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www.ildialogo.org L'OFFENSIVA ROTTAMATRICE E IL LESSICO DELLA "GENERAZIONE BERLUSCONI". Rottamazione è un cartello stradale che depista: non dice quel che promette. Un'analisi di Barbara Spinelli - con alcuni appunti,a c. di Federico La Sala

COSTITUZIONE, POLITICA, E LINGUAGGIO. Come fare cose con le parole ...
L'OFFENSIVA ROTTAMATRICE E IL LESSICO DELLA "GENERAZIONE BERLUSCONI". Rottamazione è un cartello stradale che depista: non dice quel che promette. Un'analisi di Barbara Spinelli - con alcuni appunti

ROTTAMAZIONE. Applicata alle persone e al ricambio di dirigenti politici, è una delle parole più maleducate e violente che esistano oggi in Italia. I rottamatori sono fieri di chiamarsi così, e quando l’operazione riesce esibiscono le spoglie del vinto: «La rottamazione comincia a produrre i primi frutti», ripeteva Matteo Renzi, domenica in un’intervista in tv.


a c. di Federico La Sala

APPUNTI SUL TEMA:

LA LEZIONE DI BARACK OBAMA: L’IMPORTANZA DELLA PAROLA. "Dove porta l’odio dell’altro".

LA LIBERTA’, LA "PAROLA" E LA "LINGUA" DELL’ITALIA, E IL COLPO DI STATO STRISCIANTE DEL PARTITO "FORZA ITALIA".

L’ITALIA E LA FORZA DI UN MARCHIO REGISTRATO!!! 

UNA DOMANDA ALL’ITALIA: MA COME AVETE FATTO A RIDURVI COSI’?! UN "BORDELLO STATE": UN PAESE BORDELLO. Una nota di Maurizio Viroli (dagli Usa) - e una risposta (agli americani, dall’Italia) di Federico La Sala (fls)

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 La mala rottamazione

di Barbara Spinelli (la Repubblica, 24 ottobre 2012)

Rottamazione, dice il vocabolario, è l’azione che si compie quando si demoliscono oggetti fuori uso: specie automobili. Vengono triturati, per riutilizzare le parti metalliche. A volte, ottieni sconti sulla nuova vettura. Applicata alle persone e al ricambio di dirigenti politici, è una delle parole più maleducate e violente che esistano oggi in Italia. I rottamatori sono fieri di chiamarsi così, e quando l’operazione riesce esibiscono le spoglie del vinto: «La rottamazione comincia a produrre i primi frutti», ripeteva Matteo Renzi, domenica in un’intervista in tv.

La lotta per l’avvicendamento ai vertici della politica ha sue ragioni, e lo stile brutale risponde a un’ansia, enorme e autentica, di cambiamento: si vorrebbe azzerare l’esistente, e come nella poesia di Rimbaud ci si professa «assolutamente moderni». È un conflitto legittimo, anche necessario: che va portato alla luce perché nell’ombra degenera o ammutolisce. È il grande merito del sindaco di Firenze, come di Grillo. Impressionante è la campagna di quest’ultimo in Sicilia: lunga, martellante, è rifiuto del mutismo. Da due settimane è nell’isola; nessuno s’era messo per tanto tempo in ascolto delle sue collere.

Ma la parola rottamazione, anche se Renzi intende cambiamento, resta ustionante e parecchi la prendono alla lettera. L’avversario-rivale è trattato alla stregua di arnese metallico. Se l’idea della rottamazione non avesse alle spalle una storia lunga, di degradazione della persona a oggetto servibile, non susciterebbe tanto disagio. Non sveglierebbe fantasie di uomini «di troppo», di rottami. Forse chi la usa (non solo il sindaco di Firenze) non se ne rende conto, ma il termine alligna nelle terre della pubblicità ed è lessico della generazione Berlusconi. È nato con lui, con le sue disinvolture verbali. Non ingentilisce ma corrompe il discorso pubblico. È figlio della rivoluzione non solo politica ma linguistica, di stile, che Berlusconi inaugurò nel ‘94. Fu una rivoluzione della noncuranza, del «tutto è permesso»: non badava alle conseguenze di quel che veniva detto, ai tabù infranti.

È una parola del tutto anomala, inoltre. In Europa o America, nessun politico che magnifichi il Nuovo oserebbe condurre una campagna in cui gli anziani, i seniores, vengano definiti ferrivecchi. Nell’aprile 2002, quando il socialista Jospin alluse all’età del rivale Chirac, i sondaggi lo punirono, screditandolo. Aveva avuto l’impudenza e l’imprudenza di dire che il Presidente era «affaticato, invecchiato, vittima dell’usura». Gli elettori non amavano Chirac, ma la mancanza di gentile rispetto dell’anzianità, in Jospin, fu ritenuta intollerabile.

Una cosa è attaccare la linea dell’avversario: soffermandosi su di essa, senza censure. Altra cosa è assalire la persona. Se rottamazione scomparisse dal vocabolario giornalistico e politico non sarebbe male. Conterebbe più la sostanza: l’errore di Veltroni, quando affondò l’ultimo governo Prodi annunciando che il Pd, rompendo le catene della sinistra radicale, sarebbe «corso da solo» (come se non fosse stato il centro a silurare Prodi). O si potrebbe raccontare D’Alema: il suo rapporto sprezzante con giornalisti e magistrati, i piaceri che fece a Berlusconi, i dispiaceri che procurò a Prodi, l’influenza eccessiva esercitata su Bersani. Ci dedicheremmo a quel che Renzi vuol dire, e alla fiducia che riscuote in persone di prestigio come Pietro Ichino.

Rottamazione è un cartello stradale che depista: non dice quel che promette, né sull’Europa né sulla corruzione né sulla ‘ndrangheta che ci assilla. Vale la pena ripercorrere la storia di questo vocabolo, tanto più cruento in un paese fragile: dopo la Germania, siamo il popolo che più invecchia in Europa. Vale la pena tener viva la memoria, perché lo sgarbo non è episodico ma ha radici in una sistematica denigrazione dei più anziani: nei luoghi di lavoro e nella politica.

Il Parlamento si era appena insediato, nel ‘94, e fu subito offensiva contro un senior come Norberto Bobbio. Eletto alla Camera alta, Franco Zeffirelli giubilò: la Seconda repubblica aveva spazzato via «la triste sfilata dei senatori a vita, uno più cadaverico dell’altro, una vecchia Italia che non vogliamo più e che si è seppellita da sola».

Facendogli eco, Maurizio Gasparri diceva di Indro Montanelli: «Quello è arrivato al tramonto della vita e anche delle capacità intellettuali del suo cervello»

L’offensiva rottamatrice proseguì, più feroce, nel 2006-2008. Ricordiamo gli improperi riversati su Rita Levi Montalcini, e sulla sua tenace presenza in Senato per sostenere il governo di centro sinistra. Sul Giornale del 14-7-07, Paolo Guzzanti parlò di vecchi «scongelati, inchiavardati allo scranno e costretti a pigiare col ditino il pulsante guidato da una senatrice badante». Storace promise «un bel paio di stampelle da consegnare a domicilio. Si comincia dalla senatrice a vita Levi Montalcini ». Su Libero, diretto da Vittorio Feltri, apparve il titolo d’apertura: «La dittatura dei pannoloni».

Siamo dunque lontani dal vero, quando scriviamo che Berlusconi è finito, e con lui il lessico d’insulti della Lega. Il loro modo d’essere e di dire sgocciola come da una flebo nelle vene di un’intera generazione. È il suo marchio, così come le parole del ’68 intrisero due generazioni. I francesi faticano ancor oggi a uscire dalla generazione Mitterrand. Faticheremo anche noi, più di quel che si dica.

Il cambiamento è altra cosa. È la crisi non come decadenza ma trasformazione: un desiderio che Renzi intuisce, e vuol incarnare. È un conflitto ineluttabile: fra ieri, oggi, domani. È un progetto diverso di crescita, non nuovo tra l’altro, se già nel 1987 il rapporto Brundtland scriveva: «Lo sviluppo sostenibile è uno sviluppo che soddisfa i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni». È un orizzonte dato a giovani cui non si può dire, come il ministro Fornero: «Siete troppo choosy!» («schizzinosi » è mal tradotto, cancella il furto della scelta). E che volto devono avere le nostre città, i nostri pubblici spazi e servizi? Come congegnare pensioni che non tramutino gli anziani in gente bandita o - abbondano anche qui truci aggettivi - in esuberi o esodati? Dai tempi dei Viceré e del Gattopardo sappiamo che cambiar facce non basta alle Grandi Trasformazioni.

Rottamazione oltre che parola brutta è diseducativa, non prepara alcunché. Alla sua insegna non può svolgersi dibattito fra candidati alla guida del Paese. Eppure di discussioni dirette c’è bisogno: per districarsi da soli, senza mediatori nei giornali o in Tv. Nelle primarie americane e francesi è la norma, sebbene scabrosa.

Il rottamatore di professione, presente ovunque nei partiti, ti fruga, alla ricerca degli istinti più bassi, delle passioni più tristi. Viene in mente il Viaggio agli inferni del secolo di Buzzati: nei sotterranei milanesi, sotto la metro, c’è un mondo parallelo in cui i vecchi, inservibili, sono scaraventati dalle finestre nei marciapiedi.

Entrümpelung, parola che Buzzati prende dal lessico nazista, significa repulisti, sgombero: è una variante dell’igienica rottamazione. Anche quel repulisti viene celebrato come «festa della giovinezza, della rinascita, della speranza», del Mondo Nuovo.

Accade così che il diverso appaia come uomo di troppo: povero o vecchio, esodato o immigrato. Sono i disastri del moderno, non del barbarico. Una volta che te la prendi con classi d’età, quindi con la biologia, entri nella logica del capro espiatorio, dell’innocente che paga per il collettivo. Il rito è la ripetizione di un primo linciaggio spontaneo, secondo René Girard, che riporta ordine in seno alla comunità. Nel linciaggio, la violenza di tutti contro tutti sfocia in violenza di tutti contro uno. Sarebbe bello se a dirlo, con voce non bassa, fossero anche i giovani



Mercoledì 24 Ottobre,2012 Ore: 15:31
 
 
Commenti

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Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 24/10/2012 17.35
Titolo:UNA CLASSE DIRIGENTE ARRETRATA. Allarme laureati .....
Allarme laureati, nel 2020 18 milioni in meno
E in Italia il "disallineamento" esiste già

Da uno studio McKinsey emergono i forti rischi di "mismatch" tra domanda e offerta nei Paesi industrializzati. Da noi disoccupazione e scoraggiamento allontanano gli studenti dall’università, ma già adesso mancano figure qualificate chiave ricercate attivamente dalle imprese

- di ROSARIA AMATO *

ROMA - Per tanti anni la laurea è stata il passaporto per il salto sociale, lo strumento migliore per il passaggio di classe. Poi è venuta la crisi, e molti giovani si sono ritrovati a rigirarsi per le mani quello che sembra essere diventato a tutti gli effetti un inutile pezzo di carta. Eppure, in futuro ci sarà sempre più spazio per laureati e post-laureati, assicurano Richard Dobbs e Anu Madgavkar, i ricercatori di McKinsey autori dell’indagine "Why the jobs problem is not going away" (perché permangono i problemi del lavoro). L’indagine parla di un "mismatch", di un disallineamento tra la domanda e l’offerta di laureati, che da qui al 2020 si allargherà sempre di più: nelle economie avanzate potrebbero mancare all’appello dai 16 ai 18 milioni di laureati, l’11% in meno rispetto alla domanda, con conseguenze dannose per la crescita del Pil.

Un mismatch preoccupante anche in Italia. Sarà così anche per l’Italia? Al momento il tasso di disoccupazione è al 10,7%, 34,5% per i giovani dai 15 ai 24 anni. Per cui non c’è da stupirsi se "negli ultimi anni la partecipazione dei giovani all’istruzione universitaria mostra una tendenza alla riduzione", dice Cristina Freguja, direttore centrale della Direzione delle statistiche socio-economiche dell’Istat. Infatti il "tasso di passaggio" dalla scuola secondaria all’università è sceso nell’anno accademico 2010-2011 al 61%, rileva l’Istat, contro il 73% dell’anno accademico 2003-2004, e il rapporto tra i laureati e la popolazione venticinquenne è al 32%, "mentre superava il 40% nel 2006". E quindi, conclude Freguja, "considerato il contesto demografico atteso per i prossimi decenni e in assenza di eventuali afflussi di immigrazione altamente qualificata, se questo trend dovesse proseguire, il mismatch tra domanda e offerta di lavoro di persone laureate potrebbe effettivamente assumere dimensioni rilevanti".

Un mercato del lavoro "ingiusto". A scoraggiare i giovani, rileva Andrea Cammelli, direttore di Almalaurea, le difficoltà del mercato del lavoro: "Mentre con il contrarsi dell’occupazione negli altri Paesi è cresciuta la quota di occupati ad alta qualificazione, nel nostro Paese è avvenuto il contrario". Tanto che "probabilmente almeno una parte dei laureati che in questi anni sono emigrati dall’Italia fanno parte del contingente di capitale umano che è andato a rinforzare l’ossatura dei sistemi produttivi dei nostri concorrenti!". Eppure "in Italia la percentuale di giovani laureati è al 27%, tra le più basse del mondo: negli Stati Uniti è al 40%", ricorda Francesco Pastore, professore di Economia Politica all’università di Napoli e segretario dell’Associazione Italiana degli Economisti del lavoro. Pochi laureati, e in difficoltà: la colpa principale, secondo Pastore, è che da noi il "mercato del lavoro è ingessato, ingiusto: la percentuale di persone che trova lavoro grazie ad amici e conoscenti è passata in pochi anni dal 28% a oltre il 40%, i giovani che lo trovano grazie ai centri dell’impiego sono appena il 2,5%, gli addetti in Italia sono pochissimi, uno per ogni 150 disoccupati, contro 1/48 in Germania e 1/24 in Gran Bretagna".

Una classe dirigente arretrata. Cambieranno le cose in futuro? Vale la pena di investire in una laurea? "Abbiamo un Paese che non cresce e che non crea occupazione - ammette Stefano Scabbio, presidente e ad di ManpowerGroup Italia e Iberia - e c’è anche un problema di classe dirigente poco preparata, che fa fatica a introdurre laureati brillanti nella propria organizzazione". Eppure, il sistema attuale fatto di piccole imprese concentrate nel settore manifatturiero, ragiona Scabbio, già non regge la concorrenza con gli altri Paesi: bisognerà passare a un sistema che metta al centro la ricerca e l’innovazione, le nuove tecnologie: "Abbiamo ancora un modello di sviluppo molto tradizionale, con poca tecnologia. Per cui i laureati molto preparati finiscono per andare all’estero, lì trovano opportunità. Ma già le cose stanno cambiando, e ci sono dei profili che già adesso sono molto ricercati in Italia: tutta l’area ingegneristica con indirizzo meccanico, elettronico o elettronico, ingegneria informatica, le lingue, economia e commercio per ruoli di controllo di gestione".

E’ già allarme "disallineamento". Dalle indagini di Unioncamere emerge una richiesta non soddisfatta di laureati in Economia bancaria, ingegneria civile, informatica, meccanica e civile, scienze economico aziendale, farmacia, e in discipline sanitarie. Il mismatch tra domanda e offerta di figure professionali altamente qualificate non è un problema futuro, in realtà in Italia esiste già adesso, spiega il presidente di Unioncamere, Ferruccio Dardanello. E superarlo è fondamentale per la crescita: "La competitività di un Paese come il nostro, privo di risorse naturali, oggi come ieri si gioca sulla competenze delle persone, sulla qualità, originalità e innovatività delle loro idee e, soprattutto, sull’esistenza di un sistema-Paese in grado di valorizzare queste idee portandole sul mercato. Per questo è indispensabile che i nostri giovani siano messi in condizioni di scegliere un percorso formativo - a tutti i livelli - coerente con le esigenze delle imprese. Non a caso, da alcuni anni, le imprese hanno accentuato l’attenzione al tema della qualità delle risorse umane, puntando ancora di più sull’eccellenza per competere. Purtroppo il nostro mercato del lavoro continua a scontare un forte mismatch tra domanda e offerta di figure professionali altamente qualificate che, invece, sono oggi indispensabili per il successo di migliaia di piccole e medie imprese, in particolare di quelle impegnate nei settori trainanti del Made in Italy".

* la Repubblica, 24 ottobre 2012
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 24/10/2012 18.04
Titolo:LA DECADENZA DELL'ITALIA.
Italia Decadence

Un saggio di Guido Crainz racconta la trasformazione vissuta dal paese e dalla democrazia negli ultimi decenni
- Nell’euforia del boom le radici lontane dei vizi d’oggi

di Nello Ajello (la Repubblica, 23.10.2012)

Perché, e quando, la democrazia si è trasformata, nel nostro paese, in «una partitocrazia decadente, inefficiente e corrotta»? Ecco la domanda che si fa chiunque guardi all’attuale situazione italiana con l’ansia di capirci qualcosa.

Ed è proprio questo l’interrogativo che percorre l’opera di Guido Crainz, Il paese reale in uscita presso l’editore Donzelli (pagg. 403, euro 29). Nel sottotitolo esplicativo - “Dall’assassinio di Moro all’Italia di oggi” - sembra cogliersi il desiderio di dare alla vicenda un inizio meno remoto, e forse l’intenzione di non allarmare troppo il lettore.

In realtà l’intera ricerca di Crainz allarmante è, e tale resta. Essa dimostra, inoltre, che i primi sintomi delle odierne traversie vanno collocati indietro nel tempo. Si manifestarono cioè fin dall’epoca del “miracolo italiano”, un “tumultuoso processo” al quale la politica si limitò ad assistere compiaciuta. Quella “belle époque inattesa” (così la vide Italo Calvino), diffuse una frenesia della crescita cui non si accompagnarono né meditati quesiti sulla sua consistenza né lucidi propositi per l’avvenire.

Non che in questo senso mancassero i pensieri e gli sforzi - come dimenticare quel disegno di “programmazione economica” dovuto alla preveggenza di Ugo La Malfa? - ma restarono a un livello di testimonianza. Un’intera classe dirigente confidò che quel prodigio nostrano, utile e comodo, durasse all’infinito. Ma anche quando la conformistica aspirazione al soddisfacimento di ciò che Crainz chiama le tre M - Macchina, Moglie e Mestiere - venne messa a disagio dall’azione disgregatrice della “baby boom generation”, figlia del dopoguerra avanzato e fucina della rivolta del Sessantotto, anche questi clamorosi preannunzi di cambiamento trovarono il vertice politico più incline a scandalizzarsi che a interpretarli.

Fra i pochi che si mostrarono più riflessivi in materia si sarebbe distinto Aldo Moro. Ma, in generale, la sordità apparve cronica. Così come il vastissimo sconcerto sociale prodotto nel paese dalle fasi ulteriori del disfacimento italiano - il terrorismo prima, e più tardi il “riflusso” nel privato, stagioni di natura opposta ma convergente - trovarono impreparate le istituzioni, quasi che simili eventi e pulsioni non promettessero un catastrofico e crescente disgusto per la politica.

È andata dunque in scena una sequela ininterrotta di sorprese e di sconfitte ai danni del Paese? Crainz crede di sì. La sua lettura può suscitare le impressioni più varie, tranne l’indifferenza. Ne nascerebbe perfino un’inerte assuefazione all’“umor nero” dell’autore se non fosse per le centinaia di felici citazioni, che egli riporta, firmate da giornalisti, commentatori, esponenti politici e testimoni d’epoca. Chi abbia seguito con qualche attenzione i decenni dei quali qui si dà conto, vi troverà continui riscontri di fatti, persone, e giudizi nell’intrecciarsi di cronaca e commento, diario e sentenze, memoria e riflessione.

È un’aria di quotidianità critica che si addensa soprattutto nelle centoventi pagine (oltre un terzo del volume), dedicate agli anni Ottanta e all’alba del decennio successivo, autentica vigilia del dissesto che ora ci assedia.

Sto parlando della stagione segnata dall’euforia craxiana, qui illustrata in ogni sua piega, cui seguiranno Tangentopoli e la nascita di quella che si chiamerà la Seconda Repubblica.

L’aspra trama del racconto si nutre di istantanee eloquenti. Sono pezzi di giornalismo che sembrano qui smentire la caducità attribuita al genere. Se non siamo alla “storiografia dei giornalisti” a suo tempo individuata da Croce, poco ci manca.

È una chiave di scrittura della quale qui si può offrire solo qualche esempio. Nel capitolo intitolato “La frana e il crollo”, l’autore destina quasi un’intera pagina alla trascrizione dei titoli con i quali i quotidiani rivelavano, tra metà aprile e metà maggio del 1992, quel “Watergate all’italiana” che tenne dietro all’arresto del “mariuolo” Mario Chiesa” (così lo battezzò Craxi), il primo di una folla perennemente attuale di tangentomani.

Qui sembra davvero di assistere a uno spettacolo cui si potrebbe incollare un’etichetta: “l’oggi in differita”. Al centro di un libro così impegnativo, con una trama così desolante, è come un invito a sorridere. Invece che assolvere all’obbligo di disperarsi.

Titoli e ritagli, dunque, sottratti al loro tempo e più freschi che mai. Ecco il presidente di Mediaset che definisce una “decisione eroica” e “un calice amaro” il suo proposito di “scendere” in politica (un dramma, o una farsa, che avranno, come sappiamo, delle repliche). Ecco più in là un titolo del Corriere della sera, “Nasce la destra smoderata”, a metà strada tra fra parodia e profezia.

E ancora, una variante dello spettacolo: sullo sfondo di un articolo-istantanea si scorge l’Italia smarrita per le ruberie che le si rivelano, e in primo piano l’Unto del Signore. «Con i tempi grami e luttuosi che corrono - commenta La Stampa - è come se Lui «fosse piombato in mezzo a un funerale distribuendo pacche sulle spalle».

Che quella fosse la natura del leader era già assodato in quei tempi lontani. Ma come definire la psicologia dei suoi seguaci? «Si tratta di “petit peuple”, piccoli e piccolissimi borghesi»: così li vide Sandro Viola, mandato da Repubblica a percorrere la Lombardia. E intanto Barbara Spinelli vedeva nel debutto del Cavaliere «una fiaba con finale infelice: c’era il principe, e nelle ultime righe si apprende invece che è un rospo».

Adesso il finale infelice s’è consumato (così ci si augura), e il rospo nazionale non fa più tanta paura a quella metà degli italiani che non lo ha prediletto. Ma c’è da chiedersi se il paese che gli fece da tana abbia assorbito in pieno la lezione. Dopo una sbornia durata una ventina d’anni, non si sa se e quando riuscirà a riprendersi. Ciò sarebbe essenziale, dovendo l’intero paese accingersi «un’opera di ricostruzione», le cui dimensioni «sono simili» - conclude Guido Crainz - «a quelle della fase post-bellica».

Anziché che una Terza Repubblica, come si sente dire, ciò che ci aspetta è un Secondo Dopoguerra? Nell’attesa, sarà bene ricordare che non sempre i miracoli si ripetono.
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 25/10/2012 10.16
Titolo:L'ULTIMA BARZELLETTA DEL SIGNOR B.
Berlusconi scappa. L’ultima barzelletta

di Antonio Padellaro (il Fatto, 25.10.2012)

Silvio Berlusconi ha tanti difetti, ma non è certo stupido. Da quando, proprio un anno fa, venne cacciato da Palazzo Chigi a furor di popolo e di spread, ha cercato in tutti i modi di rianimare un partito morto. Ha perfino messo in giro la voce di una sua ricandidatura a premier sperando in un sussulto dei sondaggi, ma la picchiata del Pdl non si è fermata.

Ora, mettetevi nei panni di colui che per quasi vent’anni si è sentito (ed è stato) il padrone dell’Italia, per tre volte presidente del Consiglio, ma in grado di gestire un potere assoluto anche dall’opposizione grazie a una sinistra compiacente, signore incontrastato delle tv, servito e riverito come neppure il duce ai suoi tempi, uno che ha fatto votare al Parlamento qualunque cosa (perfino Ruby nipote di Mubarak), un tipo che ha trasformato le istituzioni in un’orgia non soltanto metaforica.

Ecco, mettetelo davanti alla prospettiva di guidare ancora un’armata politica di sbandati rissosi e popolata dai Fiorito e dalle combriccole dedite al furto di pubblico denaro. Perché mai questo anziano viveur dovrebbe desiderare di trascorrere le giornate con Cicchitto e la Santanchè mentre il suo impero si sbriciola e i processi incalzano?

Insomma, ridotto com’è non gli restava altro che scappare velocemente dalle macerie del Pdl raccontandoci l’ultima barzelletta del passo indietro “per amore dell’Italia”. Quanto alle primarie, difficile pensare che non si risolvano in un regolamento di conti tra clan e fazioni accelerando la dissoluzione di un partito personale inventato sul predellino di un’auto e cementato dall’odio.

Lui era già finito da tempo. Forse il giorno in cui ai vertici europei cominciarono a ridergli dietro. Adesso non gli resta che garantirsi uno straccio d’immunità con un seggio al Senato e sperare nella clemenza di Monti. A sua imperitura memoria resta il disastro a cui ha condotto il Paese.


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Il senso di B. per il Senato

Lo slalom tra immunità e prescrizione

di Antonella Mascali e Caterina Perniconi (il Fatto, 25.10.2012)

Chi conosce bene Silvio Berlusconi ci ha messo un attimo a capire che le sue parole non erano di certo un azzardo. Soprattutto processuale. “Guardate che Berlusconi ha detto che si dimette da premier, non da parlamentare”, chiarisce pochi minuti dopo l’annuncio la deputata pdl Jole Santelli in Transatlantico. “Andrà a Palazzo Madama come padre nobile del partito. Alla Camera resteranno i giovani, e fate attenzione a questa parola”.

Lo scenario è quello della rottamazione. Si può fare forse per tutti, nel Pdl, ma nessuno provi a farlo con lui. Perché a Berlusconi un seggio serve, e non soltanto per fargli indossare le vesti di senatore e padre nobile: gli serve soprattutto per conservare l’immunità. È sempre il palazzo di Giustizia di Milano a preoccupare di più Berlusconi. Tra oggi e domani è attesa la sentenza del processo sui diritti televisivi. L’ex presidente del Consiglio è accusato di frode fiscale, insieme al presidente di Mediaset, Fedele Confalonieri, e ad altri imputati. Secondo l’accusa, sono stati gonfiati per anni i costi della compravendita dei diritti televisivi, allo scopo di accantonare fondi neri all’estero.

NEL CORSO DEL TEMPO, la prescrizione ha azzerato una parte dei reati. Restano in piedi le presunti frodi fiscali per il 2001, 2002 e 2003. Secondo i pm Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, sono stati evasi 14 milioni di euro d’imposta. La procura ha chiesto una condanna a 3 anni e 8 mesi e Berlusconi rischia grosso, in caso di sentenza sfavorevole: l’eventuale pena, infatti, potrebbe diventare definitiva, prima che si apra il paracadute della prescrizione. In astratto, i tempi ci sono: la prescrizione scatta infatti nel-l’aprile 2014 e se si considera che questa settimana contestualmente al dispositivo della sentenza saranno presentate anche le motivazioni, si guadagnano 60-90 giorni. Restano dunque 18 mesi, che possono essere sufficienti per il processo d’appello e per arrivare al verdetto definitivo della Cassazione.

Entro dicembre, poi, potrebbe arrivare anche la sentenza sul caso che ha fatto il giro del mondo: le “cene eleganti” di Arcore, le feste del bunga-bunga e i suoi rapporti con la minorenne marocchina Karima El Mahroug, in arte Ruby Rubacuori. L’ex presidente del Consiglio è imputato di concussione (ha fatto pressioni sui funzionari della questura di Milano, chiedendo il rilascio della “nipote di Mubarak”, fermata per furto a Milano il 27 maggio 2010) e di prostituzione minorile (per averla inserita, minorenne, nel contesto sessuale delle feste di Arcore, pagandola).

SETTIMANA SCORSA, Berlusconi ha pronunciato dichiarazioni spontanee in tribunale, affermando di essere stato veramente convinto che Ruby, minorenne marocchina, fosse la nipote del presidente egiziano e di essersi “informato” presso i funzionari della questura per evitare un incidente diplomatico. Sempre a Milano, Berlusconi ha in corso un altro processo che potrebbe andare a sentenza entro l’anno: quello in cui è imputato di rivelazione di segreto d’ufficio per la diffusione dell’intercettazione segreta, del luglio 2005, tra il presidente di Unipol, Giovanni Consorte, e il segretario dei Ds, Piero Fassino, che esclama: “Allora abbiamo una banca? ”. Quella registrazione (neppure trascritta per i magistrati che indagavano sulle scalate bancarie dei “furbetti del quartierino”) fu ascoltata ad Arcore la vigilia di Natale e poi pubblicata dal Giornale il 31 dicembre 2005.

A Bari, invece, il leader del Pdl è accusato, assieme al faccendiere Valter Lavitola, di aver indotto a dichiarazioni mendaci l’imprenditore Gian-paolo Tarantini, procacciatore di escort per l’ex presidente del Consiglio. Quattro procedimenti penali, quattro buoni motivi per restare in Parlamento.

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