- Scrivi commento -- Leggi commenti ce ne sono (0)
Visite totali: (278) - Visite oggi : (1)
Questo giornale non ha scopo di lucro, si basa sul lavoro volontario e si sostiene con i contributi dei lettori Sostienici!
ISSN 2420-997X

Canali social "il dialogo"
Youtube
- WhatsAppTelegram
- Facebook - Sociale network - Twitter
Mappa Sito

www.ildialogo.org LA BILANCIA SPEZZATA DELLA SOVRANITA' POPOLARE, IL "PAREGGIO DI BILANCI0" E LA REGRESSIONE COSTITUZIONALE. L'allarme di Gianni Ferrara e alcune note di Alessandro Barbera e di Sigmar Gabriel, Leader SPD,a c. di Federico La Sala

ANNO 2012: L'ITALIA, L'EUROPA E LA GARANZIA FINANZIARIA DEI DIRITTI SOCIALI. "È contenuta nella Costituzione della Repubblica del Brasile, all’articolo 159 ed è specificata in quelli lo seguono, la riserva di bilancio a favore dei diritti sociali."
LA BILANCIA SPEZZATA DELLA SOVRANITA' POPOLARE, IL "PAREGGIO DI BILANCI0" E LA REGRESSIONE COSTITUZIONALE. L'allarme di Gianni Ferrara e alcune note di Alessandro Barbera e di Sigmar Gabriel, Leader SPD

(...) la nostra Costituzione non è più nostra. È stata trasformata in strumento giuridico funzionale ad un feticcio, quello neoliberista, che la tecnocrazia finanziaria europea interpreterà volta a volta dettando le misure che dispiegheranno la mistica del feticcio


a c. di Federico La Sala

Lo strumento che ci resta è quello di una proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare, ai sensi dell’articolo 71 della Costituzione, con cui integrare l’art. 81 in modo che le entrate dello stato, delle regioni e dei comuni siano riservate per il cinquanta per cento ad assicurare direttamente o indirettamente il godimento dei diritti sociali.


 NOTE SUL TEMA:


Regressione costituzionale

di Gianni Ferrara (il manifesto, 18 aprile 2012)

Con l’approvazione del Senato in seconda deliberazione si è concluso ieri il procedimento di revisione dell’art. 81 della Costituzione. Male. Un giudizio non tanto distante da quello che si arguiva dalle parole di chi dichiarava, dai banchi della sinistra, un voto più disciplinato che convinto.

Con l’approvazione di tale legge costituzionale, la politica economica è sottratta al Parlamento italiano, al Governo italiano, al corpo elettorale italiano. Con tale approvazione la nostra Costituzione non è più nostra. È stata trasformata in strumento giuridico funzionale ad un feticcio, quello neoliberista, che la tecnocrazia finanziaria europea interpreterà volta a volta dettando le misure che dispiegheranno la mistica del feticcio.

Con tale approvazione un altro demerito si accompagnerà a quelli sciaguratamente ottenuti dal nostro paese in tema di regimi politici. Il demerito di aver inventato un nuovo tipo di Costituzione. A quelle scritte, consuetudinarie, flessibili, rigide, programmatiche, pluraliste, liberali, democratiche, lavoriste, si aggiungerà la Costituzione abdicataria, una costituzione-decostituzione. Un ossimoro istituzionale che preconizza una recessione seriale che, partendo dalla neutralizzazione della politica, porterà alla compressione dei diritti e poi alla dissoluzione del diritto, sostituito dalla mera forza del dominio economico.

Emerge, improrogabile, la necessità di un intervento. Votando questa autentica regressione costituzionale, i gruppi parlamentari della strana maggioranza delle due camere hanno tenuto in irresponsabile dispregio i giudizi di economisti di molti paesi del mondo, tra i quali 5 premi Nobel, di giuristi di varie discipline.

Su un tema così intrinseco alla sovranità popolare, e su cui, e non per caso, è stato stesa una coltre fittissima di silenzio, hanno escluso che potesse pronunziarsi il corpo elettorale. I fondati dubbi sulla legittimità costituzionale della legge elettorale da cui deriva la loro presenza in parlamento non ne hanno frenato la cupidigia di sottomettersi al diktat della Cancelliera tedesca.

Hanno respinto anche la richiesta di approvarla pure questa legge, ma non con la maggioranza dei due terzi, quella che impedisce l’indizione di un referendum su tale gravissima spoliazione della sovranità nazionale.

Ci resta ora un solo strumento per chiedere a questo o al prossimo parlamento di invertire la rotta.

Un solo modo per impegnarsi nella difesa di una conquista di civiltà arrisa con il riconoscimento, nel secolo scorso, dei diritti sociali. Sono quelli messi per primi in grave ed imminente pericolo dal feticcio liberista.

Lo strumento che ci resta è quello di una proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare, ai sensi dell’articolo 71 della Costituzione, con cui integrare l’art. 81 in modo che le entrate dello stato, delle regioni e dei comuni siano riservate per il cinquanta per cento ad assicurare direttamente o indirettamente il godimento dei diritti sociali.

Imponendo quindi che nei bilanci di previsione dello stato, delle regioni, dei comuni, il cinquanta per cento della spesa risulti complessivamente destinato a garantire direttamente o anche indirettamente i diritti: alla salute, all’istruzione, alla formazione e all’elevazione professionale delle lavoratrici e dei lavoratori, alla retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro, all’assistenza sociale, alla previdenza, all’esistenza dignitosa ai lavoratori e delle loro famiglie.

Si tratta dei diritti riconosciuti dagli articoli da 32 a 38 della Costituzione. Si tratta di creare una garanzia efficace per i diritti, volta sia a neutralizzare gli effetti delle disposizioni inserite nell’articolo 81 della Costituzione e pericolosissime per i diritti sociali, sia a precludere, o almeno a ridurre, la spesa pubblica per armamenti, per grandi e disastrose opere, per variegate clientele.

Ad ipotizzarla non è la stravaganza di un vecchio costituzionalista, testardamente convinto della necessità storica della democrazia di pervadere la base economica della società. È contenuta nella Costituzione della Repubblica del Brasile, all’articolo 159 ed è specificata in quelli lo seguono, la riserva di bilancio a favore dei diritti sociali.

Raccogliere cinquanta mila firme e più, tante, tante altre ancora, per sostenere una proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare con i contenuti indicati è possibile. È doveroso.

A tema centrale della prossima campagna elettorale per il rinnovo del parlamento va posta la garanzia finanziaria dei diritti sociali. Di fronte al pericolo del crollo di un pilastro della civiltà giuridica e politica, dobbiamo usare tutti gli strumenti della democrazia costituzionale che ci sono rimasti. Non possiamo altrimenti.

________________________________________________________________________

 
  • Pressione fiscale record Nel 2012 arriva al 45,1%

    Votato il pareggio di bilancio nella Carta ma il deficit zero arriverà solo nel 2015

    di Alessandro Barbera (La Stampa, 18.04.2012)

    ROMA Per chi crede ancora in John Maynard Keynes e nelle sue teorie si tratta di un errore capitale. Qualche settimana fa cinque premi Nobel hanno scritto un appello a Barack Obama per dire no a quella che in giro per l’indebitato Occidente è diventata una parola d’ordine. Ma l’Europa ha deciso così, e l’Italia, come tutti, ha fatto di necessità virtù. Così ieri il Senato ha detto sì in via definitiva all’introduzione del pareggio di bilancio in Costituzione. I 235 voti favorevoli, ovvero più dei due terzi dell’assemblea, eviteranno anche il referendum confermativo. Il «Def», il documento di finanza pubbliche che oggi sarà approvato dal governo dirà che il pareggio di bilancio almeno nei numeri lo vedremo solo nel 2014. E però il voto ha un forte significato simbolico. «Era un voto importante, bisognava esserci e io c’ero», farà sapere il senatore a vita Mario Monti. Di tutti i giorni possibili per dire il sì definitivo, ieri era quello che al governo serviva di più per sottolineare la volontà dell’Italia di proseguire sulla strada del rigore. Nonostante i numeri, le pressioni dei partiti, la recessione e una crescita ancora molto fiacca.

    Il Tesoro stima per quest’anno una contrazione del Pil dell’1,2%, peggio dell’ultima previsione (-0,4%) ma comunque meglio del -1,5% di Bankitalia e del -1,9% previsto proprio ieri dal Fondo monetario internazionale. Il governo si mostra più ottimista anche per l’anno prossimo: se nel 2013 il Fondo vede un -0,3%, noi stimiamo +0,5%. La crescita stenta, e dunque è più difficile anche il raggiungimento del pareggio. Nel 2013, la scadenza promessa a Bruxelles, il deficit si fermerà a +0,5%, quattro decimali in più di quanto stimato in precedenza. Ma per la Commissione poco cambia: mezzo punto di Pil in deficit (circa sette miliardi di euro) è la soglia considerata «close to balance», vicina all’obiettivo. Anche in questo caso le nostre previsioni non sono allineate a quelle, più prudenti, del Fondo: noi prevediamo deficit zero in termini reali nel 2015, Washington lo stima possibile solo nel 2017.

    Peggiorano anche le previsioni per il debito: quest’anno balzerà di ulteriori tre punti al 123,4%, il massimo di sempre. Il testo definitivo del governo imputerà l’aumento essenzialmente ai costi del salvataggio greco e della istituzione del Fondo salva-Stati: rispetto alle stime precedenti lo scostamento è di circa tre punti, 45 miliardi di euro. Il debito promette di scendere al 121,6% nel 2013 e al 118,3% nel 2014. Nonostante tutto, il calo degli spread fra i Btp e i Bund iniziato con l’insediamento del governo Monti ci farà spendere molto meno in interessi sul debito. Quest’anno pagheremo 6,3 miliardi in più rispetto al 2011 (79,9 miliardi nell’anno), ma 17 in meno rispetto a quanto previsto a dicembre, quando lo spread sull’Italia era attorno ai 550 punti base.

    Ciò detto, ci siamo salvati dal baratro con una stangata fiscale senza precedenti: la pressione fiscale che nel 2011 era già salita al 42,5% quest’anno toccherà il nuovo record del 45,1%, più del 43,7% causato nel 1997 dall’Eurotassa di Prodi e Visco. Il peso fiscale salirà ancora nel 2013 (45,4%) e scenderà lievemente al 44,9% nel 2015. Se il «Def» è un compendio delle prossime scelte di politica economica, mettete l’anima in pace: questi numeri ci dicono che non c’è alcuna speranza in una riduzione delle tasse in tempi rapidi.


    Austerità, nuovo nome dell’ideologia liberista che ha prodotto la crisi

    La destra europea finge di ignorare che le sue idee sui mercati liberi e autoregolati hanno fallito e cerca di tenerle in vita sotto altre vesti

    di Sigmar Gabriel, Leader SPD (l’Unità, 18.04.2012)

    L’Europa si trova dinanzi a un tornante storico in cui si deciderà il futuro comune. Riusciremo a dare una risposta comune alla crisi finanziaria e monetaria, dando regole ai mercati? Riusciremo, da questa crisi, ad avviare una dinamica che porti a una maggiore integrazione? O permetteremo invece che l’Europa si lasci smembrare dai mercati, col rischio che rinascano pericolosi nazionalismi e che l’Europa stessa rimanga sospesa in un limbo politico ed economico?

    Siamo a un passaggio d’epoca. L’era del fondamentalismo del mercato e del neoliberismo è giunta al termine. I suoi paladini sono dinanzi alle rovine delle loro stesse teorie. Per quasi trent’anni hanno raccontato che solo la libertà dei mercati avrebbe reso possibile il progresso della società. Tutto ciò è crollato fragorosamente con la crisi finanziaria del 2009. I mercati liberalizzati e deregolati non si sono dimostrati efficienti, tutto il contrario. Coloro che hanno diffuso questo falso credo nel mercato non erano economisti, ma teologi. Hanno annunciato dogmi di fede e difeso interessi molto concreti, lontani dal bene comune.

    Come risposta alle nuove sfide non servono più le ricette del passato. Come socialdemocratici e socialisti europei sappiamo che viviamo un tempo che esige risposte nuove e diverse. Inutile attendere queste risposte dai conservatori e dai liberali europei. Nemmeno adesso vogliono darsi per intesi del fatto che le loro idee sui mercarti liberi e autosufficienti hanno fatto fallimento.

    Quando Angela Merkel dice che quello di cui si discute oggi è di «democrazie adeguate al mercato» si smaschera da sola e mostra come lei, e i suoi colleghi conservatori, continuino a non cogliere la profondità del cambiamento. Come socialdemocratici e socialisti europei affermiamo: abbiamo bisogno di mercati adeguati alla democrazia, mercati che si adeguino a una politica democratica. Sappiamo che l’Europa è il luogo in cui dobbiamo condurre insieme questa battaglia politica. Su questo poggia oggi la grande unità dei socialdemocratici e socialisti europei: l’Europa può e deve essere il luogo in cui, insieme, addomestichiamo per la seconda volta il capitalismo... in particolare il capitalismo finanziario.

    Ciò di cui abbiamo bisogno è una europeizzazione dell’economia sociale di mercato orientata al benessere a lungo termine di quante più persone possibile, non alla soddisfazione immediata di pochi.

    I capi di Stato e di governo europei, in maggioranza conservatori, si sono lasciati manovrare dai mercati per troppo tempo. Con continui salvataggi pubblici hanno cercato di guadagnare tempo, senza aggredire la crisi alle sue radici e senza ridimensionare le pretese della finanza. Inoltre, in modo fazioso, hanno dato di questa crisi una definizione corretta soltanto in parte: per esempio, come crisi del debito di alcuni stati dell’Unione europea i cui bilanci sarebbero andati fuori controllo e la cui competitività sarebbe crollata. Nel caso della Grecia, una simile interpretazione potrebbe trovare una qualche giustificazione. In quelli di Irlanda e Spagna, tuttavia, elude il nucleo del problema. Questi Paesi esibivano, prima che scoppiasse la crisi finanziaria, conti pubblici esemplari. Qui è stata la crisi internazionale a obbligare entrambi gli Stati a indebitarsi massicciamente per evitare il collasso del loro sistema bancario.

    I conservatori e i liberali europei cercano di nascondere il ruolo avuto dalla crisi finanziaria internazionale. Invece di sottoporre davvero a controllo i mercati, invece di affrontare i problemi strutturali dell’eurozona attraverso una politica economica, finanziaria e sociale effettivamente coordinata, l’Europa obbedisce all’unico imperativo del rigore, che non è né economicamente razionale né socialmente giusto.

    Sotto un nuovo nome, conservatori e liberali europei mantengono in vita le idee e le categorie neoliberiste che sono fallite con la crisi. Lo fanno nella misura in cui i mercati possono continuare il loro gioco speculativo e nella misura in cui gli Stati si sottomettono a un imperativo unilaterale di rigore, il cui risultato è meno servizi pubblici, meno giustizia sociale, più privatizzazioni e più libertà ai mercati.

    Come socialdemocratici e socialisti europei vogliamo una politica diversa per l’Europa. Vogliamo coniugare stabilità finanziaria e solidarietà europea, disciplina di bilancio con crescita e occupazione.

    Il Fiscal compact è un passo importante per garantire bilanci pubblici solidi in Europa. Tuttavia, è orientato in modo troppo squilibrato al rigore e all’austerità. Per questo vogliamo che sia completato con uno stimolo comune europeo alla crescita e all’occupazione.

    Vogliamo che i mercati finanziari siano sottoposti a regole più strette e che contribuiscano a pagare i costi della crisi atttraverso un’imposta sulle transazioni finanziarie. Il ricavato di questa imposta potrà essere usato per un programma economico e di innovazione, una sorta di Piano Marshall europeo del quale dovrebbe beneficiare soprattutto l’Europa meridionale.

    Vogliamo dare all’Europa una forte caratterizzazione sociale: attraverso un’iniziativa comune contro la disoccupazione giovanile, che ha raggiunto in alcuni Paesi livelli preoccupanti, attraverso uno standard sociale minimo e salari dignitosi in tutta Europa. Vogliamo lottare perché le persone tornino a sapere questo: l’Europa è una comunità che tutela i suoi cittadini.

    Sappiamo anche che l’Europa, nella crisi, deve continuare ad avanzare nel processo di integrazione e richiede fondamenta democratiche ancora più solide. Come contrappeso alla “politica del cenacolo” dei capi di Stato e di governo ai vertici dell’Ue, il Parlamento europeo deve trasformarsi nel centro della decisione politica e della democrazia europea.

    Quando oggi si parla di Europa, lo si fa sempre meno a proposito di pace e riconciliazione, libertà ed emancipazione, e sempre più in relazione a concetti economico-finanziari: fondo di salvataggio, meccanismo di stabilità o indebitamento. Il dibattito sull’Europa, che un tempo era un dibattito sulle idee politiche, si svolge sempre di più con il vocabolario dei manager. Ma non possiamo lasciare l’Europa in mano ai manager! Perché l’Europa è molto di più. Più della moneta unica, più del mercato comune. Più persino dei trattati e delle istituzioni che oggi tengono unita l’Unione europea.

    L’Europa è anche, e soprattutto, una grandiosa idea di convivenza tra popoli e persone. Rifondare questo contratto sociale tra cittadini, in dialogo e in alleanza con le forze sociali e i partner dell’Unione, è una delle grandi sfide a cui può e deve dedicarsi la socialdemocrazia in Europa. L’Europa come comunità che tutela e rappresenta gli interessi dei cittadini nel mondo di domani: questa è l’idea del futuro della nuova e diversa Europa del XXI secolo che abbiamo noi, socialdemocratici e socialisti.



Mercoledì 18 Aprile,2012 Ore: 18:12
 
 
Ti piace l'articolo? Allora Sostienici!
Questo giornale non ha scopo di lucro, si basa sul lavoro volontario e si sostiene con i contributi dei lettori

Print Friendly and PDFPrintPrint Friendly and PDFPDF -- Segnala amico -- Salva sul tuo PC
Scrivi commento -- Leggi commenti (0) -- Condividi sul tuo sito
Segnala su: Digg - Facebook - StumbleUpon - del.icio.us - Reddit - Google
Tweet
Indice completo articoli sezione:
Storia

Canali social "il dialogo"
Youtube
- WhatsAppTelegram
- Facebook - Sociale network - Twitter
Mappa Sito


Ove non diversamente specificato, i materiali contenuti in questo sito sono liberamente riproducibili per uso personale, con l’obbligo di citare la fonte (www.ildialogo.org), non stravolgerne il significato e non utilizzarli a scopo di lucro.
Gli abusi saranno perseguiti a norma di legge.
Per tutte le NOTE LEGALI clicca qui
Questo sito fa uso dei cookie soltanto
per facilitare la navigazione.
Vedi
Info