ha certamente lasciato un’impronta rilevante nella vicenda dell’Italia contemporanea, come ha giustamente sottolineato nell’occasione della scomparsa il presidente Giorgio Napolitano.
Per quel che mi riguarda vale l’impegno di una commemorazione, cioè di un ricordo pubblico, che se da un lato sconta passioni tuttora non spente e una distanza critica non ancora colmata, dall’altro evoca la responsabilità di un giudizio rispettoso ed equanime, ispirato ad equilibrio e moderazione. Per quanto, infatti, la sua vita sia stata ininterrottamente illuminata dai riflettori – la sua vita pubblica dico, perchè quella privata e famigliare è stata da lui protetta con assoluta discrezione e non è mai tracimata come spesso avviene –, per quanto le sue battute e i suoi motti siano a pieno titolo entrati nel lessico della politica, appartenendo all’espressività corrente degli italiani, la personalità di Andreotti resta per molti versi insondabile, spesso a diretto contatto col mistero che ne ha avvolto passaggi e sviluppi salienti, di frequente legati a pagine non ancora scritte compiutamente, né sufficientemente svelate della storia nazionale.
C’è tuttavia un tratto unificante che tiene insieme politica, psicologia, religiosità, costume e pulsioni del personaggio. Lo ha individuato nitidamente Miguel Gotor, quando ha sottolineato che “Andreotti si iscrive a pieno titolo dentro una tradizione di realismo politico di origine cattolico controriformata e, in particolare, nella specifica variante della dottrina della ragion di Stato ecclesiastica, di cui è stato l’ultimo interprete novecentesco, il più abile e raffinato”. Dunque, per affermare la ragion di Stato, la politica come arte del governo, come trama intessuta di rapporti e di relazioni, come oculata, cauta e avveduta gestione del potere, in cui nulla è sottratto al calcolo, alla valutazione di costi e benefici, una sorta di vertigine della ragione strumentale. Al di là di ogni demonizzazione, il luogo in cui, come ha scritto Nietzsche, bisogna “lavarsi le mani con l’acqua sporca” e tenere ben ferma la bussola di orientamento al fine. Il fine che è l’interesse nazionale definito da un limite invalicabile. Esso può consentire sì strappi, compromessi, intese col “nemico”, ma a patto di non essere varcato: vale a dire, per Andreotti, l’equilibrio atlantico.
Insomma l’interesse di un Paese da stabilizzare, alle prese come si trova per interi decenni con una “guerra civile” ad alta intensità politica, diviso tra pulsioni d’ordine revanchiste e ansie sovvertitrici, in alcuni frangenti ben al di là della presenza organizzata del più forte e solido partito comunista dell’Occidente. Da qui, delle tante figure della Democrazia cristiana – partito cattolico e anticomunista, partito americano, occidentale ed europeo, partito nazionale keynesiano, partito della mediazione pura, partito centrale e centrista –, Andreotti che della Dc paradossalmente non ha mai avuto incarichi di partito, si fa interprete di lunga durata, nell’esercizio di reiterati incarichi di governo – sottosegretario, ministro, ben 7 volte presidente del Consiglio –, si fa interprete, ribadisco, del partito-Stato, crocevia di una complessità tutta italiana che incrocia Vaticano e Stati Uniti, mondo arabo e questione ebraica, terrorismo e servizi segreti, poteri occulti e trame mafiose. Dunque il tratto, a mio avviso, più rimarchevole, di ogni altro più distintivo: Andreotti uomo di governo, più che uomo di Stato o di partito, come lo furono, di converso, De Gasperi e Moro, e uomo di governo capace di raccogliere attorno a sé forze eterogenee, componenti anche minoritarie e di tradurle in una forza grazie ad una conduzione sapiente, ad una tattica duttile, priva di scrupoli o pregiudizi, capace di assecondare e piegare il corso delle cose, degli avvenimenti, all’obbiettivo politico del governo, quel governo che “logora chi non ce l’ha”.
Un modello invalso per tutto l’arco temporale della guerra fredda che deriva da un impianto geopolitico in cui Andreotti è perfettamente a suo agio, lui sempre identico a se stesso, quasi una raffigurazione – ha osservato il filosofo Emanuele Severino - “dell’immutabilità dell’essere”, oltre all’apparenza cangiante del divenire, del divenire del primato democristiano, del succedersi alternante delle alleanze che, tuttavia, non possono mutare lo status quo o snaturare l’involucro democratico. Fino al punto da sostenere che “io sono postumo di me stesso”, quasi a riconoscere nel ventennio caratterizzato dalla supremazia berlusconiana la propria irrilevanza, se non come espressione di un’Italia moderata, alle prese con le accelerazioni della modernità, pur sempre incline a riscrivere la propria autobiografia.
2. Il meglio di sé, della sua abilità non disgiunta da una visione, Andreotti ha dato al ministero della Difesa, guidato per lunghi periodi dalla fine degli anni ’50 e sino al 1974, nonché al ministero degli Esteri tenuto per ben cinque volte. Qui è dato riconoscere un ruolo quasi demiurgico, l’assunzione di una funzione di equilibrio, da interlocutore privilegiato in quanto garante, attraverso le relazioni diplomatiche ed i rapporti istituiti con i diversi apparati dello Stato – apparati italiani e stranieri, soprattutto statunitensi – di un argine che sa riconoscere ambiti di iniziativa e limiti d’azione ben definiti, riconducibili ad una circoscritta autonomia, ad una sorta di “sovranità limitata” nel quadro internazionale e in un mondo ancora bipolare, non multilaterale e non globalizzato. Un mondo rispetto al quale Italia ed Europa occidentale sono sentinelle avanzate di un’intera civiltà. Una gestione realistica che sa coniugare scelta atlantica ed europeistica agli interessi preminenti del Paese, pur in presenza di una situazione che non lascia spazi di manovra o molte alternative rispetto ai blocchi in cui il mondo è diviso. Senza forzature, ma rivendicando un'efficace presenza dell’Italia nello spazio mediterraneo ed esaltando una vocazione mediorientale non semplicemente frutto di una collocazione geografica o della necessità di assicurare al Paese l’indispensabile approvvigionamento energetico, quanto esito della volontà di affermare un ruolo quasi arbitrale e regolatore in zone di influenza rispetto alle quali Francia e Gran Bretagna appaiono in crescenti difficoltà, nonché di assegnare all’Italia il compito di aggregare un polo arabo favorevole ad una soluzione negoziata del conflitto con gli israeliani, facendosi insomma protagonista di una prospettiva di pace. In effetti è possibile riconoscere un’interdipendenza tra la politica estera andreottiana e le vicende che lo hanno visto al centro per molte stagioni del sistema politico italiano. Anche qui non semplicemente per affermarsi come perno di un sistema di potere, pur sempre da ricondurre con scaltrezza all’insostituibilità della propria persona, ma al fine di gestire da un lato la conventio ad escludendum de Pci e dall’altro la pregiudiziale antifascista operante nell’arco costituzionale come leve di una politica rispondente alla volontà di riprodurre gli umori prevalenti nell’elettorato e finalizzata a confermare nel tempo l’inamovibilità della Democrazia cristiana come asse fondante la repubblica dei partiti.
Una capacità di sparigliare continuamente le carte, perseguendo di volta in volta posizionamenti tra loro opposti, ora in direzione della Destra, ora in direzione della Sinistra, cui più che l’abilità luciferina, le movenze quasi anguillesche con le quali Andreotti si sottrae ad ogni appropriazione, va addebitata una visione statica, tolemaica dello sviluppo politico, non certo la mancanza di un disegno o di una determinazione coerente rispetto ai propri convincimenti, a quegli assunti da cui ha preso le mosse, sin da giovanissimo, il suo impegno. Così negli anni del centrismo prima, del centrosinistra poi, della solidarietà nazionale in seguito, del preambolo successivamente.
Resta da dire delle vicende giudiziarie, delle accuse infamanti, dei processi in cui si è trovato coinvolto in rapporto a vicende inquietanti di mafia e malaffare, vicende che, rotolando su di lui come macigni, intrecciano tortuosamente criminalità e politica. Al di là, tuttavia, degli esiti giudiziari che comunque proiettano lunghe ombre non dissipate, dicendo di un groviglio quasi inestricabile fatto di spregiudicatezza e collusione, di un gorgo prodotto da correnti sotterranee e melmose, resta, esemplare, l’imperturbabilità di una difesa ostinata e pugnace, condotta nel processo e non contro il processo, come ancoraggio estremo all’impersonalità della norma e come affidamento ultimo ad un giudizio superiore, là dove - per dirla con Manzoni - “può esser gastigo, può esser misericordia”.
Certamente la pubblicistica militante e di parte non ha risparmiato epiteti e denominazioni corrosive a Giulio Andreotti, sino ad infierire sulla conformazione del suo fisico e sulle modalità del suo portamento. Lungi, tuttavia, dal tracciare un giudizio persuasivo o dal delineare un bilancio soddisfacente del suo operato, tutto questo rimanda alla necessità di un lavoro di approfondimento e di scavo che non potrà certamente esser portato a compimento da una storiografia parlamentare per altro inesistente.
Né ci si potrà accontentare di sintesi certamente efficaci e fulminanti – Andreotti il politico vaticano e romano, l’incrocio tra un mandarino cinese e un cardinale settecentesco, un potente generale dei gesuiti del diciottesimo secolo, un "ministro esterno" – quanto riduttive e parziali. Almeno sino a quando non saremo capaci di fare i conti con la nostra storia, di leggerla in forma relazionale e sistemica, come caratterizzata da vizi e virtù che appartengono agli uni e agli altri. Fino a quando non cesserà la disposizione ad assolvere noi stessi e a consegnare l’avversario alla damnatio memoriae, cedendo alla tentazione fuorviante di una storia giustiziera e di una politica vendicatrice.



Lunedì 30 Settembre,2013 Ore: 16:54
 
 
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