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www.ildialogo.org DIMISSIONI DI STATO: ORDINE DEL GIORNO (DEI) GRANDI.  E LOTTA DI LIBERAZIONE. PER NON DIMENTICARE:  DUE TESTI DEL 1945 DI ELSA MORANTE E DI DON GIUSEPPE DOSSETTI - con note,a c. di Federico La Sala

STATO E CHIESA: COSTITUZIONE, EVANGELO, E NOTTE DELLA REPUBBLICA (1994-2012). PERDERE LA COSCIENZA DELLA LINGUA ("LOGOS") COSTITUZIONALE ED EVANGELICA GENERA MOSTRI ATEI E DEVOTI ...
DIMISSIONI DI STATO: ORDINE DEL GIORNO (DEI) GRANDI.  E LOTTA DI LIBERAZIONE. PER NON DIMENTICARE:  DUE TESTI DEL 1945 DI ELSA MORANTE E DI DON GIUSEPPE DOSSETTI - con note

DOSSETTI (Reggio Emilia, 31 luglio 1945): Da oggi i lavoratori di tutto il mondo finalmente sanno di potere con fiducia rispondere ad un grido che li invita all’unità, ma non nel nome di un mito di classe e di lotta, ma nel nome di una volontà di solidarietà con tutti e di libertà e giustizia per tutti. Volontà che, come ha riconosciuto Clemente Attlee, è veramente cristiana.


a c. di Federico La Sala

 

 

Dal "Diario" di  Elsa Morante*

Roma 1° maggio 1945

Mussolini e la sua amante Clara Petacci sono stati fucilati insieme, dai partigiani del Nord Italia. Non si hanno sulla loro morte e sulle circostanze antecedenti dei particolari di cui si possa essere sicuri. Così pure non si conoscono con precisione le colpe, violenze e delitti di cui Mussolini può essere ritenuto responsabile diretto o indiretto nell’alta Italia come capo della sua Repubblica di Sociale. Per queste ragioni è difficile dare un giudizio imparziale su quest’ultimo evento con cui la vita del Duce ha fine.

Alcuni punti però sono sicuri e cioè: durante la sua carriera, Mussolini si macchiò più volte di delitti che, al cospetto di un popolo onesto e libero, gli avrebbe meritato, se non la morte, la vergogna, la condanna e la privazione di ogni autorità di governo (ma un popolo onesto e libero non avrebbe mai posto al governo un Mussolini). Fra tali delitti ricordiamo, per esempio: la soppressione della libertà, della giustizia e dei diritti costituzionali del popolo (1925), la uccisione di Matteotti (1924), l’aggressione all’Abissinia, riconosciuta dallo stesso Mussolini come consocia alla Società delle Nazioni, società cui l’Italia era legata da patti (1935), la privazione dei diritti civili degli Ebrei, cittadini italiani assolutamente pari a tutti gli altri fino a quel giorno (1938).

Tutti questi delitti di Mussolini furono o tollerati, o addirittura favoriti e applauditi. Ora, un popolo che tollera i delitti del suo capo, si fa complice di questi delitti. Se poi li favorisce e applaude, peggio che complice, si fa mandante di questi delitti. Perché il popolo tollerò favorì e applaudì questi delitti? Una parte per viltà, una parte per insensibilità morale, una parte per astuzia, una parte per interesse o per machiavellismo.

Vi fu pure una minoranza che si oppose; ma fu così esigua che non mette conto di parlarne. Finché Mussolini era vittorioso in pieno, il popolo guardava i componenti di questa minoranza come nemici del popolo e della nazione, o nel miglior dei casi come dei fessi (parola nazionale assai pregiata dagli italiani). Si rendeva conto la maggioranza del popolo italiano che questi atti erano delitti? Quasi sempre, se ne rese conto, ma il popolo italiano è cosìffatto da dare i suoi voti piuttosto al forte che al giusto; e se lo si fa scegliere fra il tornaconto e il dovere, anche conoscendo quale sarebbe il suo dovere, esso sceglie il suo tornaconto.

Mussolini, uomo mediocre, grossolano, fuori dalla cultura, di eloquenza alquanto volgare, ma di facile effetto, era ed è un perfetto esemplare e specchio del popolo italiano contemporaneo. Presso un popolo onesto e libero, Mussolini sarebbe stato tutto al più il leader di un partito con un modesto seguito e l’autore non troppo brillante di articoli verbosi sul giornale del suo partito. Sarebbe rimasto un personaggio provinciale, un po’ ridicolo a causa delle sue maniere e atteggiamenti, e offensivo per il buon gusto della gente educata a causa del suo stile enfatico, impudico e goffo. Ma forse, non essendo stupido, in un paese libero e onesto, si sarebbe meglio educato e istruito e moderato e avrebbe fatto migliore figura, alla fine. In Italia, fu il Duce. Perché è difficile trovare un migliore e più completo esempio di Italiano.

Debole in fondo, ma ammiratore della forza, e deciso ad apparire forte contro la sua natura. Venale, corruttibile. Adulatore. Cattolico senza credere in Dio. Corruttore. Presuntuoso: Vanitoso. Bonario. Sensualità facile, e regolare. Buon padre di famiglia, ma con amanti. Scettico e sentimentale. Violento a parole, rifugge dalla ferocia e dalla violenza, alla quale preferisce il compromesso, la corruzione e il ricatto. Facile a commuoversi in superficie, ma non in profondità, se fa della beneficenza è per questo motivo, oltre che per vanità e per misurare il proprio potere. Si proclama popolano, per adulare la maggioranza, ma è snob e rispetta il denaro. Disprezza sufficientemente gli uomini, ma la loro ammirazione lo sollecita.

Come la cocotte che si vende al vecchio e ne parla male con l’amante più valido, così Mussolini predica contro i borghesi; accarezzando impudicamente le masse. Come la cocotte crede di essere amata dal bel giovane, ma è soltanto sfruttata da lui che la abbandonerà quando non potrà più servirsene, così Mussolini con le masse. Lo abbaglia il prestigio di certe parole: Storia, Chiesa, Famiglia, Popolo, Patria, ecc., ma ignora la sostanza delle cose; pur ignorandole le disprezza o non cura, in fondo, per egoismo e grossolanità. Superficiale. Dà più valore alla mimica dei sentimenti , anche se falsa, che ai sentimenti stessi. Mimo abile, e tale da far effetto su un pubblico volgare.

Gli si confà la letteratura amena (tipo ungherese), e la musica patetica (tipo Puccini). Della poesia non gli importa nulla, ma si commuove a quella mediocre (Ada Negri) e bramerebbe forte che un poeta lo adulasse. Al tempo delle aristocrazie sarebbe stato forse un Mecenate, per vanità; ma in tempi di masse, preferisce essere un demagogo. Non capisce nulla di arte, ma, alla guisa di certa gente del popolo, e incolta, ne subisce un poco il mito, e cerca di corrompere gli artisti. Si serve anche di coloro che disprezza. Disprezzando (e talvolta temendo) gli onesti, i sinceri, gli intelligenti poiché costoro non gli servono a nulla, li deride, li mette al bando.

Si circonda di disonesti, di bugiardi, di inetti, e quando essi lo portano alla rovina o lo tradiscono (com’è nella loro natura), si proclama tradito, e innocente, e nel dir ciò è in buona fede, almeno in parte; giacché, come ogni abile mimo, non ha un carattere ben definito, e s’immagina di essere il personaggio che vuole rappresentare.

* Cfr.: Elsa Morante, Opere, Mondadori (Meridiani), Milano 1988, vol. I, pp. L-LII.

                 

Una riflessione da "Aracoeli"*:

E allora mi sono guardato negli occhi. Raramente ci si guarda, con se stessi, negli occhi, e pare che in certi casi questo valga per un esercizio estremo. Dicono che, immergendosi allo specchio nei propri occhi - con attenzione cruciale e al tempo stesso con abbandono - si arrivi a distinguere finalmente in fondo alla pupilla l’ultimo Altro, anzi l’unico e vero Se stesso, il centro di ogni esistenza e della nostra, insomma quel punto che avrebbe nome Dio. Invece, nello stagno acquoso dei miei occhi, io non ho scorto altro che la piccola ombra diluita (quasi naufraga) di quel solito niño tardivo che vegeta segregato dentro di me. Sempre il medesimo, con la sua domanda d’amore ormai scaduta e inservibile, ma ostinata fino all’indecenza. È strano come l’eternità si lasci captare piuttosto in un segmento effimero che in una continuità estesa.

* Cfr.: Elsa Morante, Aracoeli, Einaudi, Torino, 1982.

***

REGGIO EMILIA, 31 luglio 1945: TRIPLICE VITTORIA (don Giuseppe Dossetti, su "Reggio democratica")

Perché non possiamo non dirci laburisti

di Giuseppe Dossetti (l’Unità, 10 febbraio 2013)

 

  • L’articolo fu scritto per «Reggio democratica» all’indomani della vittoria elettorale del Labour. Era il luglio del ’45, un anno prima della Costituente. «Triplice vittoria»: questo il titolo dello scritto dossettiano, che suscitò scandalo nella destra

Trascorse le primissime ore di sorpresa, di fervore, di entusiasmo, l’esito delle elezioni inglesi appare sempre meglio come la vittoria di un mondo nuovo in via di faticosa emersione. Vittoria innanzi tutto del lavoro più che, come alcuni hanno detto, vittoria del socialismo; vittoria cioè di una effettiva, concreta e universale realtà umana, meglio che di una particolare dottrina e prassi politica concernente l’affermazione sociale di quella realtà.

Certo il Partito laburista ha contrastato e vinto i conservatori opponendo alla loro caparbia cristallizzazione di interessi e di metodi, un vasto programma di trasformazioni sociali; ma si tratta di tali socializzazioni che, per i principi teorici cui si richiamano (e che non hanno a che vedere con le dottrine classiche del socialismo, né di quello utopico, né di quello marxista), per il campo di applicazione (le industrie chiave e i grandi gruppi finanziari) e soprattutto per il metodo di realizzazione (proprietà sociale e non statale) non consentono, se non per approssimazione giornalistica o propagandistica, di parlare di socialismo, almeno come da decenni lo si intende nell’Europa continentale, e come da mesi lo si intende nella ripresa italiana.

Ben più propriamente invece dobbiamo parlare di un programma di concreta e realistica inserzione, al vertice della gerarchia sociale e politica, del lavoro, inteso come la prima e fondamentale esplicazione della personalità umana, come il genuino e non fallace metro delle capacità, dei meriti, dei diritti di ognuno: programma che non è logicamente né praticamente connesso con la teoria socialista e che può essere condiviso, come di fatto lo è, da altri partiti non socialisti.

In secondo luogo la «vittoria della solidarietà», più e meglio che come qualcuno si limita a dire vittoria della pace. Gli elettori inglesi rifiutando con così grande maggioranza a Churchill, vincitore della guerra, il compito di organizzare il dopo-guerra, non hanno semplicemente voluto esprimere la loro volontà di pace e il proposito di allontanare gli uomini, gli interessi, gli atteggiamenti che hanno portato alla guerra e potrebbero perpetuarla in potenza o in atto, ma ben più essi hanno voluto mostrare la loro preferenza per quelle forze e quegli uomini che, appunto per la loro qualità e il loro spirito di lavoratori e di edificatori, hanno dato prova di avere una volontà positiva e attiva per l’edificazione di una nuova struttura sociale e internazionale in cui, nei rapporti tra singoli, tra classi e tra nazioni, non solo siano psicologicamente superate, ma persino oggettivamente rimosse, le possibilità concrete di egoismi, di privilegi, di sopraffazioni e in cui siano poste garanzie effettive di solidarietà e di uguaglianza.

Infine, «vittoria della democrazia»: non solo per l’aspetto dai giornali e dai commentatori più rilevato, cioè per il fatto che, con l’avvento del laburismo al potere, la democrazia inglese entra finalmente nella linea della sua coerenza plenaria e la democrazia quasi esclusivamente formale (cioè di forme costituzionali e parlamentari di fatto accessibili solo a una minoranza di privilegiati) quale sinora è stata, si avvia a essere democrazia sostanziale, cioè vero accesso del popolo e di tutto il popolo al potere e a tutto il potere, non solo a quello politico, ma anche a quello economico e sociale; ma vittoria della democrazia in un senso ancor più profondo e definitivo che molti non considerano e forse alcuni vogliono ignorare, cioè per il fatto che per la prima volta nella storia dell’Europa contemporanea si è potuto effettuare, nonostante le difficoltà dell’ambiente (la «Vecchia Inghilterra» conservatrice per eccellenza) e le difficoltà del momento (l’indomani della più grandiosa storia militare), una trasformazione così grave, decisa e inaspettata, che tutti consentono nel qualificarla «rivoluzione» e che tuttavia questa rivoluzione è avvenuta proprio per le vie della legalità e attraverso i metodi della democrazia tipica e gli istituti del sistema parlamentare.

Questo fatto è quello che riassume e corona, è quello che consacra nel presente e garantisce per l’avvenire la definitività delle altre vittorie. Ma è soprattutto quello che veramente conclude la storia dell’Europa moderna e apre non un nuovo capitolo, ma un nuovo volume, ponendo fine all’età del liberalismo europeo e preannunziando insieme la fine del grande antagonista storico della concezione liberale; cioè il socialismo cosiddetto scientifico. Non sembri un’affermazione paradossale: essa è veramente il frutto di una meditazione storica.

La vittoria del Partito laburista, che non è partito di classe, ma partito interclassista (in quanto accoglie il filatore di Manchester, Mac Farlane, il proletario del Galles e il maresciallo Alexander), del Partito laburista che non ha vinto solo con i voti dei distretti operai, ma anche con quelli dei centri rurali più legati alle concezioni tradizionali della Vecchia Inghilterra, del Partito laburista che ha vinto con una elezione popolate e veramente libera, tale vittoria, diciamo, ha non solo concluso il periodo delle dittature o delle aristocrazie conservatrici, ma ha smentito per la prima volta con la prova dei fatti le dottrine e le prassi (già da tempo confutare in teoria) che solo nel ricorso alla forza, nella dittatura di una classe sulle altre e nella metodologia dell’attivismo sopraffattore vedono una possibilità di ascesa per i lavoratori e di instaurazione di una vera democrazia.

Da oggi i lavoratori di tutto il mondo finalmente sanno di potere con fiducia rispondere ad un grido che li invita all’unità, ma non nel nome di un mito di classe e di lotta, ma nel nome di una volontà di solidarietà con tutti e di libertà e giustizia per tutti. Volontà che, come ha riconosciuto Clemente Attlee, è veramente cristiana.

Reggio Emilia, 31 luglio

                                                                                              ***

-  COSTANTINO, SANT’ELENA, E NAPOLEONE. L’immaginario del cattolicesimo romano.

-  L’ITALIA E L’ANNO DELLA VERGOGNA (1994): L’ALLARME DI DON GIUSEPPE DOSSETTI E IL SILENZIO GENERALE SULL’INVESTITURA ATEO-DEVOTA DEL "NUOVO" PRESIDENTE DELLA "REPUBBLICA" ("FORZA ITALIA").

-  VIVA L’ITALIA!!! LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI.

SPEGNERE IL "LUMEN GENTIUM" E INSTAURARE IL POTERE DEL "DOMINUS IESUS". Il disegno di Ratzinger - Benedetto XVI. Due testi a confronto, con alcune note

LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM". Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!

-  CRISI DEL PAPATO: UN’EMERGENZA ANTROPOLOGICA E TEOLOGICO-POLITICA. AI CARDINALI, PER L’ELEZIONE DEL NUOVO PAPA, NELLA CAPPELLA SISTINA: GUARDARE IN ALTO! Andiamo "verso un’era collegiale"!

Federico La Sala (18.02.2013)



Lunedì 18 Febbraio,2013 Ore: 22:22
 
 
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Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 18/2/2013 22.27
Titolo:DIMISSIONI DI BENEDETTO XVI. UNA SCELTA "DEBOLE" TUTTA INTERNA AL SISTEMA
UNA SCELTA "DEBOLE" TUTTA INTERNA AL SISTEMA

di Marcello Vigli (Adista Notizie, n. 7 del 23/02/2013)

La “rinuncia” di Benedetto XVI costituisce indubbiamente un evento eccezionale. Ne sono testimoni l’attenzione dei media di tutto il mondo e la diversità delle valutazioni che ne sono state date nelle diverse sedi religiose e politiche. Valga per tutte quanto scrive Paolo Naso (Nev, n. 7/13): questo gesto «ha una evidente ricaduta sull’ecclesiologia e forse sulla stessa teologia cattolica: come pochi altri umanizza e vorrei dire “secolarizza” l’istituzione papale».

Nulla sarà più come prima. Una simile scelta, per la prima volta del tutto libera, desacralizza per forza di cose l’istituzione. Ridimensiona la stessa immagine che il papato ha di se stesso attraverso la potenza e la debolezza di un atto solitario espresse nelle parole dello stesso papa che attribuisce la sua rinuncia alla sua «incapacità di amministrare bene il ministero» a lui affidato derivante dal venir meno del «necessario vigore sia del corpo, sia dell’animo».

Si può aggiungere, sono in molti a pensarlo, che al di là della sua debolezza fisica, tale incapacità sia stata determinata dal riconoscimento della sua impotenza a governare una Santa Sede afflitta da scandali, intrighi e lotte di potere aggravati da una struttura accentrata della Curia e mal gestita da quella Segreteria di Stato che Wojtyla aveva voluto ne fosse il perno per garantirne l’efficienza. Non ha avuto l’energia e gli strumenti necessari per attuarla come pure aveva lasciato intendere di voler fare nella sua dura denuncia contro il carrierismo, alla vigilia della sua elezione, confermata nell’omelia alla messa delle ceneri, il 13 febbraio scorso.

I suoi tentativi di ammodernamento e di moralizzazione sono falliti di fronte a meccanismi che non è riuscito a modificare perché, in verità, non intendeva radicalmente ridimensionarli. Ne è testimone la sua scelta di assumere il Concistoro come primo destinatario della sua comunicazione, implicitamente riconoscendogli una preminente funzione istituzionale. Solo dopo due giorni l’ha estesa al Popolo di Dio raccolto per l’udienza settimanale. Ben altro sarebbe stato l’impatto con la pubblica opinione. Soprattutto ben altra forza avrebbe avuto il messaggio destinato al prossimo Conclave sulla necessità di assumere come primo problema da affrontare la riforma della Curia.

Se può sembrare fuori della realtà l’auspicio di un papa che, nell’esercizio della sua funzione di governo, si rapporta direttamente al Popolo di Dio, non lo è un appello alla collegialità sinodale.

La ri-convocazione del Sinodo dei vescovi (la cui ultima assemblea si è svolta nell’autunno scorso), per annunciare la sua volontà di rinunciare, avrebbe avuto quel carattere epocale e rivoluzionario da molti attribuito al suo gesto: indubbiamente innovatore, ma non eversivo dell’attuale assetto centralistico del governo della Chiesa. Tale fu quello compiuto da Giovanni XXIII con la convocazione del Concilio che, proprio con la creazione del Sinodo dei vescovi, aveva avviato una radicale riforma, subito bloccata prima dalla pavidità di Paolo VI, poi dall’autoritarismo pre-conciliare di Giovanni Paolo II.

Il sistema curiale può avere avuto una funzione in passato: quando prima l’imperatore e/o le famiglie nobili romane e poi i sovrani degli stati cattolici interferivano pesantemente nella designazione del successore di Pietro.

In tempo di secolarizzazione - accettata dal Concilio come salutare strumento di purificazione per la Chiesa, pari alla fine del potere temporale riconosciuta come liberatrice da Paolo VI - una piena collegialità è l’antidoto efficace alla solitudine del papa attorniato da collaboratori da lui stesso scelti, portatori magari delle diverse sensibilità ecclesiali diffuse sul territorio, ma non certo delle sempre nuove esperienze di Chiesa sollecitate dall’accelerazione dei processi storici e vissute nella dimensione comunitaria.

PS: Se i cattolici conciliari si autoconvocassero per formulare proposte al Conclave da inserire nell’agenda del futuro papa?

* della Comunità di Base di San Paolo, Roma
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 18/2/2013 23.28
Titolo:COSTITUZIONE. Dossetti. Il lavoro per tutti è la profezia della politica
Dossetti. Il lavoro per tutti è la profezia della politica

di Pierluigi Castagnetti (l’Unità, domenica 10 febbraio 2013)

«Il 13 febbraio ricorre il 100° anniversario della nascita di Giuseppe Dossetti, figura cruciale del cattolicesimo democratico. Pochi sanno che l’art. 1 della Costituzione nacque da un colloquio in un bar di Roma con Togliatti»

Martedì prossimo alla Camera dei deputati sarà ricordato Giuseppe Dossetti nel centenario della nascita, alla presenza del presidente della Repubblica. Dossetti, partigiano e presidente del Cln di Reggio Emilia, è stato impegnato in politica (prima alla Consulta, poi all’Assemblea costituente, poi in Parlamento e nella Dc di cui fu vicesegretario) per un periodo di soli sette anni, a cui hanno fatto seguito 44 anni di impegno come uomo di Chiesa, prete e monaco.

Anche nella vita della Chiesa è inevitabilmente ricordato per il suo straordinario apporto riformatore, come consigliere del cardinal Lercaro e di monsignor Bettazzi, e poi come moderatore e perito al Concilio Vaticano II. Il cardinal Martini lo definì «profeta del nostro tempo», sottolineando la sua straordinaria capacità di associare profezia religiosa e profezia politica. Ma in questa sede vogliamo ricordare il Dossetti costituente per un aspetto meno conosciuto e studiato. Di lui infatti si ricorda il decisivo apporto nella definizione della struttura personalistica della Carta, negli articoli 2 e 3, e poi i due articoli di cui è stato relatore il 7 e l’11. È stato meno approfondito il suo apporto alla definizione dei contenuti economico-sociali della Costituzione, in particolare sul tema del lavoro. Così come poco si dice del suo rapporto stretto con Palmiro Togliatti, che lui stesso evocherà nel discorso all’Archiginnasio di Bologna nel 1986, come decisivo per la definizione di alcune «architravi» costituzionali.

Un sacerdote di Bologna, mons. Giovanni Nicolini, ricorda ancora quando gli capitò di accompagnare in auto Dossetti e La Pira e ascoltare le memorie di questi due grandi protagonisti dell’Assemblea costituente. Dossetti parlò di quando, all’inizio dei lavori, incontrò riservatamente Togliatti in un bar vicino a piazza del Popolo, al fine di sciogliere alcuni nodi preliminari e, in particolare, di decidere il principio ispiratore di tutta la Carta, quello che già in quel colloquio, avrebbe dovuto essere l’articolo 1. I due non si conoscevano bene ma nella conversazione si superò presto l’impaccio iniziale. Fu Dossetti a rompere gli indugi e a indicare il tema del lavoro, destando ovviamente consenso ma anche qualche comprensibile sospetto da parte di Togliatti: «Lei lo fa per compiacermi». «No, non mi interessa compiacerla, sono proprio convinto che il tema del lavoro debba rappresentare il cuore della nostra Carta e un punto di incontro fra posizioni culturali che per altri aspetti non sono facilmente conciliabili. La strada per arrivare al comune obiettivo è probabilmente diversa fra noi due. Per lei il tema del lavoro è importante per ragioni politiche e sociali comprensibili, per me è importante come presupposto costitutivo della centralità della persona: senza il lavoro non c’è dignità e senza dignità l’individuo non diventa persona».

Nasce probabilmente in quella occasione e in quel contesto non solo l’intesa per definire il contenuto dell’articolo 1 (il cui testo sarà formalmente presentato poi da Fanfani), ma un rapporto personale che segnerà tutta la vita dell’Assemblea costituente, a partire appunto dal dibattito nella prima sotto-commissione sul tema del lavoro. Ne ha parlato puntualmente il costituzionalista Mario Dogliani, nel seminario del 15-16 ottobre 2011 tenuto a Montesole sul tema «Il lavoro nel pensiero di Giuseppe Dossetti», a cui parteciparono anche i professori Ugo De Siervo e Salvatore Natoli. Il pensiero di Dossetti sul lavoro è anticipato nell’articolo apparso sulla vittoria laburista nelle elezioni del 1945 in Gran Bretagna «Triplice vittoria», riportato in questa pagina. [di seguito]

La discussione nella prima sotto-commissione prende spunto proprio da una proposta formulata da Mo-o e Dossetti: «Ogni cittadino ha diritto al lavoro e il dovere di svolgere un’attività o esplicare una funzione idonea allo sviluppo economico o culturale o morale o spirituale della società umana, conformemente alle proprie possibili tà e alla propria scelta». La discussione ovviamente si sviluppa a lungo e i testi si modificano. Quando si affronta il problema del salario, la prima formulazione che viene posta in discussione è congiunta di Togliatti e Dossetti: «La remunerazione del lavoro intellettuale e manuale deve soddisfare le esigenze di un’esistenza libera e dignitosa del lavoratore e della sua famiglia». Questa è una formula che poi è rimasta ed è confluita nell’articolo 36.

È ancora Dossetti a dichiarare: «Il lavoro è il fondamento di un diritto che però non è concepito come un diritto nei confronti del datore di lavoro, ma come un diritto che si dirige verso l’intera società, che ha il suo fondamento non nella naturalità dell’individuo, ma nel fatto che lavora... Il diritto ad avere i mezzi per un’esistenza libera e dignitosa non deriva dal semplice fatto di essere uomini, ma dall’adempimento di un lavoro... Questa non è un’utopia perché non possiamo rinunciare al sogno, sogno inteso come sogno politico, di avviare la struttura sociale verso una rigenerazione del lavoro.... in modo che il suo frutto sia adeguato alla dignità e alla libertà dell’uomo. Tali principi programmatici non avranno la possibilità di operare un miracolo... ma serviranno almeno ad una progressiva elevazione delle condizioni di lavoro nel prossimo avvenire».
 E La Pira precisa: «Gli articoli formulati dalla sotto-commissione sono sempre partiti... dalla premessa che es-si debbono concorrere a far cambiare la struttura economica e sociale del Paese». Dopo una lunga discussione si arriverà finalmente all’approvazione di una nuova formulazione leggermente diversa, sempre a firma Dossetti-Togliatti: «La remunerazione del lavoro intellettuale o tecnico manuale deve soddisfare le esigenza di esistenza libe-ra e dignitosa del lavoratore e della sua famiglia».

Si potrebbe continuare ancora a leggere i verbali di quel lungo dibattito che affronterà varie altre questioni, in particolare quelle relative al diritto di sciopero, alla finalizzazione della libertà economica e ad altri aspetti, e sempre registreremo gli interventi di Togliatti-Dossetti, Togliatti-La Pira, Moro-Basso-Dossetti-Togliatti, i veri protagonisti di una discussione che anche allora ruotava attorno alla centralità di un diritto soggettivo che è presupposto di altri diritti, un diritto che dà senso e coagulo alla trama di tutti i rapporti economico-sociali, su cui avrebbe dovuto reggersi l’intera architettura costituzionale.

Non è mia intenzione trascinare Dossetti nel dibattito politico, e ancor meno in quello elettorale di oggi, ma non possiamo non rilevare la straordinaria attualità di un pensiero che può aiutare ancora a dare un senso e una prospettiva al processo di profondo cambiamento nel quale ci troviamo inevitabilmente inseriti.
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 19/2/2013 18.00
Titolo:VATICANO II E ABUSO DI AUTORITA' nella Chiesa cattolica
Autorità nella Chiesa cattolica

di esponenti della Chiesa cattolica universale

in “www.churchautority.org” dell’ottobre 2012 (versione italiana nel sito)

Dichiarazione di studiosi cattolici

In occasione del cinquantesimo anniversario del Concilio Vaticano II (1962-1965), invitiamo tutti i membri del Popolo di Dio a esaminare la situazione nella nostra chiesa.

Molti insegnamenti del Vaticano II non sono stati affatto, o solo parzialmente, tradotti in pratica.

Questo è dovuto alla resistenza di certi ambienti, ma anche, in una certa misura, alla irrisolta ambiguità di alcuni documenti del Concilio.

Una della principali cause della stagnazione odierna dipende dal fraintendimento e abuso nell’esercizio dell’autorità nella nostra Chiesa. In concreto le seguenti tematiche richiedono una urgente riformulazione.

Il ruolo del papato necessita di una chiara ri-definizione in linea con le intenzioni di Cristo. Come supremo pastore, elemento unificante e principale testimone di fede, il papa contribuisce in modo essenziale al bene della chiesa universale. Ma la sua autorità non dovrebbe mai oscurare, diminuire o sopprimere l’autentica autorità che Cristo ha dato direttamente a tutti i membri del popolo di Dio.

I vescovi sono vicari di Cristo e non vicari del papa. Essi hanno la diretta responsabilità del popolo delle loro diocesi, e una condivisa responsabilità con gli altri vescovi e con il papa, nell’ambito dell’universale comunità di fede.

Il Sinodo dei vescovi dovrebbe assumere un più decisivo ruolo nel pianificare e guidare il mantenimento e la crescita della fede nel nostro mondo così complesso.

Il Concilio Vaticano II ha prescritto collegialità e co-responsabilità a tutti i livelli. Questo non è stato messo in atto.

I vari organismi presbiterali e consigli pastorali, previsti dal Concilio, dovrebbero coinvolgere i fedeli in modo più diretto nelle decisioni riguardanti la formulazione della dottrina, l’esercizio del ministero pastorale e l’evangelizzazione nell’ambito della società secolare.

L’abuso di coprire posti di guida nella chiesa con soli candidati di una determinata mentalità, è una scelta che dovrebbe essere sradicata. Al suo posto dovrebbero essere formulate e monitorate nuove norme che assicurino che le elezioni a queste cariche siano condotte in modo corretto, trasparente e, il più possibile, democratico.

La curia romana ha bisogno di una riforma più radicale in linea con le istruzioni e la visione del Vaticano II.

La curia si dovrebbe limitare ai suoi utili ruoli amministrativi ed esecutivi.

La congregazione per la dottrina della fede dovrebbe essere coadiuvata da commissioni internazionali di esperti, scelti, con indipendenza, per la loro competenza professionale.

Questi non sono per nulla tutti i cambiamenti necessari. Ci rendiamo anche conto che l’attuazione di queste revisioni strutturali necessitano di una elaborazione dettagliata in linea con le possibilità e le limitazioni delle circostanze presenti e future.

Sottolineiamo, però, che le riforme, sintetizzate qui sopra, sono urgenti e la loro attuazione dovrebbe partire immediatamente.

L’esercizio dell’autorità nella nostra chiesa dovrebbe emulare gli standards di apertura, responsabilità e democrazia raggiunti nella società moderna.

La leadership dovrebbe essere corretta e credibile; ispirata dall’umiltà e dal servizio; con una trasparente sollecitudine per il popolo invece di preoccuparsi delle regole e della disciplina; irradiare Cristo che ci rende liberi; prestare ascolto allo Spirito di Cristo che parla e agisce attraverso tutti e ciascuno.

I nomi dei primi 160 firmatari, Sponsor Accademici della Dichiarazione (tra i quali citiamo: Leonardo Boff, Pedro Casaldaliga, Hermann Häring, Hans Küng) e dei (ad oggi 19 febbraio) 2048 sottoscrittori sono visibili al sito: http://www.churchauthority.org/.
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 19/2/2013 18.25
Titolo:Vaticano - Immobili a Londra con i soldi di Mussolini
- La struttura segreta del Vaticano
- Immobili a Londra con i soldi di Mussolini

- Una società off-shore custodisce un patrimonio da circa 650 milioni di euro. Per conto della Santa Sede, che ha raggranellato prestigiosi locali ed edifici nella capitale britannica. Grazie ai soldi che Mussolini diede al papato con i Patti Lateranensi

- dal nostro corrispondente ENRICO FRANCESCHINI *

LONDRA - A chi appartiene il locale che ospita la gioielleria Bulgari a Bond street, più esclusiva via dello shopping nella capitale britannica? E di chi è l’edificio in cui ha sede la Altium Capital, una delle più ricche banche di investimenti di Londra, all’angolo super chic tra St. James Square e Pall Mall, la strada dei club per gentiluomini?

La risposta alle due domande è la stessa: il proprietario è il Vaticano. Ma nessuno lo sa, perché i due investimenti fanno parte di un segretissimo impero immobiliare costruito nel corso del tempo dalla Santa Sede, attualmente nascosto dietro un’anonima società off-shore che rifiuta di identificare il vero possessore di un portfolio da 500 milioni di sterline, circa 650 milioni di euro. E come è nata questa attività commerciale dello Stato della Chiesa? Con i soldi che Benito Mussolini diede in contanti al papato, in cambio del riconoscimento del suo regime fascista, nel 1929, con i Patti Lateranensi.

A rivelare questo storia è il Guardian, con uno scoop che oggi occupa l’intera terza pagina. Il quotidiano londinese ha messo tre reporter sulle tracce di questo tesoro immobiliare del Vaticano ed è rimasto sorpreso, nel corso della sua inchiesta, dallo sforzo fatto dalla Santa Sede per mantenere l’assoluta segretezza sui suoi legami con la British Grolux Investment Ltd, la società formalmente titolare di tale cospicuo investimento internazionale. Due autorevoli banchieri inglesi, entrambi cattolici, John Varley e Robin Herbert, hanno rifiutato di divulgare alcunché e di rispondere alle domande del giornale in merito al vero intestatario della società.

Ma il Guardian è riuscito a scoprirlo lo stesso attraverso ricerche negli archivi di Stato, da cui è emerso non solo il legame con il Vaticano ma anche una storia più torbida che affonda nel passato. Il controllo della società inglese è di un’altra società, chiamata Profima, con sede presso la banca JP Morgan a New York e formata in Svizzera.

I documenti d’archivio rivelano che la Profima appartiene al Vaticano sin dalla seconda guerra mondiale, quando i servizi segreti britannici la accusarono di "attività contrarie agli interessi degli Alleati". In particolare le accuse erano rivolte al finanziere del papa, Bernardino Nogara, l’uomo che aveva preso il controllo di un capitale di 65 milioni di euro (al valore attuale) ottenuto dalla Santa Sede in contanti, da parte di Mussolini, come contraccambio per il riconoscimento dello stato fascista, fin dai primi anni Trenta. Il Guardian ha chiesto commenti sulle sue rivelazioni all’ufficio del Nunzio Apostolico a Londra, ma ha ottenuto soltanto un "no comment" da un portavoce.

* la Repubblica, 22 gennaio 2013

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