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www.ildialogo.org Miseria e grandezza del Novecento,di Raniero La Valle

Miseria e grandezza del Novecento

di Raniero La Valle

Adista Segni Nuovi n. 2 del 07/01/2012


“Grandezza e miseria del diritto della Chiesa” è il tema e il titolo della prolusione che Giuseppe Dossetti tenne nel 1951 all’Università di Modena. In quella prolusione, come egli stesso dirà, volle esprimere, riprendendo una parola di Pascal, la sua concezione problematica del diritto canonico. È evidente che nel senso indicato da Dossetti la stessa antitesi si può applicare alla Chiesa: miseria e grandezza della Chiesa. Miseria e grandezza sono in effetti i due termini di un giudizio che si può applicare a tutte le cose umane, con l’importante avvertenza che la miseria non è mai solo miseria, e la grandezza è sempre limitata e ferita, inadeguata a produrre davvero ciò che promette. [...]

È a cavallo della metà del secolo, tra il 1938 e il 1965 che si gioca la partita decisiva tra la miseria e la grandezza del Novecento e, meraviglia, questa partita si risolve con la grandezza che giudica la miseria, la grandezza che vince la miseria, la grandezza che trascende la miseria e si pone come germe di svolgimenti nuovi; ciò avviene a partire dallo storico incontro dell’Onu nel 1945 a San Francisco, passa attraverso la Costituente in Italia e le altre Costituzioni postbelliche, e giunge poi fino alla grande profezia del Concilio.

Si produce quindi una svolta: tra il ‘38 e il ‘45 la miseria aveva raggiunto il suo apice, con il nazifascismo, la guerra, il razzismo e i campi di sterminio; ed ecco che fra il ‘45 e il ‘48 la grandezza prende la sua vittoria, sul piano politico, giuridico e antropologico, con l’abbattimento dei poteri assoluti, con il ripudio della guerra, con l’affermazione dell’eguaglianza e della dignità per natura di tutti gli esseri umani, senza discriminazione né eccezione alcuna, e si elaborano le dottrine che riconoscono queste cose come necessarie e possibili.

Non era affatto facile che ciò avvenisse, perché sempre il mondo aveva pensato il contrario, aveva fatto il contrario. Guerra, arbitrio del potere e disuguaglianza avevano fino ad allora accompagnato tutto lo sviluppo umano, e anche ai livelli più alti della filosofia, del diritto e perfino del pensiero religioso, quei mali erano stati teorizzati come dati di natura, come fattori necessari, indelebili e dominanti della storia umana. [...]

Questi tre cicli della storia umana, il ciclo della guerra, il ciclo dell’assolutismo e il ciclo della disuguaglianza, giungevano nel Novecento ai loro esiti estremi; oltre non si poteva andare. Ma come chiudere questi cicli, come rovesciarne la logica per inventare un mondo diverso? Attraverso quale conversione, con quali risorse ciò poteva avvenire? Ciò poté avvenire perché l’umanità intera era passata attraverso la grande tribolazione. La morte e la vita si erano scontrate in uno stupefacente duello. La prima aveva mietuto 50 milioni di morti solo nell’Unione sovietica, aveva sterminato 6 milioni di ebrei, mezzo milione di zingari, aveva ucciso preti, bambini e partigiani, aveva insanguinato chiese e cimiteri, aveva distrutto le città europee, da Dresda a Coventry a Napoli, ed era giunta fino all’accensione del fuoco atomico; la seconda, la vita, aveva messo in campo straordinarie risorse di dedizione, di amore e di sacrificio, aveva tenuto chiusa la bocca dei torturati, perché non svelassero nomi agli aguzzini, aveva salvato ebrei e nascosto prigionieri evasi, aveva stabilito tra uomini e donne nella resistenza una inedita comunione tra eguali. Parlando della genesi della Costituzione, Dossetti richiamava «l’evento globale della guerra testé finita», ricordava le «decine di milioni di morti, i mutamenti radicali della mappa del mondo» e gli altri eventi che avevano creato «una nuova realtà storica globale a scala mondiale»; si era trattato di un «crogiuolo ardente e universale», che addirittura aveva impresso nella Costituzione italiana «uno spirito universale, e in un certo modo, trans-temporale».

È appunto in questo crogiuolo ardente che le vecchie dottrine, le vecchie politiche e le vecchie antropologie erano state provate col fuoco, ed erano state rovesciate nel ripudio della guerra, nella ricusazione dei poteri sovrani e assoluti, nella supremazia delle Costituzioni sui Parlamenti e sulle leggi e nell’affermazione dell’eguaglianza. Ma se ciò era stato possibile, lo era stato perché non c’era stato solo il dolore. Il dolore, da solo, non basta; non c’è nel dolore alcuna produzione automatica del bene.

Era accaduto che l’umanità non aveva voluto solo allontanare ed archiviare in fretta quel dolore, metabolizzando le violenze e dimenticando le vittime, come aveva fatto altre innumerevoli volte, che si trattasse dello sterminio degli indios o delle stragi delle guerre di religione o del genocidio degli armeni, tutte cose che erano state ben presto rimosse. Questa volta l’umanità tratteneva il dolore, lo trasformava in memoria, e di questa memoria faceva una memoria passionis, una memoria delle vittime. [...]

La giustizia fatta alle vittime non consiste però nel fatto che esse siano vendicate, questo non si può chiedere a Dio, consiste nel restituire gli ideali e le speranze per cui esse furono uccise. Se si leggono le lettere dei condannati a morte della Resistenza, si vede per che cosa morivano: la libertà, il diritto, la pace, la vita degli altri, il bene delle famiglie che restavano. Perciò la Costituzione, il ripudio della guerra, l’invocata fraternità tra gli uomini rendevano giustizia alle vittime della Resistenza e della guerra. Questo è stato lo snodo fondamentale tra la miseria e la grandezza del Novecento; e anche Giorgio La Pira, uno dei professorini della Chiesa nuova, vedrà negli eventi del secolo il «crinale apocalittico della storia».

Dossetti ha contemplato e vissuto la miseria del suo Novecento, ed ha concorso a promuoverne la grandezza, in profonda comunione con tutta la storia, come la sua vita è sempre stata. In quel decennio cruciale, tra il ‘38 e il ‘48, Dossetti diede il meglio di sé, sia nella costruzione della sua personalità interiore, sia nel lavoro scientifico, sia, soprattutto, nell’attività sociale e politica; in questa, sempre più incalzante, si dedicò al soccorso delle vittime, alla liberazione dell’Italia, anche attraverso la lotta armata (non usò le armi, ma era il capo di uomini armati, del Cln di Reggio Emilia); si spese poi per l’invenzione di nuovi modelli di società e di civitas humana, per la Costituente, per la realizzazione di una democrazia di popolo capace di risposte all’attesa della “povera gente”. Insomma fece tutto perché la miseria non prevalesse. E questo egli fece all’interno di una radicale, prioritaria, imperiosa vocazione soprannaturale e consacrazione religiosa, tanto esigente da fargli apparire che quell’impegno, da lui pur così generosamente profuso nelle realtà naturali e negli affetti umani, fosse in contrasto e quasi un’infedeltà a quell’unica vocazione. [...]

Questa esperienza critica di Dossetti che, mentre era tutto dedito al bene della città terrena, era turbato dall’idea che si stesse distraendo da Dio, ci introduce allo scenario di un’altra inaspettata e definitiva grandezza del secolo, quella del Concilio Vaticano II. Perché se in una delle espressioni più alte della spiritualità cattolica del tempo, come era senza dubbio quella di un uomo come Dossetti, il rapporto della fede con le realtà naturali e del cristiano col mondo aveva potuto essere così tormentato fino a essere declinato in termini di “olocausto”, vuol dire che qualche problema c’era per la Chiesa della spiritualità postridentina e preconciliare; perché probabilmente quella spiritualità che, praticata allo stato puro, raggiungeva in Dossetti il suo apice, rischiava di essere fuorviante ai livelli meno elevati e di non poter essere più proponibile alla generalità dei credenti.

Il Concilio risponde a questo problema. Si può dire anzi che papa Giovanni, volendolo “pastorale”, l’aveva convocato per questo. Dossetti si dedica al Concilio interamente, e questa volta senza riserve e divisioni interiori, e il Concilio risponde al problema di quale debba essere il rapporto del cristiano col mondo. [...] Il Concilio ristabilisce l’unità interiore dei credenti, non solo opera una conciliazione tra Chiesa e mondo, ma tra Creatore e creature; il mondo dell’uomo è un luogo buono in cui stare perché Dio lo ha concepito, non l’ha abbandonato nemmeno dopo la caduta del peccato, non indugia sulla sua miseria, ed è venuto ad abitarlo con il Figlio e con lo Spirito.

Dossetti è molto contento di questa larghezza di cuore della Chiesa del Concilio; è molto contento della riaffermazione della dottrina trinitaria, che secondo lui non si era più vista dopo i primi quattro Concilii e che comporta una ripresa forte del tema dell’incarnazione, e perciò della salvezza delle realtà terrene. E nel 1994, parlando allo Studio teologico di Reggio Emilia, mette il Vaticano II in asse con gli avvenimenti del 1945 e lo connette, attraverso un arco di 13 anni, ai due roghi atomici di Hiroshima e di Nagasaki. Ricollegando il Concilio al crogiuolo ardente della guerra, Dossetti lo colloca nella storia del Novecento, e ne fa in qualche modo il momento terminale del suo rovesciamento da miseria a grandezza.

Dunque nel Novecento c’è il fuoco della guerra e c’è il fuoco di Hiroshima; ma c’è anche un terzo fuoco, che è il roveto ardente del Concilio. Il passaggio dalla miseria alla grandezza del Novecento passa attraverso questi fuochi che lo mettono alla prova: il primo, tutto laico e civile, è il crogiuolo ardente e universale della guerra che distrugge le scorie del passato e innesca la rivoluzione politica e giuridica; il secondo, questo sì apocalittico, è il fungo che annuncia la distruzione finale se il mondo non si convertirà; il terzo, ecclesiale e divino, è il roveto ardente del Concilio che brucia senza distruggere e che rinnova al mondo la rivelazione del nome di Dio, e gli offre il linguaggio nuovo in cui declinarlo. Allo stesso modo nel roveto ardente di Mosè il Dio liberatore aveva lasciato cadere il vecchio nome comune con cui lo si chiamava e rivelato il suo nome proprio Jhwh.

Era stato Arturo Carlo Jemolo, professore di Dossetti a Bologna, che aveva parlato di «roveto ardente» facendo la storia del Novecento. Ci sono dei rari momenti nella vita dei popoli, aveva scritto nel 1938, in cui questi sentono «alitare il soffio del roveto ardente» e «di un balzo possono sfiorare la vetta della giustizia». Ma quando gli anni del roveto ardente arrivarono davvero, tra il 1945 e il 1948, secondo Jemolo andarono perduti, perché De Gasperi, con la sua avara politica, ne aveva «spento il soffio». Sarà dunque solo nel Concilio che quel roveto ardente divamperà davvero, promuovendo una più alta giustizia e facendo giungere il Novecento all’apice della sua grandezza.

Però il Novecento non è finito così. Dopo le frustrate speranze del ‘68, nell’ultima parte del secolo questa grandezza sarà in gran parte perduta. La guerra sarà richiamata in servizio, la Costituzione sarà sotto attacco, l’eguaglianza tra gli uomini sarà rotta nella istituzione di un doppio diritto, per gli americani e per i non americani, per i comunitari e gli extracomunitari, per i cittadini e per gli immigrati, e anche il Concilio sarà rimesso in causa, sia da quelli che lo difendono in quanto non avrebbe cambiato nulla, sia da quelli che lo attaccano in quanto avrebbe rotto la tradizione.

Giuseppe Alberigo, la scuola di Bologna, pensarono per tempo, con la loro storia del Concilio, ad ammassare le fascine che permettessero al fuoco di non spegnersi e rendessero più difficile ai normalizzatori di spegnerne il soffio. Dossetti dal silenzio del deserto scese nella città per salvare la Costituzione. Rivendicando il Concilio e la Costituzione, per trasmettere alle nuove generazioni le grandezze del Novecento, Dossetti concluse la sua vita nell’unità ormai riconciliata di un’azione pienamente religiosa e pienamente politica. E anzi questa sua ultima azione politica, che è apparsa come uno strappo rispetto alla sua vita consacrata, proprio questa, a differenza delle altre, almeno per come io l’ho vista, è stata fatta non controvoglia, senza complessi di colpa, non per obbedienza a un superiore ma anzi contro il parere del suo direttore spirituale, non per una congiura delle circostanze, ma con lucida scelta e dedizione del cuore, senza alcun sospetto che si trattasse di un tempo sottratto a Dio o che fosse un tradimento del suo vero dovere.

Così dunque il Novecento ha cambiato la storia, e le generazioni postnovecentesche dovrebbero saperlo. Ma chi glielo dice alle nuove generazioni? Almeno dovrebbero sapere che il mercato non è tutto e che il pareggio di bilancio non è un dogma di fede. Se l’economia di mercato fosse stata fuori della portata delle decisioni politiche, Dossetti non avrebbe potuto fare quel discorso ai giuristi cattolici nel ‘51, e su Cronache sociali non si sarebbero potute discutere e criticare le ricette di Einaudi e di Pella, non si sarebbe potuto negare che il problema fosse solo nel controllo del credito e nella difesa della lira, e non si sarebbero rivendicate politiche di intervento e di spesa. A Dossetti, a Fanfani, a La Pira, a Glisenti, a Federico Caffè, a Novacco, a Massaccesi, che scrivevano su Cronache Sociali, era ben chiaro che si doveva uscire dal cerchio magico di un “dogmatismo liberale” e dal mito di un automatico funzionamento del meccanismo di mercato, così come dall’abbaglio della «deflazione benefica e risanatrice»; essi scrivevano che non è solo col bilancio in pareggio «che si occupano le migliaia di braccia inerti, che si dà la vita al Paese, che si muovono le energie, si moltiplica il reddito, si utilizzano i sussidi esteri, si diffonde il benessere» e si risponde alla domanda e ai bisogni dei poveri.

E così le generazioni di oggi almeno dovrebbero sapere che nel Novecento a tutti gli uomini e le donne è stato proposto un nuovo annuncio di fede, con una nuova narrazione e un nuovo linguaggio, e che anche l’annunciatore, cioè la Chiesa, è cambiato, come ha scritto Karl Rahner; c’è stata nel Novecento una straordinaria teofania di un Dio personale che con infinita tenerezza è tornato a parlare ai suoi figli nel Figlio, è tornato a reclamare un rapporto con ciascuno, dentro e fuori le religioni e le Chiese.

Dicono le inchieste che le prossime generazioni non sapranno più nemmeno chi sia questo Dio, mentre nuove culture e nuovi teologi si affannano a spiegare che non può esserci un Dio personale, che Dio consiste in una potenza neutra dell’essere energia, che la divinità sarebbe una forza vitale astratta, una idea regolatrice, una pura dimensione dell’essere, un brivido di trascendenza interno e non esterno a ciascuno; una specie di ectoplasma che sarà pure il grembo dell’esistenza, ma è senza nome, senza volto e senza parole di vita. Forse la Chiesa dovrebbe accorgersi che il Novecento, col suo Concilio, le ha offerto l’ultima possibilità di narrare agli uomini il Dio di Gesù Cristo.

* Giornalista, scrittore, presidente dei Comitati Dossetti per la Costituzione, ha appena pubblicato “Quel nostro Novecento” (Ponte alle Grazie). L’articolo riproduce parte dell’intervento tenuto da La Valle al convegno
“Giuseppe Dossetti per la Chiesa e per il mondo di oggi” (Monteveglio, 17 dicembre 2011)

Articolo tratto da
ADISTA
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Marted́ 03 Gennaio,2012 Ore: 18:21
 
 
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