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www.ildialogo.org LA MUSA DELLA STORIA, CLIO, E LA STRAGE DI BRESCIA. Dall’amarissima ironia di Antonio Tabucchi del 2004, ai commenti (di Oreste Pivetta, Gianni Barbacetto, Elisabetta Reguitti, Carlo Lucarelli) di oggi, aprile 2012,a c. di Federico LA Sala

L’ITALIA E LA STRATEGIA DELLA TENSIONE. La strage di Brescia, sul fronte giudiziario, è anche peggio di Piazza Fontana. Qui dopo 38 anni non si è arrivati a nessuna verità giudiziaria. Chiediamo che sia data piena attuazione alla legge 124/2007 che regola il segreto di Stato.
LA MUSA DELLA STORIA, CLIO, E LA STRAGE DI BRESCIA. Dall’amarissima ironia di Antonio Tabucchi del 2004, ai commenti (di Oreste Pivetta, Gianni Barbacetto, Elisabetta Reguitti, Carlo Lucarelli) di oggi, aprile 2012

Due certezze per i familiari delle vittime della strage di Piazza della Loggia: non c’è nessun colpevole e dovranno pagare le spese processuali. Manlio Milani, presidente della Casa della memoria, non nasconde la sua profonda amarezza.


a c. di Federico LA Sala

 Cittadini di Brescia, è ora di dimenticare

di Antonio Tabucchi (l’Unità, 15.04.2012)

 

  • Questo è uno stralcio dell’articolo, dal tenore amaramente ironico, che Antonio Tabucchi scrisse su l’Unità del 28 maggio 2004 per i 30 anni della strage di Brescia.

 

Gentili cittadini di Brescia, capiamo il Vostro disappunto e consideriamo riprovevole che dopo tutti questi anni gli autori dell’incidente di Piazza della Loggia non siano stati ancora individuati. Consideriamo altresì riprovevole che siano stati provocati altri incidenti analoghi. E anche politicamente errati, visto, come l’attualità insegna, che ci sono altri mezzi più indolori e più democratici per una modifica dell’impianto costituzionale cui a loro modo tendevano allora i cultori della Costituzione un po’ esagerati che agivano in maniera tanto radicale.

Tuttavia bisogna dar loro atto che, pur nella loro radicalità, costoro erano animati da un principio di rinnovamento dei nostri princìpi istituzionali onde rendere il nostro Paese più agile e al passo con i tempi, maggiore potere concentrato in una sola Istituzione, fusione del potere politico con quello economico, una sana riforma della magistratura (...).

Ci corre tuttavia l’obbligo di specificarVi che la Vostra insistenza nel chiedere chiarimenti si attenuerebbe alquanto se non Vi vedeste come caso isolato ma se aveste l’altruismo di guardarVi intorno, cioè di contestualizzare l’incidente avvenuto nella Vostra città.

L’Italia purtroppo continua a essere un Paese in cui il cittadino guarda al proprio «particolare», come osservò il Guicciardini, il che gli fa perdere il sentimento di appartenere alla comune storia di una comune Nazione, unita e fraterna.

Se i parenti di coloro che ebbero la sfortuna di trovarsi nella Banca dell’Agricoltura a Piazza Fontana di Milano nel 1969, se i parenti di coloro che ebbero la sfortuna di trovarsi nella stazione di Bologna nell’agosto del 1980, se i parenti di coloro che ebbero la sfortuna di imbarcarsi su un airbus che nel 1980 sorvolava il cielo di Ustica (tralascio altri episodi minori), se tutti costoro, dicevo, non hanno ancora avuto il chiarimento che insistono a chiedere da anni, perché mai la città di Brescia dovrebbe avere il privilegio di conoscere ciò che agli altri non è dato di conoscere?

E poi, con quale arroganza potete pensare che la Storia sia un’entità costituita di chiarezza? Non sapete forse che essa è soprattutto oscurità e tenebra, creatura mossa da forze misteriose e inconoscibili dalla limitata mente umana?

La Musa della Storia, gentili Cittadini di Brescia, per gli Antichi era Clio, al contempo Musa della Memoria. Ebbene, abbiate il coraggio di eseguire un’operazione logica molto semplice: cancellate dalla Vostra memoria lo spiacevole incidente che avvenne nella Vostra città ed esso, come per incanto, sparirà anche dalla Storia (...).


Piazza della Loggia, nessun colpevole

Pagano solo i familiari

-  A Brescia assolti Carlo Maria Maggi, Delfo Zorzi, Maurizio Tramonte e il generale dei carabinieri Francesco Delfino.
-  Dopo trentotto anni quella bomba non ha una firma. Ai parenti anche l’onere delle spese processuali

di Oreste Pivetta (l’Unità, 15.04.2012)

Anche Piazza della Loggia finisce nel catalogo delle stragi senza un colpevole. Dopo quattro decenni (esattamente trentotto anni), la giustizia alza bandiera bianca: sarà giunta alla verità, ma non ad una verità che possa dare un volto e un nome agli assassini, che pensarono, organizzarono, che costruirono la bomba e la deposero in un cestino della carta straccia, quella bomba che esplodendo uccise otto cittadini bresciani, ne ferì altri cento, tutti raccolti in quella piazza, la mattina del 28 maggio 1974, insieme con molti altri, proprio per contrastare un’onda di violenze fasciste, di minacce, un’onda che si rialzerà, atrocemente qualche mese dopo, nell’agosto dell’attentato al treno Italicus.

Resta tuttavia, indelebile, la firma di quello e di altri delitti: una firma fascista, nei mesi di maggior debolezza della destra eversiva e delle prime iniziative del governo per mettere fuori causa gli apparati più compromessi dello Stato (è di giugno l’allontanamento del generale Miceli dai vertici del Sid e a settembre Andreotti, ministro della difesa, invia alla magistratura il rapporto informativo dei Servizi sulle trame nere, a partire dal progettato golpe nel 1970 di Junio Valerio Borghese).

Tutti assolti, dunque: il generale dei carabinieri Francesco Delfino; il fascisti di Ordine nuovo Carlo Maria Maggi, il medico di Mestre, e Delfo Zorzi, ormai cittadino giapponese; la spia dei servizi segreti, la fonte Tritone del Sid, lui stesso legato a Ordine nuovo, Maurizio Tramonte. La sentenza è di ieri, letta dieci minuti dopo le undici, dal presidente della Corte d’Assise d’Appello di Brescia, Enzo Platè, che ha pure ringraziato i giudici popolari per l’impegno manifestato durante tutto il processo e nei cinque giorni di camera di consiglio. Non ha dimenticato le parti civili: dovranno rimborsare le spese processuali, perché uno dei ricorsi è stato dichiarato inammissibile. In esecuzione della legge. Walter Veltroni ha proposto che siano i partiti a pagarle.

Tutti assolti, dunque, confermando la sentenza di primo grado un anno e mezzo fa (quando tra gli imputati compariva anche Pino Rauti, innocente pure lui: non sapeva nulla, peccato che a quei tempi fosse ai vertici di Ordine nuovo). In più, di nuovo, la beffa delle spese a carico di amici e familiari delle vittime. Manlio Milani è lo storico portavoce, presidente della loro associazione: «È ridicolo». Ha ricordato come le indagini dei primi giorni siano state inefficaci, come sia stato reticente un uomo dello stato, il generale Delfino. Che allora era comandante del Nucleo investigativo dei carabinieri di Brescia, quindi impegnato nell’inchiesta. Milani ha citato con Delfino anche Pino Rauti, per accusare: «Nel corso di tre anni di processo mai una loro comparsa in aula». Infine la promessa: «Verificheremo l’opportunità di ricorrere in Cassazione».

C’erano ragioni per condannare i quattro? I pm Roberto Di Martino e Francesco Piantoni ne erano convinti e avevano chiesto l’ergastolo. Gli avvocati delle difese, denunciando la totale assenza di prove a carico dei loro assistiti, in un procedimento che conta un milione di pagine agli atti, sono riusciti evidentemente a dimostrare il contrario: come, secondo loro, ad esempio fosse poco credibile il racconto del pentito Carlo Digilio, ex agente della Cia, morto nel 2005 in una casa di riposo nella Bergamasca, colpito da un ictus devastante nel 1995, uno dei padri e degli armieri di Ordine Nuovo, esperto in bombe, o fosse priva di senso la conversazione intercettata e avvenuta tra Roberto Raho e Pietro Battiston, altri due neofascisti, che si confidavano di temere il loro collegamento ai «mestrini», che maneggiavano le bombe e nascondevano gelignite alla trattoria Scalinetto di Venezia, trattoria amatissima da Maggi oltre che da Digilio. Ma non sono state prese in considerazioni neppure le comunicazioni di Tramonte al Sid, con le quali si chiariva la posizione di Maggi e di Zorzi. Altro capitolo riguarda l’esplosivo: contrasti tra i periti, divisi tra gelignite e tritolo.

Il processo, questo come molti altri, si è spento insomma tra le cattive indagini dell’avvio, una trama inesauribile di smentite dopo le ammissioni, un’artefatta confusione di fonti, i depistaggi, la reticenza di chi avrebbe potuto chiarire, altri filoni di inchiesta, altri processi senza esito (ne restò coinvolto uno dei nomi celebri dell’estrema destra bresciana, Ermanno Buzzi, che verrà assassinato nel 1981 in carcere a Novara, in attesa di appello, da Pierluigi Concutelli e da Mario Tuti). La vicenda giudiziaria si è insomma impantanato, lasciando solo amarezza, accanto alla certezza di un senso politico, che può contribuire a una lettura del nostro dopoguerra, ma non può soddisfare la giustizia.

Quel giorno di trentotto anni fa, in piazza della Loggia, morirono Giulietta Banzi Bazoli, Livia Bottardi Milani, Euplo Natali, Luigi Pinto, Bartolomeo Talenti, Alberto Trebeschi, Clementina Calzari Trebeschi e Vittorio Zambarda. Cinque insegnanti, due operai, un pensionato.

La bomba esplose, mentre sul palco stava cominciando a parlare un sindacalista della Cisl, Franco Castrezzati. Il botto fu forte, secco, come di un potente petardo. Dopo un attimo di silenzio, dalla folla che cominciò a ondeggiare, s’alzarono le prime grida di paura, di sgomento. Un altro sindacalista, Giorgio Leali, sollecitò tutti ad avvicinarsi al palco. Furono gli stessi operai del servizio d’ordine a portare soccorso.

Poi arrivarono le ambulanze, arrivarono polizia e carabinieri. Poco prima delle tredici i pompieri lavarono con gli idranti il luogo dell’eccidio. La scena del crimine ripulita: scomparvero tracce che avrebbero potuto orientare le ricerche. L’inizio dell’inchiesta fu disastroso, come ha ripetuto ieri Manlio Milani. Com’era, ad esempio, a Milano, dopo piazza Fontana, quando vennero fatte esplodere le bombe ritrovate alla Banca Commerciale.

L’esito è l’oscuramento della verità. Che quest’ultimo processo potesse finire così era prevedibile, ma è ancora più grave quando la memoria di quegli anni e di quella violenza eversiva si appanna, quando ad esempio anche un film come «Romanzo di una strage», prodotto e diretto probabilmente con la migliore delle intenzioni, per dare nozione ai giovani di ciò che fu la strategia della tensione, finisce con avvolgere nella nebbia delle cospirazioni e dei complotti internazionali una vicenda chiara, nelle sue ragioni e nei suoi caratteri fondamentali, nel suo segno storico e politico.


Chissà chi è stato

Strage di Brescia: tutti assolti. Puniti i familiari delle vittime: condannati a pagare le spese del processo

di Gianni Barbacetto (il Fatto, 15.04.2012)

Questa volta è proprio finita. Il processo per la strage di Brescia (il terzo), arrivato all’appello, era l’ultima occasione per individuare e condannare i responsabili delle stragi italiane degli anni Sessanta e Settanta. Ieri la sentenza ha invece mandato assolti i quattro imputati, seppur con la formula dubitativa (come già in primo grado) delle prove incomplete o contraddittorie. Resta dunque senza colpevoli anche la bomba di Piazza della Loggia, dopo quelle di Piazza Fontana (1969), della Questura di Milano (1973) e di tutte le altre stragi (tranne Bologna, 1980).

A Brescia, la bomba nascosta in un cestino della spazzatura in una piazza affollata, durante una manifestazione antifascista promossa dai sindacati, fece otto morti e 108 feriti. Era la mattina piovosa del 28 maggio 1974.

38 anni dopo

Quasi 38 anni dopo, i giudici della Corte d’assise d’appello, usciti da quattro giorni di camera di consiglio, hanno assolto il medico veneziano Carlo Maria Maggi, capo del gruppo neofascista Ordine nuovo del Triveneto; l’ordinovista Delfo Zorzi, oggi imprenditore in Giappone; l’ex collaboratore del Sid (il servizio segreto militare) Maurizio Tramonte; e l’allora capitano dei carabinieri Francesco Delfino, accusato di aver saputo dei piani della strage imminente e di averli assecondati.

I pm, Roberto di Martino e Francesco Piantoni, avevano chiesto per tutti l’ergastolo. Dopo la lettura della sentenza si sono dichiarati “sereni, perché è stato fatto tutto il possibile”. E hanno aggiunto: “Ormai è una vicenda che va affidata, più che alla giustizia, alla storia”. Dopo il deposito delle motivazioni, la procura di Brescia deciderà se ricorrere in Cassazione.

Il processo terminato ieri era l’esito della terza inchiesta sulla strage. La prima aveva indagato i gruppi neofascisti bresciani, il secondo quelli milanesi, la terza aveva posto l’attenzione sul gruppo veneto di Ordine nuovo. Dopo undici sentenze, l’attentato è ancora senza colpevoli.

Il conto

Gli unici a pagare saranno le parti civili e i parenti delle vittime, condannati a risarcire le spese processuali. “Una beffa”, ha dichiarato a caldo Manlio Milani, presidente dell’Associazione familiari delle vittime. “È ridicolo, permettetemi di dirlo, che in questo processo, che è contro anche due uomini che rappresentavano lo Stato, dobbiamo essere noi a pagare le spese processuali”. I due evocati da Milani sono il generale Delfino e l’ex parlamentare missino Pino Rauti, già fondatore di Ordine nuovo.

Contro Rauti, assolto come gli altri in primo grado, la procura non aveva proposto l’appello, chiesto però dalla Camera del lavoro di Brescia e dal familiare di una vittima, Elvezio Natali. Una domanda avanzata ai soli fini civili: per poter pretendere cioè non la condanna penale, ma almeno il risarcimento dei danni. Ora la sentenza d’assoluzione obbliga Camera del lavoro e Natali a pagare gli avvocati di Rauti.

Delfino, invece, fu uno dei primi a occuparsi dell’inchiesta, subito dopo la strage. “Il risultato di oggi”, dice Milani, “è anche l’esito di come sono state condotte le prime indagini”. Già in primo grado, infatti, era risultato difficile appurare, per esempio, quale fosse l’esplosivo impiegato. Tritolo, secondo una perizia. Gelignite, secondo l’accusa: anche sulla scorta delle dichiarazioni di Carlo Digilio, esperto d’esplosivi, uomo vicino ai servizi segreti statunitensi e agli ordinovisti veneti, il quale affermava di aver visto gelignite nelle mani del gruppo veneto di Carlo Maria Maggi e Delfo Zorzi.

La guerra delle perizie

Il perito sentito durante l’appello ha sostenuto che l’esplosione era compatibile con la presenza di gelignite e ha escluso che nell’ordigno il tritolo fosse esclusivo o prevalente. Evidentemente ai giudici non è bastato. Come non è bastata la riproposizione delle testimonianze di Digilio (ora morto), collaboratore di difficile gestione processuale già in primo grado, dopo essere stato colpito da un ictus.

Difficilissima poi la gestione delle dichiarazioni dell’imputato Maurizio Tramonte. Era lui la “fonte Tritone” dei servizi segreti, che aveva già nel 1974 raccontato al Sid ciò che sapeva della strage. Il servizio si guardò bene dal passare quelle notizie ai magistrati e coprì i responsabili. Poi, negli anni Novanta, “Tritone” era stato individuato dal giudice di Milano Guido Salvini e aveva riempito centinaia di pagine di verbali in cui raccontava le responsabilità del gruppo neofascista Ordine nuovo. In aula, però, aveva ritrattato, smentendo se stesso.

I giudici non hanno ritenuto sufficiente neppure una intercettazione ambientale tra due ordinovisti, il milanese Battiston e il veneto Rao, che parlavano della partenza da Venezia, il giorno prima della strage di Brescia, di una valigia d’esplosivo.

Se si aspetta la storia

Le motivazioni della sentenza spiegheranno perché non si è arrivati all’individuazione certa delle responsabilità penali individuali. Alla storia, come detto dai due pm, resterà il compito di ricostruire i depistaggi e gli inquinamenti delle prove che hanno portato a chiudere anche questa volta un processo di strage senza colpevoli.


La sconfitta infinita

Strage di Brescia. Condannate le vittime

di Gianni Barbacetto (il Fatto 15.04.12)

Si fatica a trovare le parole per ripetere ancora, per l’ennesima volta, che siamo sconfitti. Costretti ad arrenderci di fronte all’impossibilità di arrivare a una verità giudiziaria sulle stragi italiane. La sentenza d’appello sulla bomba di Piazza della Loggia a Brescia era l’ultima occasione, dopo le assoluzioni per Piazza Fontana, per l’attentato alla Questura di Milano del 1973 e per tutte le altre stragi (tranne Bologna): occasione persa.

Di nuovo è arrivata ieri un’assoluzione, seppur con la formula dubitativa delle prove insufficienti o contraddittorie. Sono passati 43 anni dalla madre di tutte le stragi, quella del 12 dicembre 1969 a Milano. E 23 anni dalla caduta del Muro di cui quelle stragi sono figlie. Il mondo è cambiato, eppure non è ancora possibile sapere la verità.

Gli imputati se ne vanno assolti. Condannati a restare orfani della propria memoria sono tutti gli altri, cittadini di uno Stato che non sa fare chiarezza su una stagione chiusa: quella della guerra segreta e senza esclusione di colpi combattuta negli anni Sessanta e Settanta in Italia, terra di confine di un mondo diviso in due blocchi. Impossibile stabilire con certezzaleresponsabilitàpenaliindividuali,dicono le sentenze.

Eppure noi sappiamo. E non è più soltanto l’intuizione al singolare di un intellettuale come Pasolini (“Io so”). È il risultato - storico, se non processuale - di quarant’anni di ricerche, inchieste, indagini e testimonianze, che hanno sedimentato almeno due certezze.

La prima è che le stragi della cosiddetta strategia della tensione sono state materialmente eseguite da gruppi neofascisti. La seconda è che gli apparati dello Stato hanno depistato le indagini e sottratto prove e testimoni, in nome della guerra senza quartiere al comunismo, combattuta con eserciti segreti e segretissimi accordi internazionali. Lo dicono le stesse sentenze (Piazza Fontana, Questura di Milano) che hanno mandato assolti i loro imputati.

Noi sappiamo, dunque. Conosciamo i gruppi allevati per le operazioni sporche, i meccanismi, le strategie, le intossicazioni. Un magistrato che ha a lungo indagato sull’eversione, Libero Mancuso, va ripetendo: “Ci avete sconfitti, ma sappiamo chi siete”.


“Assurdo, dovremo risarcire anche Rauti”

di Elisabetta Reguitti (il Fatto, 14.04.2012)

Ci sono due certezze per i familiari delle vittime della strage di Piazza della Loggia: non c’è nessun colpevole e dovranno pagare le spese processuali. Manlio Milani, presidente della Casa della memoria, non nasconde la sua profonda amarezza.

Gli unici a pagare siete voi.

La legge lo prevede. Ma francamente lo trovo ridicolo, se non altro perché in questo processo sono coinvolti anche due uomini che rappresentavano lo Stato (il parlamentare Pino Rauti, genero di Alemanno, e il generale dei carabinieri Francesco Delfino, al tempo capo del nucleo operativo dei Carabinieri ndr)

Proprio il generale Delfino si occupò dell’inchiesta.

L’esito di oggi è anche il risultato di come sono state condotte le prime indagini. Queste persone non si sono mai fatte vedere in aula negli ultimi tre anni di processo. Dovevano avere il rispetto per il ruolo istituzionale che hanno ricoperto e per le vittime di questa strage.

Alla luce di questa sentenza pensate di rivolgervi alla giustizia europea?

Prima alla Cassazione, perché credo sia un dovere civile arrivare fino in fondo, anche se dobbiamo pagare le spese. Rivolgerci all’Europa sarebbe un gesto di sfiducia nelle istituzioni italiane. Non l’abbiamo mai fatto. Dopo ieri però questo sarà un problema che dovremo porci.

Voi siete promotori di un appello rivolto, tra gli altri, anche al Copasir.

La strage di Brescia, sul fronte giudiziario, è anche peggio di Piazza Fontana. Qui dopo 38 anni non si è arrivati a nessuna verità giudiziaria. Chiediamo che sia data piena attuazione alla legge 124/2007 che regola il segreto di Stato. Non è accettabile che a tutt’oggi manchino i decreti attuativi. Questo disinteresse non è un bel segnale anche dal punto di vista politico. Tra l’altro noi consideriamo del tutto inaccettabile l’ipotesi avanzata dalla commissione Granata nel Copasir di reiterare il segreto di Stato dopo trent’anni.


La ricostruzione

 

Ma dentro le carte c’è la verità storica sulla strategia della tensione

di Carlo Lucarelli (l’Unità, 15.04.2012)

Per Piazza della Loggia come per Piazza Fontana non ci sono responsabili eppure i documenti processuali raccontano protagonisti e dinamiche di quanto accaduto in Italia in quegli anni e i piani segreti per stabilizzare terrorizzando

Ancora una volta, per la strage di piazza della Loggia di Brescia non ci sono colpevoli, anche se per questo genere di processi bisogna aspettare le motivazioni della sentenza perché i procedimenti relativi alle stragi italiane e ai misteri della nostra Repubblica svolgono due tipi di funzioni: la prima, certamente, è quella di individuare e sanzionare i responsabili degli avvenimenti ma la seconda è quella di mettere in fila i fatti per ricostruire una verità, almeno giudiziaria, della storia. Una funzione storica che al tempo stesso è anche etica, morale e politica.

Prendiamo la sentenza per Piazza Fontana: nessuno è finito in carcere e tutti gli imputati sono stati assolti, ma questo non significa che sulla strage consumata a Milano il 12 dicembre del 1969 non ci sia alcuna verità.

Le motivazioni di quella sentenza riportano delle verità stabilite: sappiamo che ad organizzare la strage è stato il movimento neofascista di Ordine Nuovo nella cornice di quella che è stata definita la strategia della tensione, sappiamo che sono stati Giovanni Ventura e Franco Freda che però non si possono più processare e sappiamo anche che i servizi segreti stranieri ne furono informati dopo l’attentato mentre quelli italiani si adoperarono per coprire i responsabili e depistare le indagini. Tutte verità, scritte nelle motivazioni della sentenza, che danno un giudizio politico, morale e storico su quanto avvenuto pur non riuscendo a portare alla condanna di nessuno.

Questo accade anche perché da Portella della Ginestra fino alle stragi che hanno accompagnato la storia dell’Italia repubblicana ci sono state mani molto abili a nascondere la verità, mani che appartenevano allo Stato.

È evidente che questi depistaggi “interni” messi in atto contro chi faticosamente ha cercato di rimettere insieme i pezzi della verità hanno reso molto più complicato il lavoro degli inquirenti, che hanno dovuto fare i conti anche con il tempo trascorso. Tutti i procedimenti sulle stragi, infatti, hanno portato alla sbarra i presunti responsabili soltanto a distanza di decenni, con processi basati il più delle volte su poche prove e ancor meno testimoni.

Ma è un lavoro che comunque va portato avanti per l’importanza che riveste anche nella ricostruzione della memoria dell’Italia di quegli anni. Un Paese in cui le stragi hanno sempre segnato un momento di passaggio quando non addirittura di stabilizzazione di un nuovo stato di fatto. Una forma di rivoluzione gattopardiana: deve cambiare tutto perché nulla cambi davvero. E allora qualche manovalanza criminale viene fatta fuori perché la “dirigenza” possa accordarsi con le nuove leve criminali e tutto resti uguale a parte alcuni dei protagonisti.

Piazza Della Loggia arriva alla fine della strategia della tensione che parte con Piazza Fontana e il cui fine era quello di terrorizzare per stabilizzare utilizzando certe forze politiche e criminali con l’illusione di un golpe. La bomba di Brescia, si è detto, è uno degli ultimi episodi di questa strategia e gli autori, secondo la ricostruzione storica, avevano l’obiettivo da una parte di fermare le riforme allarmando l’elettorato della Democrazia Cristiana col pericolo comunista rappresentato dall’avanzata del Pci, dall’altra di liberarsi di una certa manovalanza neofascista tirandola dentro l’organizzazione dell’attentato.

E su queste vicende la ricostruzione giudiziaria rappresenta una base fondamentale per il lavoro degli storici che hanno indagato sul ruolo e sulle connessioni fra servizi segreti, organizzazioni di estrema destra e criminalità organizzata anche e soprattutto nel tentativo di fare chiarezza e spazzare via alcuni luoghi comuni.

Per molti anni, infatti, in Italia si è ragionato nell’ottica di una contrapposizione fra lo Stato e un supposto “anti-Stato”, intesi come blocchi totalitari e tra loro omogenei. Si parla ad esempio dei servizi segreti da piazza Fontana in avanti come se fossero sempre gli stessi mentre al loro interno hanno visto correnti diverse, come quelle che facevano capo al generale Maletti o al generale Miceli, fenomeni diversi che prendono le mosse da idee, per quanto funzionali e strumentali, molto differenti fra loro facendo riferimento a cordate politiche completamente diverse.

Lo stesso si può dire ad esempio di partiti politici come la Democrazia Cristiana, o fatte le dovute differenze della loggia massonica P2, o - fatte ancora le dovute differenze di Cosa nostra o della Cia o dei servizi inglesi che sono stati così attivi sul territorio italiano dalla seconda guerra mondiale in poi.

La Cia di Kissinger o di Nixon agiva attraverso pesanti ingerenze sulla vita interna degli stati, basti pensare al Vietnam o all’Italia stessa, diversa invece era l’idea che muoveva la Cia ai tempi di Jimmy Carter.

È comunque indubbio che ci siano state persone che facevano parte dello Stato e delle istituzioni che si sono adoperate per la pianificazione e la prosecuzione di una strategia “politica” condotta attraverso il terrore e la violenza per cambiare tutto in modo che nulla cambiasse.

È in questi passaggi di testimone, in questi momenti di transizione e cambio di linea che spesso si sono aperti quei piccoli “buchi” che hanno permesso alla magistratura e agli inquirenti di infilarsi nelle pieghe delle ricostruzioni ufficiali e scavare alla ricerca di una verità, tanto storica quanto processuale.

Sentenze come questa di Piazza della Loggia non devono comunque mai essere pietre tombali sull’argomento ma aprire un dibattito strico e politico sui fatti accertati che continui al di là dell’esito giudiziario e dell’accertamento delle responsabilità. È un obbligo che si deve ai tanti innocenti uccisi o feriti, ai loro parenti e ad un intero paese che ha pagato sulla propria pelle l’esito delle stragi.



Domenica 15 Aprile,2012 Ore: 15:25
 
 
Commenti

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Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 15/4/2012 15.39
Titolo:L’Italia, il Paese delle verità rubate ...
Dossier, tritolo e piani di golpe: il Paese delle verità rubate

di Enrico Fierro (il Fatto, 15.04.2012)

L’Italia è il Paese delle verità rubate. Un Paese che non può, non deve, forse non vuole sapere quali forze, quali interessi, quali oscuri giochi internazionali, hanno avvelenato un ventennio della sua storia. Strategia della tensione, anni di piombo, la minaccia del golpe ogni volta che si affacciava la possibilità di una svolta politica. Anche ieri hanno rubato un pezzo di verità sulla strage di Brescia di 38 anni fa. Otto morti, oltre 100 feriti, l’indimenticabile foto in bianco e nero di un uomo in ginocchio piegato su una bandiera che copre i brandelli di un cadavere. Pochi quelli che si sono indignati finanche per lo sfregio finale ai familiari delle vittime. Avete perso, la legge è legge, avete voluto il processo, vi siete costituiti parte civile nella speranza di ottenere un briciolo di verità. Ora pagate.

Decine di migliaia di euro per una giustizia che dopo quattro decenni sventola la bandiera bianca della resa. Poveri italiani di quest’epoca smemorata, inariditi dall’assenza di un moderno Pasolini. Poeta dei suoi tempi ma con gli occhi e la testa nel futuro. “Io so. Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato "golpe" (e che in realtà è una serie di "golpe" istituitasi a sistema di protezione del potere). Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969. Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974.

Io so i nomi del "vertice" che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di "golpe", sia i neofascisti autori materiali delle prime stragi, sia infine, gli "ignoti" autori materiali delle stragi più recenti... Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli. Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi”. Perché le prove, gli indizi, i processi, non sono materia nella disponibilità di poeti e intellettuali, utili con i loro scritti a suscitare emozioni e aprire menti, ma di polizie e corti di giustizia. Sono loro che devono accertare verità e certificarle con sentenze definitive e inoppugnabili.

L’Italia è l’unico Paese al mondo che per anni, dal 1988 al 2001, ha avuto una Commissione parlamentare di inchiesta sulle stragi. Migliaia di files e volumi con il racconto tragico degli anni neri sono accatastati nei depositi di Palazzo San Macuto, milioni di ore di testimonianze dei protagonisti, ma anche una carrellata di ignobili non so, non ricordo, di omissioni che hanno coperto verità inconfessabili ancora quarant’anni dopo.

Un rosario lunghissimo di sangue, misteri e depistaggi: Peteano, 31 maggio 1972, eccidio dei carabinieri; Treno Italicus, 4 agosto 1974, 12 morti, 105 feriti; Ustica, 27 giugno 1980, 81 morti; Bologna 2 agosto 1980, 85 morti, 200 feriti; bomba al Rapido 904 alla vigilia di Natale del 1984, 15 morti e 267 feriti. Undici stragi ci consegna la cronaca di quegli anni, 150 morti, 652 feriti. Una guerra. Lo storico Aldo Giannuli ha dedicato anni della sua vita di studioso a scavare nei misteri italiani, e ogni volta si è trovato davanti ad archivi, soprattutto quelli dei servizi italiani, sbianchettati, depurati, devitalizzati.

Cosa stava accadendo a ridosso della strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969, e soprattutto cosa doveva accadere dopo? Dopo la bomba, il terrore, l’indignazione, Milano e l’Italia spaccati in due, con i cortei di operai e studenti uniti nella lotta e le maggioranze silenziose pronte a chiedere legge e ordine. Il “golpe”, la sedizione di ambienti militari ed economici, come nella Grecia dei colonnelli. Oppure il pronunciamento militare solo minacciato, alitato sul collo di una classe politica imbelle. Dall’inchiesta del giudice Guido Salvini sono emersi significativi indizi su un colpo di Stato progettato tra il 14 e 15 dicembre 1969, a ridosso della Strage. Giannuli ha riannodato i fili che avvicinano la Strage milanese all’omicidio di Aldo Moro (avvenuto “solo” nove anni dopo), consegnandoci le riflessioni che il leader Dc affida ad uno dei suoi memoriali.

Quando la bomba scoppia a Piazza Fontana, Moro è a Parigi a un vertice europeo. Riceve numerose telefonate da Roma, in una di queste un suo amico gli consiglia, per incarico di dirigenti del Pci, di essere molto prudente nell’organizzare il suo rientro nella Capitale. Qualcosa poteva succedere.

In quegli anni chi cercava di ricostruire la verità finiva male. Sette mesi dopo la strage di Milano viene fatto deragliare il treno “Freccia del Sud” a Gioia Tauro, 6 morti e 54 feriti. Cinque giovani anarchici calabresi in un loro dossier destinato ad arricchire le pagine del libro “Strage di Stato”, collegano la bomba di Milano con quell’attentato. È il 26 settembre 1970, quando la loro auto diretta a Roma viene investita da un camion. Muoiono tutti. Il dossier sparisce. La loro storia è stata quasi dimenticata nel Paese delle verità rubate.
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 16/4/2012 22.12
Titolo:le parole di Moro sulla strage di Brescia ....
- "Strategia della tensione"
- le parole di Moro sulla strage di Brescia

di Miguel Gotor (la Repubblica, 16.04.2012)

Nella primavera 1978 le Brigate rosse sottoposero Aldo Moro a un interrogatorio che riguardò anche la strage di piazza Fontana del 1969 e quella di piazza della Loggia del maggio 1974. Come è noto, il memoriale del prigioniero è giunto a noi incompleto, ma su quegli anni egli formulò un giudizio chiaro utilizzando la categoria di "strategia della tensione". Quel tempo fu «un periodo di autentica ed alta pericolosità con il rischio di una deviazione costituzionale che la vigilanza delle masse popolari fortunatamente non permise». Moro espose i meccanismi e le finalità della strategia della tensione, impostata da servizi stranieri occidentali con propaggini operative in due paesi allora fascisti come la Grecia e la Spagna. Essa aveva potuto godere del contributo dei servizi italiani militari con «il ruolo (preminente) del Sid e quello (pure esistente) delle forze di Polizia», ossia dell’Ufficio Affari riservati diretto da Federico Umberto D’Amato.

Secondo il prigioniero lo scopo era stato quello di realizzare una serie di attentati attribuendoli alla sinistra per destabilizzare l’Italia e poi coprire i veri responsabili con appositi depistaggi: «La c. d. strategia della tensione ebbe la finalità, anche se fortunatamente non conseguì il suo obiettivo, di rimettere l’Italia nei binari della "normalità" dopo le vicende del ’68 ed il cosiddetto autunno caldo», anche se Moro trascurava il varo nel giugno 1972 del governo centrista Andreotti-Malagodi, dopo l’attentato di Peteano per cui è reo confesso il neofascista Vincenzo Vinciguerra. Secondo l’ostaggio i servizi segreti italiani non diedero vita a deviazioni occasionali, ma a un’opera sistematica di inquinamento per «bloccare certi sviluppi politici che si erano fatti evidenti a partire dall’autunno caldo e di ricondurre le cose, attraverso il morso della paura, ad una gestione moderata del potere».

Egli fece riferimento all’azione di "strateghi della tensione", senza però offrirne un ritratto esplicito, e si espresse duramente nei riguardi della Democrazia cristiana: «Bisogna dire che, anche se con chiaroscuri non ben definiti, mancò alla D. C. di allora ed ai suoi uomini più responsabili sia sul piano politico sia sul piano amministrativo un atteggiamento talmente lontano da connivenze e tolleranze da mettere il Partito al di sopra di ogni sospetto». E ancora: «se vi furono settori del Partito immuni da ogni accusa (es. On. Salvi) vi furono però settori, ambienti, organi che non si collocarono di fronte a questo fenomeno con la necessaria limpidezza e fermezza».

L’attenzione di Moro si focalizzava su Giulio Andreotti, il quale aveva «mantenuto non pochi legami, militari e diplomatici, con gli Americani dal tempo in cui aveva lungamente gestito il Ministero della Difesa entro il 68». In particolare con la Cia, «tanto che poté essere informato di rapporti confidenziali fatti dagli organi italiani a quelli americani». Moro ripeteva, per ben undici volte, il nome del giornalista neofascista Guido Giannettini, incriminato nel 1973 per la strage di piazza Fontana da cui sarà assolto, sottolineando l’importanza di un’intervista che Andreotti aveva concesso a Il Mondo nel giugno 1974, all’indomani della strage di Brescia, in cui aveva rivelato che Giannettini era in realtà un agente del Sid infiltrato in Ordine nuovo.

È come se Moro avesse voluto alludere a una pregressa consapevolezza di Andreotti ("uomo abile e spregiudicato") riguardo alle azioni messe in campo da quegli ambienti, da cui aveva deciso improvvisamente di prendere le distanze («un primo atto liberatorio fatto dall’On. Andreotti di ogni inquinamento del Sid, di una probabile risposta a qualche cosa di precedente, di un elemento di un intreccio certo più complicato»).

Tale ricostruzione sarà confermata nell’agosto 2000 da Gianadelio Maletti, il responsabile dell’ufficio D del Sid dal 1971 al 1975, condannato per avere agevolato la fuga di Giannettini all’estero, il quale, in un’intervista a Daniele Mastrogiacomo per questo giornale, dichiarò «La Cia voleva creare attraverso la rinascita di un nazionalismo esasperato e con il contributo dell’estrema destra, Ordine nuovo in particolare, l’arresto del generale scivolamento verso sinistra. Questo è il presupposto di base della strategia della tensione». In che modo? «Lasciando fare», e Andreotti «era molto interessato. Soprattutto del terrorismo di destra e dei tentativi di golpe in Italia».

È significativo notare che Pier Paolo Pasolini nel novembre 1974, ossia pochi mesi dopo la strage di Brescia e l’intervista dell’allora ministro della Difesa Andreotti che scaricava l’agente dei servizi militari Giannettini, scrisse sul Corriere della Sera l’articolo Cos’è questo golpe? Io so, in cui individuava l’esistenza di due diverse fasi della strategia della tensione: la prima, con la strage di piazza Fontana, anticomunista, funzionale a chiudere con l’esperienza dei governi di centro-sinistra e ad arginare l’ascesa del Pci; la seconda, con le bombe di Brescia, antifascista, ossia utilizzata per bruciare quanti ancora erano impegnati a creare le condizioni di un golpe nero e di una soluzione militare in Italia, esattamente come fatto da Andreotti con Giannettini: «Io so i nomi di coloro che, tra una Messa e l’altra, hanno dato le disposizioni e assicurato la protezione politica a vecchi generali (per tenere in piedi, di riserva, l’organizzazione di un potenziale colpo di Stato), a giovani neo-fascisti, anzi neonazisti (per creare in concreto la tensione anticomunista) e infine criminali comuni, fino a questo momento, e forse per sempre, senza nome (per creare la successiva tensione antifascista) ». Forse per sempre senza nome. Così scriveva un anno prima di essere ucciso il poeta che ebbe l’ardire di farsi storico del suo presente: l’ultima profezia, come ribadisce la sentenza dell’altro ieri sulla strage di Brescia.

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