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ISSN 2420-997X

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www.ildialogo.org SIRIA<br>PALMIRA, LA VENEZIA DEL DESERTO<br>FECE TREMARE ROMA,di Daniela Zini

SIRIA
PALMIRA, LA VENEZIA DEL DESERTO
FECE TREMARE ROMA

di Daniela Zini

“…né cristiano né pagano, saracino o tartero, né niuno huomo di niuna generazione non vide né cercò tante meravigliose cose del mondo come fece messer Marco Polo.”

UNA VIAGGIATRICE EUROPEA

ALL’ALBA DI UN NUOVO MILLENNIO

SULLE STRADE CHE VIDERO GENGIS KHAN E MARCO POLO

Viaggiare per diventare senza patria.”

Henri Michaux

 

Agli asini e ai muli, senza i quali nulla di tutto ciò sarebbe accaduto.

La mondializzazione ha modificato il rapporto con il tempo e con lo spazio.

Le evoluzioni tecnologiche, economiche, politiche hanno provocato, moltiplicato le relazioni tra le persone, le culture.

Ma se le genti si incrociano sempre più, possiamo dire che si incontrano?

La paura dell’Altro, alimentata dall’ignoranza, nutre il razzismo. Vivere con i propri simili rassicura, ma i comunitarismi chiudono, inquietano.

È una banalità affermare che l’incontro con l’Altro permetta l’incontro con noi stessi. È identificando l’Altro che identifichiamo noi stessi.

Chi viaggia senza incontrare l’Altro non viaggia, si sposta.

Diverse ragioni mi legano all’Asia e, negli anni, mi sono specializzata nei territori legati anche a Marco Polo.

Così è nata l’idea di questo viaggio.

 

SIRIA

PALMIRA, LA VENEZIA DEL DESERTO

FECE TREMARE ROMA

Dalla sua scoperta, alla fine del XVII secolo, da parte di mercanti britannici venuti da Aleppo, e, soprattutto, con la decifrazione della lingua palmirene da parte dell’abate Barthélemy, Palmira si impone alle immaginazioni come una città favolosa, le cui rovine maestose si elevano in mezzo al deserto come un miraggio o un enigma. Ma questo enigma ha, da lungo tempo, cessato di esserlo, da quando studiosi francesi, tedeschi, polacchi e, infine, siriani hanno condotto scavi, studi architettonici, ricerche epigrafiche, di cui innumerevoli pubblicazioni scientifiche rendono conto.

A lungo il mistero ha aleggiato sulle città inghiottite dal deserto. Alimentava l’immaginario dei beduini, che le popolavano di jin e di altri demoni, e faceva sognare gli occidentali di palazzi incantati che conservavano, sepolti sotto la sabbia, la memoria del lusso languido dell’Oriente. Nonostante il passaggio di Jean-Baptiste Tavernier, nel 1630, non fu che nel XVIII secolo, esattamente il 14 marzo 1751, che gli esploratori inglesi Robert Wood e James Dawkins portarono la prova che le rovine incluse nella modesta città di Tadmor erano, in effetti, quelle di Palmira. La loro pubblicazione, nel 1753, delle Ruines de Palmyre, altrimenti chiamata Tadmor, nel deserto, rivelò al pubblico la realtà di questa città favolosa e permise all’abate Barthélemy di decifrare in due giorni l’alfabeto palmireno. Da allora le scoperte si sono moltiplicate; sovrani e popoli, fino ad allora confinati nella leggenda, stavano prendendo dimensione storica.

La Siria entrava nel mondo dell’archeologia dalla porta principale.

All’inizio di questo millennio, la magia di Palmira resta intatta.

Pazientemente gli archeologi hanno rimosso migliaia di tonnellate di sabbia e raddrizzato le immense colonne sormontate da capitelli dallo stile esuberante e, tuttavia, così elegante.

Il villaggio, accovacciato all’interno stesso della cinta sacra del tempio di Bel, è stato spostato.

Al di là della meraviglia davanti allo splendore della città, si erge per il viaggiatore attento la civiltà di Palmira, originale benché ricca di mutui alle culture ellenica e romana, che ha, egualmente, integrato l’apporto degli Arsacidi, che dominavano, all’epoca, la Persia. La magnificenza della città è ancora, oggi, presente nella esuberanza maestosa dei colonnati e nella ricchezza dei templi, dedicati alle divinità più diverse, e si comprende, allora, come, sotto l’egida della regina Zenobia, Palmira osasse sfidare l’onnipotenza dell’impero romano.

Cola sangue che non s’arresta

Inchiostro della Genesi
Inaugurato da Caino.
Come ha ben visto Caino,
Non ha percorso lo smarrimento
Non ha vissuto l’esilio.

Ed ecco il tempo
Trascinato dal sole suo padre, cinto da catene,
Da ruote che solcano la terra,
Mentre lo spazio è una lanterna spenta.

Non avete, forse, parlato, voi cose silenziose?
Succhiando al seno della passione.
Mistero guidato dal fuoco.
Fuoco alimentato dal mistero.
Mentre la luce non cessa di piangere,
Piange la ragione del globo,
Dolendosi per le stirpi dell’esilio.

In esilio nascono le profezie.
Ma com’è facile mettere il cappello di un profeta
Sulla testa di un impostore,
Com’è facile mettere il cappello di un impostore
Sulla testa della storia.

Tempo
Immenso crepuscolo di teste umane.

Adonis

 

In un’epoca in cui tutto si accelera e gli istanti si succedono nel caos di un’accozzaglia di informazioni, sempre più densa; in un’era governata da quella che Gilles Finchelstein definisce la dittatura dell’urgenza (Gilles Finchelstein, La dictature de l’urgence), i numeri perdono il loro significato e i drammi passano, talvolta, come banalità annegate nel gorgo dello scoop e del sensazionale. La morte si banalizza, gli enjeux si oscurano.

L’informazione non ha più, sembra, che la gravità della sua freschezza.

Culte de l’instant et culte de la vitesse,”, 

ci dice Finchelstein,

ici, instant du scoop qu’on oublie dès le lendemain, vitesse d’une information qui ne se hiérarchise plus dans l’esprit de spectateurs qu’elle étouffe. ” 

La nuova vittima di questo piccolo dramma delle nostre società moderne, è, senza dubbio, la Siria. L’interesse portato al massacro di innocenti, perfino di bambini, capaci solo di protestare contro un regime tirannico, è derisorio.

La tragedia siriana rivela un’altra tragedia, ben anteriore, ma che ravviva di una luce cruda: quella della banalizzazione dell’orrore nei nostri animi, banalizzazione che taglia corto a ogni indignazione e fa così correre il rischio di uno scivolamento verso il “coperto” dai silenzi.

Il Medio Oriente, diaframma tra il mondo occidentale e il mondo asiatico, ha, sempre, avuto nella Siria il suo centro di equilibrio. Confinante a nord con la Turchia, a est con l’Iraq, a sud con la Giordania, a ovest con Israele e il Libano, questo Paese di oltre 22 milioni di abitanti, sparsi su una superficie di 185.180 chilometri quadrati, pari a oltre la metà dell’Italia, è stata terra di conquista fino dall’antichità.

Vediamone, in breve, le tappe.

Duemila anni prima di Cristo la Siria è spartita tra gli Ittiti a nord e gli Egizi a sud.

Mille anni dopo è provincia assira, fino a quando, nel 509 a.C., i principi siriani si ribellano agli assiri.

La libertà dura poco.

Dopo la battaglia di Isso (333 a.C.) cade sotto il dominio di Alessandro Magno e, quindi, del suo satrapo Seleuco, che inaugura una dinastia di sei re, i Seleucidi.

Sotto i Romani, la Siria è abbellita da Adriano, vede nascere le glorie di Palmira e di Bosra. Ma raggiunge il suo maggiore splendore con gli arabi, calati, nel 635 d.C., e la dinastia degli Omayyadi, che trasferiscono a Damasco la capitale dell’impero.

Con l’anno 1000 arrivano i Crociati, quindi, i Mamelucchi, poi, i Mongoli.

Nel 1400, le orde di Tamerlano mettono a ferro e fuoco Aleppo e Damasco, finché nel Cinquecento cala sulla Siria la lunga notte dell’impero ottomano.

Il giogo turco dura cinque secoli.

Bisogna attendere la sconfitta della Turchia, alleata agli imperi centrali, nella prima guerra mondiale, perché la Società delle Nazioni assegni alla Francia, nel 1922, il protettorato sulla Siria.

I movimenti nazionalisti siriani hanno ora un altro bersaglio. La rivolta antifrancese parte dal Gebel Druso, ma è subito spenta. In cambio, la Francia si impegna a concedere l’indipendenza, entro il 1940.

La Siria ottiene l’indipendenza, nel 1941, ma le truppe francesi e britanniche non lasciano il Paese che, dopo la guerra, nel 1946.

Il nuovo Stato viene alla luce in condizioni difficili. Priva di un’adeguata classe dirigente, senza industrie, con un’economia arretrata e un popolo di pastori musulmani ancora divisi in sette religiose, la Siria assiste a una serie di colpi di Stato effettuati dai militari, gli unici che detengono un effettivo potere.

Incrollabile resta, però, la sua diffidenza verso l’Europa e la simpatia verso l’Unione Sovietica, che non tarda a inviare aiuti, armi e tecnici al nuovo Stato.

Il primo febbraio 1958, la Siria proclama la sua fusione con l’Egitto.

Presidente della Repubblica Araba Unita (R.A.U.) è Gamal ‘Abd al-Nasser, il quale, sfruttando il comune odio per Israele e il sincero anelito popolare all’unità del mondo islamico, spera di attrarre a sé gli altri Stati arabi.

Il sogno di Nasser è di breve durata.

Il basso livello di vita dell’Egitto, che veniva a gravare sulle migliori condizioni dei siriani, e una continua sopraffazione amministrativa sulla Siria, scavano il solco tra le repubbliche sorelle.

Nel settembre del 1961, la Siria esce, clamorosamente dalla R.A.U. Tuttavia, il nasserismo ha fatto proseliti anche tra gli stessi generali, un tempo gelosi custodi dell’autonomia nazionale.

Dal 1970, la vita politica siriana è dominata dal presidente Hafiz al-Assad e dal Fronte Nazionale Progressista (Jabha al-Taqaddumi al-Watani), una coalizione di partiti, guidata dal partito Ba’th.

L’intervento in Libano, che inizia, intorno alla metà degli anni 1970, e la repressione degli estremisti musulmani segnano i mandati di al-Assad. Misure liberali sul piano economico e un avvicinamento all’Occidente si fanno, anche, sotto la sua presidenza.

Il decesso di Hafiz al-Assad, nel 2000, è seguito dall’ascesa al potere di suo figlio Bashar al-Assad. Culto della personalità, supersorveglianza della società, divieto di ogni opposizione: la Siria che gli lascia suo padre ha tutto di una dittatura, lo testimonia il massacro di Hama, nel 1982, che vede la morte di decine di migliaia di siriani e la distruzione di un terzo della città dagli innumerevoli capolavori architettonici. Per conservare il potere, Hafiz al-Asad ha saputo dissipare il proprio patrimonio e uccidere il suo stesso popolo, in un silenzio colpevole, già allora, dei media occidentali. 

Non sono Gilgamesh e nemmeno Ulisse,
N
on dall’Oriente, dove il tempo è una miniera di polvere,
N
é dall’Occidente dove il tempo è ferro arrugginito.
Ma dove vado? E cosa farò se dicessi:
“La poesia è il mio Paese e l’Amore il mio cammino”
Così risiedo viaggiando,
S
colpendo la mia geografia con lo scalpello dello smarrimento.
Ed ecco la luce!
Non corre più nei passi dei bambini,
A
llora perché il Sole ripete il suo volto?
Non scenderai tu pioggia
P
er lavare questa volta l’utero della Terra?
La notte,
L
ampi, i tessuti del tempo
B
ruciano,
L
a verità si vela,
L
a Terra.
Sognami e dì:
“Ovunque io vada, vedrò una poesia abbracciarmi”
Sognami.
Veramente.
E dì allora:
“In ogni poesia vedrò una dimora per me.”
Adonis

di

Daniela Zini

... Palmira è una nobile città per il sito in cui si trova, per le ricchezze del suolo, per la piacevolezza delle sue acque. Da ogni lato distese di sabbia circondano i suoi campi, ed ella è come isolata dal mondo per opera della natura. Godendo di una sorte privilegiata tra i due maggiori imperi, quello dei Romani e quello dei Parti, ella viene sollecitata dall'uno e dall'altro, quando si scatenano le discordie...”

Plinio il Vecchio, Naturalis Historia

Il Vicino Oriente fu una regione ideale per lo sviluppo degli scambi tra Est e Ovest, tra Mesopotamia ed Egitto. Il deserto arabico non costituiva ostacolo; infatti, il deserto, come il mare, non divide soltanto, ma congiunge, poiché da ogni parte è un passaggio aperto al commercio e ha, perfino, creato il mezzo di trasporto atto al suo commercio: “la nave del deserto”, il cammello. Dal primo sviluppo delle civiltà dei grandi fiumi, da ogni parte, presero a viaggiare carovane verso la Babilonia e l’Egitto; sulle orme degli arabi seguirono colonne di cammelli, villose bestie a due gobbe, fratelli settentrionali degli eleganti dromedari dell’Arabia a un gobba sola, portando mercanzie dalle montagne dell’Iran. Dal nord, dalla Siria e dall’Asia Minore, file di asini gravati di some muovevano verso le valli dell’Eufrate e del Tigri, mentre salpavano le prime navi. Erano mercanzie di lusso e di prima necessità, pietre e legname, rame, oro argento, avorio e legni rari, pietre preziose, perle e incenso, profumi, cosmetici, spezie.

Le strade carovaniere dell’impero persiano crearono le città che sono, ancora, in gran parte, vive, oggi, come Damasco o Aleppo, ma queste per il fatto stesso della loro continuità di vita, non sono archeologicamente esplorabili. Altre città carovaniere antiche, di periodo più recente, caratteristiche per la loro cultura ellenistica e romana come Seleucia sul Tigri, Dura sull’Eufrate e Palmira nel cuore del deserto della Siria, sono state, invece, scavate su larga scala. Mentre Seleucia crebbe quale combinazione di una città carovaniera e di un vasto porto fluviale e Dura nacque dall’unione di una stazione carovaniera con un forte della frontiera, Palmira sta a sé come il più grande centro carovaniero dei tempi romani, nel deserto siriano. Le carovane, che dalla Mesopotamia si dirigevano verso nord-ovest, attraversando questo deserto, utilizzavano le ricche sorgenti di acqua sulfurea, situate a mezza strada tra l’Eufrate e Damasco e l’oasi che le circonda, come luogo di sosta sulla loro strada verso Occidente. In epoca remota, accanto a una di queste sorgenti, fu costruito un tempio, poi, sorse un villaggio ricordato nella Bibbia come Tadmor (in ebraico, palma) che, più tardi, prese il nome di Palmira, centro della tribù che possedeva l’oasi.

Palmira, a un certo momento, si venne a trovare nell’area di attrito tra la potenza romana, conquistatrice della Siria, dove succedeva alla dinastia ellenistica dei Seleucidi, e il potente impero dei Parti che segnava una vigorosa ripresa del mondo iranico, contro il quale invano lottarono Crasso e Antonio. Palmira era, già, divenuta un centro di commercio sufficientemente ricco per eccitare il desiderio di Antonio, ma ancora non tanto consolidato da impedire ai suoi abitanti di radunare i loro averi e fuggirsene in cerca di salvezza verso l’Eufrate. Dopo il saggio compromesso di Augusto con i Parti, Palmira divenne una città neutrale, semi-indipendente, nella quale si potevano scambiare le mercanzie di quelle due potenze ufficialmente ostili, la Partia e Roma; ciò determinò il brillante sviluppo di Palmira come città carovaniera, trasformandola, con incredibile rapidità, in una delle più ricche, più lussuose e più eleganti città della Siria. Un santuario che vi si trovava era tra i più importanti già al tempo di Tiberio; la strada carovaniera che attraversava la città divenne una delle più grandiose vie dell’Oriente, fiancheggiata da centinaia di colonne, suddivise dagli archi quadrifronti; la terra tutto attorno veniva strappata al deserto; l’acqua sotterranea veniva portata alla città. 

La conquista traianea della Mesopotamia mise in pericolo la posizione mediatrice di Palmira, ma il compromesso compiuto da Adriano allontanò il pericolo e Palmira fu, così, riconoscente a Adriano da considerarlo il nuovo fondatore di Palmira e i suoi cittadini si dissero “Palmireni di Adriano”. Un’iscrizione su una colonna ricorda una statua eretta a un certo Male, segretario della città, il quale rifornì di olio gli abitanti al tempo della venuta di Adriano. Palmira, che continuava a godere di una certa autonomia, ebbe un periodo di grande prosperità, attestato dalla nuova legge fiscale, la famosa “Tariffa di Palmira”, incisa in circa quattrocento righe, in lingua palmirena e in greco, sulla colossale stele quadrangolare (137 d.C.) di ben 5 metri di lato, scoperta, nel 1881, nell’agorà, dal principe Lazarev (oggi, al museo dell’Ermitage di San Pietroburgo) e che costituisce uno dei più importanti documenti fiscali dell’antichità. La legge fissava i doveri dei contribuenti che pagavano e dei pubblicani che dovevano riscuotere, i diritti di entrata e di uscita dell’acqua delle fonti, del sale importato o raccolto nelle vicine saline, delle lane italiche, delle conserve di pesce, delle pelli di cammello, delle erbe, dei bronzi, degli schiavi, degli oli, delle prostitute, dei grassi.

La maggior parte dei più importanti edifici della città e dei colonnati e delle tombe monumentali fu innalzata, nel II secolo d.C. Il commercio palmireno si spinse molto lontano e si diramò in Occidente, si strinsero rapporti con Petra, la città dei Nabatei. Palmira non era soltanto una città carovaniera, ma anche un importante centro bancario e finanziario per le carovane.

L’espansione romana verso la Mesopotamia riprese con i successori di Adriano e con i Severi, questa dinastia mezzo semitica, che, molto, favorì Palmira. La città aveva una propria polizia, che si occupava della sicurezza delle carovane e della manutenzione dei suoi caravanserragli e dei pozzi sulle strade carovaniere che partivano dal suo territorio. Erano scorte armate, di arceri montati su cammelli e cavalli, una specie di legione straniera a disposizione dei sinodiarchi, i capi più ricchi delle carovane. Approfittando della dilagante anarchia dell’impero, l’autonomia e la potenza di Palmira crescevano, nonostante l’avanzata persiana. Mentre l’imperatore romano Valeriano veniva fatto prigioniero da Sapore, re dei Persiani, Odeinat, che, di fatto, era il re di Palmira, arrivò a battere Sapore e a conquistare Ctesifonte, ottenendo titoli reali e di autorità romana. Ma la fama di Palmira nella storia e nella leggenda è legata al nome della regina Zenobia, moglie di Odeinat. Alla morte del marito, questa donna autoritaria e intelligente e di cui si vantava la bellezza (ma noi conosciamo il suo ritratto solo dalle monete), concepì l’ambizioso piano di fondare un impero che soppiantasse Roma. Mentre questa lottava contro le invasioni barbariche, Zenobia si impossessò abilmente dell’Egitto, assumendo il titolo di Augusta. 

 I romani ripresero l’Egitto, ma Zenobia, fomentando una rivolta, riuscì a impossessarsene di nuovo; questa specie di imperatrice carovaniera era al culmine della sua potenza, che si estendeva dall’Eufrate al Nilo, i suoi ambasciatori e le sue missioni commerciali erano ovunque, le sue compagnie di navigazione sfruttavano le vie fluviali e 100mila chilometri di piste, nei deserti arabico e siriano. Palmira conobbe gli splendori di una capitale che, oltre alla ricchezza del commercio, si permetteva il lusso di una corte intellettuale, dove brillavano Cassio Longino, autore del Trattato del Sublime e Paolo di Samosata, il brillante vescovo di Antiochia, mentre Zenobia, adottando il vago deismo delle scuole filosofiche di Atene e di Antiochia, proteggeva Paolo, forse, attratta dal nuovo Dio in una città che, già, adorava sessanta divinità.

Mentre Zenobia stava estendendo il suo potere anche in Asia Minore, divenne imperatore a Roma il duro e scrupoloso soldato della Pannonia, Aureliano, il quale, riorganizzati i confini occidentali e stabilizzata la situazione a Roma, piombò in Asia Minore con i veterani delle guerre danubiame. I palmireni si ritirarono in Antiochia; dopo scaramucce elusive, Aureliano entrò, di sorpresa, in Antiochia e le truppe palmirene ripiegarono, frettolosamente, su Emesa, dove fu deciso di dare battaglia. Battaglia risolta in favore di Aureliano, tattico abilissimo che aveva, tra l’altro, risparmiato Antiochia, creandosi così un ambiente favorevole; i famosi arceri di Palmira furono massacrati. Mentre i Romani celebravano il trionfo, Zenobia riparò a Palmira e l’assedio alla città ben fortificata e rifornita iniziò. Aureliano chiese la resa, assicurando la salvezza alla città e la vita e una residenza forzata a Zenobia; la regina respinse, indignata, la proposta, sperando nell’aiuto dei Parti, ma, di fronte alle prime defezioni, fuggì, di notte, con pochi seguaci verso l’Eufrate; catturata dalla cavalleria romana, fu condotta sotto le mura di Palmira, che si arrese e, poi, spedita a Roma come prigioniera.

Aureliano risparmiò la città, smantellandone, tuttavia, le fortificazioni, asportandone il tesoro e insediandovi una guarnigione; Longino venne giustiziato nel teatro. L’occasione era propizia anche per imporre limiti ai Parti. Mentre Aureliano era a Roma, scoppiò, a Palmira una rivolta e la guarnigione romana fu massacrata; l’imperatore ritornò velocissimo, si precipitò a Palmira e la sterminò. Il saccheggio durò otto giorni, una delle più belle città dell’Oriente fu ridotta a un cumulo di rovine e non si risollevò mai più. Dopo il 273 d.C., il suo nome non fu più pronunciato né dai nomadi, né dai Greci e, tra le centinaia di iscrizioni, finora, trovate, una sola è posteriore alla caduta di Palmira, è l’iscrizione del Campo di Diocleziano, il quale riportò un pò di vita in funzione della pista dell’est, consolidata per la difesa del Limes.

A Roma, Aureliano aggiogò al suo carro di trionfo la bella Zenobia, coperta di gioielli e legata con catene d’oro, ma le fece grazia della vita, relegandola in una villa a Tivoli. Zenobia, tuttavia, non rinunciò all’intrigo e partecipò a un complotto con alcuni senatori. Scoperto l’intrigo, Zenobia venne gettata in una lurida prigione, dove finì strangolata da una schiava; così moriva questa regina d’Oriente, emula di Cleopatra, che osò sfidare Roma, costituendo un effimero impero carovaniero.

Abbandonata per secoli, ignorata dai Crociati, Palmira è segnalata da rari viaggiatori, quali il rabbino spagnolo Beniamino di Tudela, che visitò gli ebrei di Palmira, nel 1172, il nostro Pietro della Valle e pochi altri. Alla fine del secolo XVII, alcuni commercianti inglesi di Aleppo, allettati dai racconti dei nomadi, intrapresero il viaggio verso Palmira, ma lungo la strada furono depredati dai beduini; da buoni inglesi tenaci ritentarono, venti anni dopo, e raggiunsero la città, di cui descrivono le meraviglie nel loro Viaggio da Aleppo a Gerusalemme durante la Pasqua. Un certo Cornelius Loos, al seguito di Carlo XII di Svezia, prigioniero dei turchi, disegnò, nel 1710, le rovine di Palmira; i pochi preziosi disegni, salvatisi nelle battaglie tra turchi e svedesi, sono conservati a Upsala. Seguirono nuovi viaggiatori inglesi e francesi e la fama di Palmira era tale che gli amici francesi di Caterina di Russia la paragonarono a Zenobia, battezzando San Pietroburgo “la Palmira del Nord”. Esplorazioni, scavi e scoperte procedettero a ritmo incalzante (oltre 1500 iscrizioni) a opera di missioni francesi, danesi e belghe; il Servizio delle Antichità dell’Alto Commissariato e, poi, la Direzione delle Antichità di Damasco si applicarono, metodicamente, allo scavo e al restauro.

La prima visione che si presenta, oggi, al viaggiatore che giunge da Damasco su una incerta pista di oltre 250 chilometri, abbagliato dalla uniforme distesa di sabbia, è la valle delle tombe. In una stretta gola, tra dirupate colline che muovono, finalmente, il paesaggio, la lunga teoria delle torri funerarie ha qualcosa di lunare nello scenario giallo-rosato, dominato dalla massa dorata del castello arabo. Singolari monumenti sono queste alte torri quadrangolari a pareti piene, con porta ornata, talvolta, un nicchione superiore a loggiato con gruppi figurati (la famiglia attorno al defunto sul letto del banchetto), rade finestrine, nell’interno a più piani, con loculi divisi da pilastri e chiusi da lastre di pietra, con busti scolpiti, soffitto a cassettoni, decorati da rosoni bianchi, dipinti sul fondo blu: splendide quelle di Elahbel e di Giamblico.

La stessa sontuosità interna si ritrova nelle tombe ipogee, scavate nella roccia, con vari ambienti a esedre in un complesso architettonico-decorativo e una ricchissima serie di quei busti scolpiti che, ora, si trovano nei musei di tutto il mondo, immagini frontali di valore magico, astrattamente stilizzate, dai grandi occhi animati. Gli uomini vestono tunica e mantello, i capelli sono resi a piccole spirali, nella parte inferiore dei volti tratti individualistici, nella parte superiore modello convenzionale; nelle stele dei soldati è scolpito a bassorilievo sul fondo il simbolo del corpo cui appartenevano; le armi, la testa di un cavallo o quella di un cammello. Le donne sono sontuosamente vestite e ingioiellate con diadema e velo, con una mano tengono un lembo del mantello o mostrano il palmo. Il connubio di gusto ellenico e di gusto partico dà a queste sculture uno stile inconfondibile di sapore esotico. Non mancano sarcofagi figurati, disposti come letti attorno a una tavola, rilievi rappresentanti il banchetto funebre, cavalieri e scene di partenza per la caccia, con costumi iranici, tuniche e pantaloni ricamati. Negli ipogei, sono conservate anche pitture murali, rari esempi di pitture antiche giunte fino a noi, con figure di Vittorie ritte su globi e reggenti medaglioni con busti, ritratti funerari e scene mitologiche, decorazioni floreali. L’ipogeo detto dei “tre Fratelli” poteva contenere fino a quattrocento posti ed era, pertanto, stato affittato a varie famiglie. Le mummie nei loro sarcofagi erano avviluppate in pezze di seta cinese e in tele di lino decorate da fasce di lana tinta con la porpora.

Tutte le vie carovaniere convergono nella città su una singola via, la principale arteria carovaniera, che si scorge da lontano e che dà fama alla città per la sfilata di colonne con le mensole per le statue dei personaggi, che le edificarono, e gli archi dei crocicchi, i celebri tetrapili. I palmireni erano fieri di questa grande strada.

Su ogni lato erano 375 colonne (circa 150 sono ancora in piedi), essa va quasi dritta da Oriente a Occidente, benché in un punto faccia un gomito improvviso mascherato da un arco a tre fornici, modello di architettura illusiva; la strada non poteva tirar dritto nel deserto perché il suo corso era determinato dal tempio principale con il suo grande peribolo. L’ultimo tratto di strada tra l’arco e il tempio dovette diventare una specie di sacro dromos. La scelta del luogo per il tempio era stata predeterminata dalla religione e non dovuta alla configurazione del terreno o alla direzione che le carovane erano tenute a seguire. Il colossale tempio, sgombrato dalle capanne arabe, che si erano asserragliate dentro, era stato dedicato al dio babilonese Bel, nel 32 d.C.; la forma strana e asimmetrica, non greca, della sua cella, lunga e stretta, divisa in tre parti ineguali, circondata da un colonnato corinzio che, un tempo, aveva capitelli di bronzo dorato, con un ingresso non centrato ma laterale sulla facciata, è dovuta, probabilmente, al fatto che essa sostituì la cella di un precedente tempio sumero-babilonese. L’immensa corte di 40mila metri quadrati è una ricostruzione del II secolo d.C. della primitiva corte di tipo orientale, con portici a doppio colonnato, che proteggevano dal sole; sul lato ovest, è una lunga rampa per il passaggio dei cammelli e dei tori. Poiché la città non fu protetta da mura, se non al tempo di Zenobia, il tempio, chiuso dentro i poderosi muraglioni della sua vasta cinta, serviva anche come forte, nel quale la popolazione poteva trovare rifugio dalle incursioni dei beduini nomadi. Bassorilievi monumentali ornano le parti alte del santuario e i soffitti del peristilio: scena di offerta con i sacerdoti, processione del cavallo e del cammello, motivo legato a culti di origine araba, rappresentati anche su rilievi in terracotta, che mostrano processioni, nelle quali le divinità del clan erano portate a dorso di cammello, forse, sotto forma di betilo, in un padiglione di cuoio. Il principio della lotta del Bene e del Male è adombrato nella scena del combattimento contro l’anguipede.

Molto complicata era la famiglia di dei adorata in questo santuario, nel quale si mescolarono elementi babilonesi, partici, arabi e, poi, forme ellenico-romane. Il dio principale era Bel, seguiva Baal Shamin che in età romana divenne suo rivale perché chiamato in centinaia di dediche “il benedetto nell’eternità, il buono, il misericordioso”, ambedue erano divinità del mondo superiore ed equivalenti del greco Zeus. Furono aggiunti gli dei del Sole e della Luna, chiamati Yarhibol e Aglibol, buone e misericordiose divinità, luci conduttrici della notte e del giorno, adorati da coloro che passavano, lunghe notti e lunghi giorni, nel deserto sulle strade carovaniere. Tra i numerosi dei erano anche i patroni dei cavalieri quali Arsu, rappresentato quale giovane soldato a dorso di cammello o addirittura come cammello. Questo complesso pantheon di divinità richiedeva riti e culti diversi tra cui la ierogamia (una donna dormiva nel tempio attendendo il dio che, nella notte, scendeva su di lei) e una potente casta sacerdotale prosperava in questo ambiente, dove il tempio e la strada carovaniera, la religione e il lucro erano strettamente legati.

Altri templi sorgevano nella città, dotata di grandiosi edifici pubblici, quali il teatro, con la sua splendida scena e tre nicchie, che era anche il centro della vita politica e religiosa, dove si svolgevano adunanze e cerimonie, la grande agorà quadrangolare, i ricchi quartieri di case signorili con le corti, colonnati che ricordano la tradizione dei palazzi partici.

Miscuglio di razze e di lingue, crocevia delle più importanti strade carovaniere del mondo antico, Palmira, “la fidanzata del deserto”, cantata dai poeti nomadi per le sue palme, le sue acque, i suoi datteri, ha il fascino romantico di rovine grandiose e deserte tra le quali un hotel, pomposamente, inalbera il nome di Zenobia.

 

 

Daniela Zini

Copyright © 10 novembre 2011 ADZ

 


 



Giovedì 10 Novembre,2011 Ore: 22:30
 
 
Commenti

Gli ultimi messaggi sono posti alla fine

Autore Città Giorno Ora
Dimitri Strazzeri palermo 11/11/2011 12.38
Titolo:complimenti
Che dire? spero di conoscerti presto e intanto approfitto per farti i miei più sinceri complimenti.

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